Ho già avuto modo di sottolineare che per me la priorità nell'essere su questo sito è quella di scrivere per me stesso su di un argomento che rappresenta la mia vera passione: lo sport ed in particolare il calcio e - come credo la maggior parte di noi - mi rattrista che la situazione che stiamo vivendo spenga, almeno in parte, l'entusiasmo e la voglia di parlare di questa materia come mi piacerebbe.
Lo premetto perché è naturale che questo articolo non avrà molta popolarità ed è giusto che sia così, sto per scrivere su argomenti che poco hanno a che fare con il luogo dove sono: sarò dannatamente, come si usa dire, "off topic".

Sto scrivendo perché ho tempo. Purtroppo, il lavoro che svolgo mal si intreccia con quanto stiamo vivendo, in particolare a Milano, ma anche - seppur con altre declinazioni - nel resto del Paese. Devo quindi ammettere il mio malcontento: in una giornata normale a quest'ora sarei in giro a dispensare consigli sulle materie per le quali credo di avere competenza, ma gli appuntamenti di oggi mi sono stati annullati.

Però non voglio deprimermi: citando il genio di Mel Brooks, con entusiasmo aderisco al famoso duetto del cimitero del suo film capolavoro: "che lavoro infame" - "potrebbe andare peggio, padrone" - "peggio di così? e come" - "potrebbe piovere"...tuoni, fulmini e pioggia dal cielo.

Vabbé, quindi ecco la prima consolazione: la mia squadra è in finale di Copa del Rey dopo un lunghissimo periodo di astinenza e sarà una finale che più che di Copa del Rey si potrebbe definire "Copa Vasca", perché giocherà la Real Sociedad contro l'Athletic Bilbao. San Sebastian e Bilbao sono le due città più importanti dei Paesi Baschi, divise da diverse rivalità fra le quali, ovviamente, quella sportiva è una delle più sentite. La finale si giocherà a Siviglia ad aprile e mi piacerebbe molto essere lì, ma anche se al momento da quelle parti non vi sono allarmismi, mi guardo bene dal valutare, oltre all'acquisto del biglietto, eventuali prenotazioni di voli ed alberghi, per ritrovarmi a qualche giorno dall'evento con eventualità di partita a porte chiuse o addirittura rinviata o cancellata. Svanito sul nascere l'effetto della gioia per questo evento, mi aggrappo ai ricordi. Correva l'anno 1979...stadio di San Siro, Coppa UEFA, Inter - Real Sociedad. Credo che molti iscritti a questo sito (propenderei per la maggior parte di essi) probabilmente in quell'anno non erano ancora nati. Nonostante già abitassi a Milano da quasi 20 anni, ricordo la gioia di poter vedere per la prima volta dal vivo quella che, per tradizione tramandata, era diventata comunque la mia squadra. Com'è ovvio, non c'erano allora grandi possibilità né di viaggiare, né di avere una copertura dei media come quella attuale, quindi non posso certo dire che fossi un tifoso: seguivo le frammentarie notizie che arrivavano, considerando che per la mia famiglia d'origine anche una squadra di calcio (o soprattutto questa) era un legame con il proprio paese (e stiamo parlando dei Paesi Baschi in un periodo in cui era da poco terminato il franchismo e si stava vivendo in pieno il dramma, per molte famiglie, del separatismo); per me il calcio era allora più importante come giocatore (anche se solo in terza categoria), ed in generale vivevo lo sport come praticante, non essendomi mai appassionato da tifoso a nessuna squadra italiana se non per le "discussioni da bar" con i molti amici di allora, per lo più milanisti ed interisti e le nottate trascorse con infinite partite a Subbuteo e similari.

Venivo da studi liceali ed avevo appena cominciato l'università ed in quei tempi, a Milano, questa condizione difficilmente restava fuori da coinvolgimenti politici; benché, per dirla con Enzo Biagi, anch'io sia "nato incendiario e morto pompiere", non rinnego di essere stato ai tempi sulle barricate e mi capitava di seguire, quando non impegnato come giocatore, gli amici in curva nel settore "settembre rossonero" che - a quel tempo - abbinavano in parte la fede politica con quella calcistica; ma non avendo avuto la necessaria iniziazione (o imprinting, come si direbbe ora), né la cultura specifica, è sempre stata una partecipazione socievole ma non sociale.

Come immaginavo, sono finito ancor più "off topic", dimenticandomi di Inter - Real Sociedad, quindi proviamo a ritornarci.
Ricordo perfettamente, anche se il tempo trascorso è tanto, l'entusiasmo dei giorni precedenti la partita e ricordo che arrivai allo stadio con un piccolo gruppo di parenti ed amici, nel settore allora denominato "distinti" (oggi sarebbe un primo anello arancio), entrando in uno stadio semivuoto, con larghissimo anticipo rispetto all'orario della partita e voglio sottolineare che nonostante parlassimo tra di noi in spagnolo, il pubblico che, con il passare del tempo, si accomodò al nostro fianco, fu totalmente amichevole e simpatico (sinceramente, ricordo anche che non mi sentivo del tutto a mio agio e, ad ogni occasione, cercavo di far notare ai miei vicini la mia "italianità"). Tutto il mio gruppo era formato da persone residenti da tempo in Italia, ma dato che si trattava di una specie di "rimpatriata", l'uso di una lingua diversa mi metteva - non so dire per quale ragione - un po' a disagio e, consciamente o inconsciamente, non sapevo se sentirmi più parte di quella rimpatriata o se volessi più far notare una specie di "integrazione" con la mia città ed il mio Paese, essendo comunque nato in Italia; ed ora che mi "rivedo" in questo particolare ricordo, comprendo meglio il motivo per il quale oggi provo imbarazzo quando sento discutere di ius soli o ius culturae.

Dopo un primo tempo equilibrato terminato 0-0, nel quale la Real giocò alla pari, nel secondo tempo l'Inter andò subito in vantaggio e la partita finì 3-0 per i nerazzurri e ricordo che segnò persino Giampiero Marini, noto per avere molte qualità "polmonari" ma piedi decisamente poco raffinati (e lo dico perché segno invece un gol di rara bellezza). La gente intorno a noi cercava persino di consolarci (come ben sappiamo, è più facile avere un comportamento di sportività verso gli avversari quando si vince); eravamo ovviamente delusi per il risultato, ma comunque felici di aver avuto l'opportunità di passare una serata che per noi non era esagerato definire unica.

In quel periodo la Real era una realtà importante del calcio spagnolo, perse un campionato a favore del Madrid all'ultima giornata e successivamente ne vinse due di fila, arrivando anche ad una semifinale di Coppa dei Campioni, eliminata dall'Amburgo. Seguì poi un lungo periodo di alti e bassi, terminato purtroppo con una retrocessione in Segunda (non troppo tempo fa). In anni più vicini a noi, grazie anche ad una mia collaborazione professionale intercorsa con un'azienda basca di abbigliamento sportivo, sponsor tecnico della Real negli anni scorsi, ho avuto modo di vedere diverse partite dal vivo allo stadio Anoeta, recentemente ribattezzato Reale Arena, tra le quali, in questa stagione, Real Sociedad - Barça, terminata 2-2 e non mi vergogno nell'affermare che ogni volta in quello stadio mi pervade una sensazione di felicità che mi fa tornare un po' bambino: l'atmosfera mi sembra sempre gioiosa, respiro una leggerezza che mi appaga l'anima e sono certo che sensazioni come questa siano possibili solo se e quando sei guidato dalla passione.

Manuel Vazquez Montalban, uno dei miei più amati scrittori degli anni '80 e '90, al quale deve il nome il nostro Commissario Montalbano (un omaggio di Camilleri a questo grande "giallista/sociologo"), ha scritto un libro il cui titolo è già - di per sé - un omaggio al calcio ("il centravanti è stato assassinato verso sera"), nel quale, parlando del Barça lo definì (cito a memoria, quindi posso sbagliare qualche parola "l'esercito simbolico e disarmato della Catalogna"); se questa definizione relaziona perfettamente il Barça e la sua appartenenza, il legame tra la Real e San Sebastian e le sue "Sociedad", ovvero le congregazioni del popolo alle quali la squadra deve il nome, sono certamente ancora più profonde.


Credo di aver ottenuto quello che mi prefiggevo: sono riuscito a narrare di calcio nel modo che mi piace in un momento in cui la mia sensazione è che sia difficile discuterne perché abbiamo tutti altre priorità e - purtroppo - chi ne parla lo fa più per polemiche capziose su argomenti che nulla hanno a che vedere con il gioco e la giocosità (quest'ultima difficilmente apprezzabile con gli stati d'animo attuali).

E in questo affollarsi di ricordi e pensieri mi sovviene che questa mattina ho letto che, nell'ambito dello svolgimento delle partite a porte chiuse, non sarà consentito abbracciarsi nel caso di un gol e che ciascun giocatore dovrà bere da una borraccia diversa e, per la parte dei pensieri, questo mi porta a riflettere sul fatto che combattere il virus significa stare lontani: ancora di più di quanto non tendiamo ad essere ultimamente e per rispettare un'ordinanza. Come diceva un mio insegnante, "siamo su di un piano inclinato reso scivoloso" e, aggiungo, potrebbe portarci a dover rinunciare alla socialità?

Mi sento di appartenere ad una generazione che ha attraversato, nel trascorrere degli anni, ribaltamenti del sentire comune piuttosto clamorosi. Ovviamente parlo per me, ma forse qualcun altro (che però non conosco personalmente) si riconoscerà in un riassunto che ha compreso dapprima un bisogno quasi spasmodico di stare insieme e di condividere fisicamente, successivamente un recupero dell'intimità, ed ora una certa apparente infinita (ma virtuale) possibilità di contatti che sembra però - nella realtà - avviarci in una direzione di solitudine.
Da qualche tempo, la responsabilità di questa ultima fase viene addossata allo spasmodico utilizzo dei mezzi di comunicazione ed al web, ora non vorrei che si raggiungesse questo risultato in maniera definitiva per la necessità di evitare un contagio.


Ho mischiato serio e faceto, felicità e nichilismo e me ne scuso. Insomma, ho fatto un casino. Comunque domani pomeriggio c'è Barça - Real Sociedad e sto contando le ore.