Ieri sera ho potuto assistere a Liverpool - Atletico e, forse per la "carestia" del momento, che rabbonisce la disposizione dell'animo, voglio provare a raccontare le emozioni provate, insieme a qualche considerazione che andrebbe sotto la definizione di "tecnica", ma non vorrei sembrare pretestuoso.

Potremmo esaurire il concetto della tecnica in modo conciso: ha giocato il Liverpool, ha vinto l'Atletico; nulla di nuovo nel gioco del calcio che raramente risulta meritocratico e spesso premia chi sembrerebbe non meritarlo completamente. Se non fosse che, a mio parere, l'Atletico ha meritato. Non so in quanti hanno sentito il Cholo dichiarare, dopo la partita: il Barça ha Messi, noi abbiamo Oblak (che, per inciso ed a beneficio del cronista di CM che ha raccontato la partita in questo sito, è sloveno e non croato). E' una splendida sintesi di uguaglianza fra protagonisti di una squadra, dove non è sempre indispensabile che sia un attaccante a fare la differenza: a volte la fa un portiere e non solo questo non cambia il risultato, dà l'occasione per scrivere qualche riga a proposito dell'epica del calcio.

L'Atletico ha meritato perché si è nuovamente riconosciuto totalmente nel "Cholismo", anima e corpo. Non nel suo gioco, non nella sua tattica o nella sua disposizione in campo, bensì nella sua anima. Con una sola eccezione: Diego Costa. Ed infatti, non a caso, il Cholo ha pensato bene di toglierlo e proprio da quel momento l'anima ed il corpo della squadra sono diventate unità indissolubile. Certo, probabilmente se il portiere del Liverpool fosse stato Alison e non Adrian in questo momento staremmo commentando un risultato diverso, ma l'epica della serata non sarebbe cambiata. Raramente mi è capitato di notare come il pathos espresso visivamente dall'allenatore in panchina venisse trasferito così completamente in spirito di dedizione ed applicazione dai calciatori in campo: per esemplificare il concetto, mi è sembrato che in campo ci fossero undici Simeone.

Dicevo delle emozioni. Ad Anfield non ci sono striscioni, né tamburi, né fumogeni. Ad Anfield si canta per la propria squadra: non solo You'll never walk alone. Quella è l'apoteosi, la "preghiera laica" che i fedeli rivolgono ad un imprecisato dio del football; ma nel corso della partita ci sono altre canzoni, o cori, che il pubblico fa propri indistintamente ed indipendentemente da età, sesso, posizione nello stadio. E quando partono questi cori è emozione pura, sono brividi lungo le braccia di chiunque abbia mai provato della passione per questo sport; ancora di più se partono quando la squadra perde. Testimoniano un ringraziamento perché i tifosi riconoscono che la squadra ha dato tutto quello che aveva e la sconfitta non è un'umiliazione.

E ancora, emozioni sono i volti dei due allenatori e la loro diversa partecipazione alla partita, palpabile dal linguaggio del corpo. Simeone è riuscito a trasmenttermi in questo modo, ovviamente solo per immagini, il suo essere consapevole dell'inferiorità tecnica rispetto all'avversario (le espressioni della sua faccia erano quasi sempre corrucciate ed allo stesso tempo determinate) e, contemporaneamente, la sua richiesta ai giocatori di resistere. Ha esultato ad ogni parata di Oblak allo stesso modo che per un gol (ed in effetti, il peso specifico delle evoluzioni del portiere sloveno era lo stesso); ha predicato, con i gesti, la calma ma a me è apparso evidente che la calma era l'ultima delle sue sensazioni. Alla fine la gioia della vittoria è andato ad esprimerla, prima ancora che con i suoi giocatori, con il suo "popolo", con la fierezza di un gladiatore al Colosseo che reclama il pollice alto per la sua vita difesa con coraggio.

Klopp è stato, per diverso tempo in passato, il tipo di allenatore "alla Simeone", fino a quando ha deciso di darsi una calmata e di fare affidamento sulla sua intelligenza, ma anche lui non ha lesinato nel regalarci emozioni (anche controverse). E' entrato sul campo guardando malissimo (ed anche insultando per la verità) chi voleva scambiare "il cinque", per via delle disposizioni del Covid-19. In panchina è sembrato incidere poco sullo svolgimento della partita (ma cosa avrebbe dovuto dire ad una squadra che ha costantemente attaccato e che è arrivata a tirare un numero impressionante di volte trovando davanti a sé un "muro" invalicabile), ma anche il suo linguaggio del corpo parlava per lui. Viso pitrificato, continui fischi per "dirigere" i giocatori, movimenti innaturali del corpo, ad ogni occasione che non si concludeva positivamente, che attendevano solo di poter sfogare la gioia del gol.

E che dire del saluto finale tra i due. Ci sono da rispettare le norme del Covid-19 e (almeno mi è parso che fossero guidati da questa necessità) sono arrivati alla stretta di mano con un attimo d'imbarazzo (vi ho letto che avrebbero voluto farlo, ma si sono ricordati che non potevano); così si sono guardati negli occhi ed alla fine si sono toccati con le nocche delle mani strette a pugno, scappando entrambi in direzioni diverse un secondo dopo. In questo piccolo episodio si è racchiusa, a mio avviso, una quantità enorme di umanità costretta in un gesto imbarazzato ma spontaneo.

Sono state due ore di spettacolo e di battaglia sportiva calate in un'atmosfera di gioia e di umanità. Mi rendo conto che nella quotidianità che stiamo vivendo, ancor di più per le notizie che arrivano a proposito della salute dei calciatori, questa partita non avrebbe dovuto giocarsi: credo fosse più corretto fermarsi già da diversi giorni, in Italia ed altrove. Spero che il mio commento verrà visto, da chi eventualmente leggerà, per quelle che erano le mie intenzioni: trasmettere una visione di umanità e di emozioni come una specie di lampo in un cielo forzatamente buio.