Di recente ho voluto tirare le somme del Fair Play Finanziario, dopo quasi dieci anni dall’entrata in vigore di questo particolare regolamento UEFA. Riassumendo per sommi capi, sostanzialmente questa invenzione targata Platini ha avuto dei lati positivi, così come ha dovuto affrontare dei lati molto oscuri. Da una parte infatti, il FPF ha costretto il sistema calcio a non sperperare più importanti risorse finanziarie, come faceva invece in passato. Gli indebitamenti si sono ridotti e si sono fatti più sostenibili; almeno agli inizi, la competitività è aumentata nella corsa ai più importanti trofei europei; ha imposto finalmente un po’ di raziocinio nella gestione economica dei club professionistici. Detto ciò, non è tutto oro quello che luccica. L’anarchia finanziaria in cui il calcio ha vissuto tra il 1995 e il 2011, proprio come un’infezione batterica attaccata dall’antibiotico formato Fair Play Finanziario, è diventata resistente alla terapia. E ciò lo si può certificare all’emergere di due particolari effetti collaterali, di cui abbiamo avuto prova, o quantomeno sospetto, nell’ultimo lustro: 

  • Inflazione del costo di cartellini e stipendi, cominciata nel 2017 col trasferimento monstre di Neymar, dal Barcellona al PSG, per un valore di 222 milioni di €. Valore che ha raddoppiato il più oneroso trasferimento della storia sino ad allora, e verificatosi appena un anno prima, di 105 milioni (Pogba: Juventus —> Manchester United)

  • Possibili scorrettezze difficili da provare, come ad esempio sospette ricapitalizzazioni mascherate da sponsorizzazioni, al fine di migliorare i profitti di alcuni club

Due effetti sufficienti a mettere in crisi l’intero sistema, almeno così come era stato ideato più di dieci anni fa. Ne sono in grado, in quanto colpiscono i due piloni fondanti del Fair Play Finanziario, motivazioni focali per cui esso è stato creato: 

  • Rendere il sistema calcio più equo, in grado di portare anche le medio piccole squadre a concorrere per trofei importanti

  • Evitare sperpero di denaro attraverso le ricapitalizzazioni sfrenate

Se in principio la cosa pareva dunque funzionare, ora alcuni ingranaggi del meccanismo paiono essersi bloccati. Urge dunque una soluzione rapida e decisa, al fine che il sistema vigente non crolli su sé stesso. In questo il Salary Cap potrebbe certamente aiutare, o comunque dare un colpo di defibrillatore a un sistema vicino al collasso. Perché, almeno a mio avviso, di collasso si parla. Ma che cos’è il Salary Cap e perché potrebbe essere una soluzione per mettere una pezza, oltre che al Fair Play Finanziario, all’intero sistema calcio europeo? Il Salary Cap è di fatto il cosiddetto Tetto Salariale, ovvero il massimo che una squadra può spendere nel corso di un anno, per il monte ingaggi dei giocatori. Si tratta di una regolamentazione molto diffusa oltre oceano, infatti i più famosi sport americani la adottano. In altre parole, che cosa accadrebbe se la UEFA, tutto d’un tratto, decidesse di imporre il Salary Cap in Europa? Significherebbe che, dal momento della sua entrata in vigore, le squadre potrebbero spendere al massimo una cifra X per gli stipendi della propria rosa. Se tale cifra fosse 80 milioni, ogni squadra dovrebbe al massimo pareggiare tale cifra, pena esclusione dalle coppe. Questo a quale scopo? Semplice: 

  1. Fare in modo che nessuna squadra si possa acapparare i migliori, promettendo stipendi sontuosi. In questo modo si aumenta la competizione

  2. Ridurre gli effetti dell’inflazione degli stipendi, diminuendo così lo sperpero di risorse

Purtroppo, dato che tutto il mondo è paese quando si parla di regole, è anche vero che il Salary Cap possa non bastare, non da solo almeno. I giocatori infatti non prendono soldi solo dai club, ma anche dagli sponsor, a volte persino in quantità maggiore. E gli sponsor hanno interesse a far felici i club più ricchi e importanti, perché hanno una platea di potenziali clienti molto più grande. Ergo, in loco di possibile Salary Cap, qualora una squadra sarebbe impossibilitata a fornire al giocatore lo stipendio richiesto, subentrerebbe lo sponsor a metterci il resto, a patto che rimanga in quel club. Risultato, ancora una volta il sistema entrerebbe in crisi, almeno dal punto di vista della competizione. Chi avrebbe infatti il favore degli sponsor potrebbe permettersi i migliori, mentre le medio piccole tornerebbero nell’anonimato. Dunque il Salary Cap da solo apporterebbe solo una parte della soluzione. E questo cosa significa? Che si dovrebbe imporre un tetto di reddito addirittura ai giocatori? Impensabile ed eticamente ingiusto, anche se molte volte tali guadagni sono spropositati. La cosa più difficile al mondo è infatti mettere le mani in tasca alla gente. Chi o quale organo potrebbe infatti sancire che un professionista, a fronte di importanti introiti da club  o sponsor, se ne debba privare? Un conto è imporre un regolamento riguardo la partecipazione di un club a delle competizioni; un altro è regolamentare i redditi delle singole persone. La UEFA infatti non si può sostituire, o aggiungere, alle Agenzie delle Entrate delle varie nazioni europee. Non ha potere di richiedere limiti ai redditi o forme di tassazione opzionali, all’insorgere di determinate situazioni. Dunque il problema, nel caso dovesse realmente sorgere, è ineliminabile? Purtroppo la strada della regolamentazione non è mai semplice. Non esiste infatti legge o regola in grado di eliminare tutti problemi. Per questo le leggi non rimangono mai le stesse, ma mutano nel tempo. Vengono aggiustate, al fine di far fronte a incognite in passato inattese. Il concetto è trovare il sentiero giusto da seguire e, almeno a mio avviso, il Fair Play Finanziario ci era riuscito. Ora non deve essere abbandonato, come molti invece sostengono, ma rivisto e rinforzato. Il Salary Cap, per quanto imperfetto, potrebbe aiutare, nella consapevolezza però che anche la sua logica non è imbattibile. 

Morale della favola, che piaccia o meno la UEFA prima o poi dovrà cambiare i propri schemi mentali. Qualche cosa si dovrà fare nel prossimo lustro, prima che altri scenari, oggi solo paventati, diventino realtà. Le voci sempre più frequenti su una possibile SuperLega, ne sono la diretta dimostrazione. Una strada che porterebbe a una definitiva trasformazione del calcio, da competizione agonistica, ad entertainment all’americana. Una competizione per pochi, per quei club che attirano l’attenzione mondiale, a discapito di una stragrande maggioranza che, da quel momento, finirebbe a ricoprire il mero ruolo di comparsa. E sebbene in diversi vedano con giubilo una simile possibilità, il sottoscritto la guarda invece con sospetto e un pizzico di raccapriccio. Perché, per quanto possa essere anacronistico quanto sto per dire, il calcio rimane uno sport agonistico, dove tutti, seppur con difficoltà inique, possono alla fine vincere. E se questo è anche il pensiero della UEFA, allora è forse giunto il tempo che sia dia una mossa, prima che sia qualcun’altro a farla per lei. 

“A ogni essere umano è stata donata una grande virtù: la capacità di scegliere. Chi non la utilizza, la trasforma in una maledizione - e gli altri sceglieranno per lui” - Paulo Coelho


Un abbraccio

Novak