E adesso, Spalletti, basta con gli oriundi! Cominciamoci da qui. 
Alt! Avvertenza: i contenuti di questo articolo potrebbero nuocere alla percezione superficiale dei politicamente corretti. 

Dicevamo. 
Spalletti, basta con gli oriundi!
Un attimo!  Prima, i complimenti di rito al tecnico toscano e le felicitazioni d’un tifoso della nazionale, come me, appassionato, innamorato, morbosamente attaccato all’azzurro - Italia. Tu, Spalletti …  scusa se ti do del tu, ma adesso sei il Ct di tutti, ci sei familiare come non mai … tu meritavi questo posto, tu saprai darvi lustro e risultati. Ne sono certo, siamo tutti fiduciosi. 

Sì, però ... basta con gli oriundi! Basta con queste convocazioni forzate, con questi “italiani per forza”.
Gli oriundi sono la resa incondizionata del nostro calcio alla sua stessa involuzione. Gli oriundi sono il nostro specchio delle brame: c’illudono, forse, di essere più belli di quanto effettivamente lo siamo. Gli oriundi sono italiani a metà (o anche meno della metà) che, esiliati dalle rappresentative dei loro veri Paesi di provenienza, cercano e trovano qui asilo. 
Sono la cartina al tornasole d’un ciclo inacidito che, dopo i fasti e i nefasti gironi di qualificazione, cerca altrove l’acalino insapore della vittoria a tutti i costi. Sono l’espediente posticcio per soluzioni forzate, sperimentate da chi fa del pallone soltanto un cinico esercizio di utilitarismo. 

Sono le bandiere, non tricolori, che un Ct ammaina, arrendendosi all’idea malsana che italiani buoni non ce ne siano abbastanza. Sono come la Gioconda per i francesi: possono beneficiarne quanto vogliono, Monna Lisa è nostra e il loro sarà sempre un orgoglio a metà. 

E no, mister. No che non va bene! 
Rovistare tra le carte ingiallite di qualche anagrafe ammuffita, alla spasmodica ricerca d’una qualche parentela lontana, significa errare alla cieca, nel tentativo di trovare un quadrato dentro cui infilarci il cerchio che viene alle testa quando si è Ct. Oppure, nella migliore delle ipotesi (o forse peggiore), significa azzerare ogni principio d’appartenenza e identità, pur di vincere una partita in più (semprechè la si vinca).

Ad ogni modo, quale che sia la ratio che sta alla base di siffatte estreme soluzioni “estere”, a cui il tuo predecessore è ricorso con sempre maggior frequenza, è una ratio molto ragionata ma poco, pochissimo patriottica. 
È cos’è il patriottismo? 
È ciò che un secolo fa definì Vittorio Pozzo, giustificandosi proprio dell’impiego degli oriundi: “Se possono morire per l'Italia, possono anche giocare per l'Italia”.
Ecco la differenza! Nessuno, rispetto a questa mia riflessione sugli oriundi, può ragionevolmente obiettare che Vittorio Pozzo, il più grande commissario tecnico della storia italiana, ne abbia utilizzati parecchi. Quello era un altro mondo ed era un’altra Italia. Era l’Italia povera che emigrava e quelli erano davvero italiani, perché i loro padri e madri lo erano, in casa loro si parlava italiano, si viveva Italiano, si pensava Italiano. E combattevano al fronte per l’Italia. Erano patrioti, che semplicemente vivevano in altre parti del mondo. Non erano trascorse due o tre o quattro generazioni, non c’era bisogno di andare a scovare chissà quale linea di discendenza; la loro italianità era lì, con loro, scorreva nelle loro vene, batteva nei loro petti, emanava dai loro occhi, proveniva dalle loro case. 

E quando indossavano quella maglia, ci credevano. 
Il patriottismo, mister! Anche nel calcio ne abbiamo un gran bisogno, come nelle cose dello Stato. Abbiamo bisogno che esso non si disperda tra le maglie, invisibili eppur fortissime, del relativismo culturale che ammorba la nostra società, specie nelle sue più giovani leve. Leve sociali, leve culturali, leve sportive: fa tutto parte del medesimo tessuto connettivo, sono tutte articolazioni d’un solo grande Paese, è un’unica tela dal tricolore un po’ troppo sbiadito. 

E, invece, cos’è diventato il patriottismo, se non una parola svuotata, svilita, sfruttata?  Esso è oramai, ahimè, una sottocategoria di quell’identitario sentiment destrofilo, che ha la falsa pretesa di distinguere i territori dai suoli, la sicurezza dal caos, i muri dai ponti, la preservazione dall’integrazione. Tutte panzanate! Generate ad hoc dallo scadente dibattito politico - sociale che anima il nostro Paese, permeandolo di falsi miti e falsità ideologiche.

Il patriottismo è tutt’altra cosa, caro Spalletti e cara Federazione. È appartenenza a una storia, a delle radici, a una cultura, a delle origini vere (e non in qualche modo rintracciate). 
È cantare l’inno perché ogni singolo suo verso ti fa vibrare le corde dell’anima. È riconoscersi nelle tradizioni, rispecchiarsi nelle quotidianità, anche le più banali, è vivere in Italia, vivere Italia, vivere per l’Italia.
Ed è accogliere, anche. Certo. Nella convinzione che l’accoglienza sia, oltre che un dovere d’umanità, una opportunità, non solo per colui che viene accolto ma anche per coloro che accolgono. Ma sempre nella sacrosanta distinzione tra un popolo e l’altro. 
Perché se metti un brasiliano davanti a una partita della nostra nazionale, questi può anche avere avuto nonni e zii e cugini italiani, ma non sentirà mai le vene e i polsi tremare ad ogni azione-gol dei nostri, né gli tremeranno le gambe ad ogni azione pericolosa degli altri.

E sì, compatriota Luciano. Perché il patriottismo è anche unirsi attorno a una partita di pallone, quando gioca la tua nazionale.  La mia nazionale, la nostra nazionale! Davanti a quella maglia ci sentiamo italiani come non mai. È un mastice incredibile, ci unisce tutti quanti, uomini e donne, vegetariani e ubriaconi, imprenditori e operai, insegnanti e discepoli, leaders e popolo, suore e puttane, ladri e sbirri. Persino i grillini in quelle occasioni gridan Forza Italia senza che nessuno ci faccia granché caso. 
È la nostra, è la mia nazionale. 
E devo ammetterlo: non la sento completamente mia, quando a difenderne i colori sia un ragazzo che, per quanto bravo possa essere, per quanto possa impegnarsi, per quanto possa sudarla, quella maglia, non è italiano.  
E credimi, mister, non c’è nessuna esterofobia in questo. 

Ma dimmi: che c’entra con l’Italia Mateo Retegui? (Mateo, con una sola T). Non solo, ma tempo fa ho letto che Mancini aveva pensato di convocare pure un tal Lucas Piton (Lucas, con la S). Cosa hanno di italiano questi ragazzi? E per favore, non dirmi di qualche nonno o trisavolo emigrato, non tirar fuori, tu quoque, una delle tante odissee da dopoguerra o cose di queste genere.
Quindi, di grazia, non convocarli! Almeno tu …
Sono italiani? No. Hanno genitori italiani? No. Parlano un dialetto, uno dei nostri molteplici, fantastici dialetti e slang e inflessioni? No. Hanno mai vissuto in Italia? No. Conoscono il nostro inno, senza che nessuno debba preventivamente indottrinarli per occhio di popolo? No. Hanno mai respirato la nostra quotidianità? No. Sono stati “allattati” a pane e nutella? No. Hanno mai mangiato un’arancina per colazione o un canederlo per cena o un tiramisù per dessert? No. Hanno mai guardato la Giocanda come la guadiamo noi, cioè chiedendosi perché non è qua? No. 
Hanno pianto per l’alluvione dell’Emilia o per i fuochi della Sicilia, come di recente abbiam pianto noi, che ci sentiamo tutti vittime e fratelli in quelle lacrime di disperazione? No. 
E, visto che sono calciatori, quand’erano bambini e giocavano per strada, che magliette indossavano? Della Juve, dell’Inter, della Roma? No. 
E dove hanno fatto le giovanili? In Italia? No. E quando, nel 2006, videro “Caaaannnnavaro” alzare la coppa del mondo, hanno esultato? No. E dov’erano quella sera? Erano forse con noi a tribolare fino al triplice fischio? No. La ricordano, quella sera? Ricordano dov’erano, con chi erano, che facevano? No. 

No, Spalletti, mi dispiace, non sono italiani, se non sulla carta. Italiani a metà o anche meno, molto meno della metà. Perciò, non convocarli… 
A proposito di quei mondiali, certo saremo sempre grati a Camoranesi, che è stato un artefice di quell’impresa. Ma lui era un’altra cosa, lui veniva da anni di militanza nel nostro campionato; lui, insomma, era un oriundo, si, ma l’italianità se l’era cucita addosso. E, per certi versi, lo stesso discorso potrebbe valere pure per il Jorginho campione d’Europa in carica. Io li ho pur sempre visti come stranieri che ci davano una mano, ma in qualche modo ne accettavo la presenza.

E sì, mister, perché ci sono oriundi e oriundi e molti di questi non hanno niente, ma proprio niente, di italiano. Non ce l’ho con loro, ci mancherebbe, semplicemente non mi rappresentano, semplicemente quella maglia che indossano può essere azzurra quanto vuoi, ma non sarà mai, almeno per me, l’azzurro-Italia. 

Non c’è senso d’esclusione, in queste mie parole; c’è solo senso di identità vera. Quella che esula da slogan e preconcetti. Quella che tutti, da nord a sud, dal basso verso l’alto, da sinistra a destra, tutti noi respiriamo quando alla mattina ci alziamo, apriamo la finestra e, con l’essenza della moka ancora tra le narici, ci facciamo accarezzare il viso dal sole di Palermo o ce lo facciamo sfrigolare dalla nebbiolina padana o ce lo facciamo sferzare dal vento triestino. Quella che professiamo come un credo quando nel traffico imprechiamo. Quella che … in un giorno di pioggia il governo è più ladro che mai.  Quella che ci fa andare alla Scala e … tutti in piedi per il Presidente. Quella dei cine-panettoni e del festival di Sanremo, dove cantavamo L’italiano e beffeggiavamo i Duran Duran (mitici!). 

Donelli o Fraulo o Piton o Facundo González … che c’entrano con tutto questo? Piton! Non ce l’ho con lui (giuro!), però dai … nemmeno fosse Roberto Carlos!  E anche se lo fosse (glielo auguro), per me sarebbe proprio come la Gioconda per i transalpini: sono costoro a beneficiarne, ma è, e rimane, nostra; perciò, il loro orgoglio sarà sempre e solo a metà. 

È solo che qua esponiamo al massimo un Cimabue … no, quello è italiano al 100%. Scusami per la metafora riuscita a metà, un po’ come gli oriundi, del resto: italiani solo a metà. Meno della metà, molto meno.

Voglio infine raccontarti di Sergio. 
Sergio è un ragazzo di 16 anni, alto 1,86, spalle larghe, gambe che acquisiscono sempre più la consistenza del marmo. Gioca al calcio, un gran difensore centrale, dicono. Si allena, mangia bene, gioca meglio. Non ha grilli per la testa, solo un obiettivo: essere chiamato da una società importante e avere la sua chance. Ce l’avrà e la sfrutterà, perché è forte.
Ma dimmi, mister, cosa deve pensare il buon Sergio (senza S finali o H in mezzo), quando tu chiamerai il Piton di turno, semmai lo chiamerai? Lui non pensa niente, lui pensa solo a giocare, ma certo non è un bel messaggio per questi ragazzi in erba. I quali devono già fare i conti con le rose zeppe di stranieri (la Salernitana ha appena ingaggiato un attaccante giamaicano dalla capigliatura impossibile … mah!); ci mettiamo pure i Ct esterofili e … amen. 
Anzi, no amen. Affanbrodo a Sergio.
E al calcio italiano.