Amore e Guerra è un film di Woody Allen del 1975. Uno di quelli (non pochi) nei quali il grande autore newyorkese cerca di esorcizzare la sua profonda paura della morte (si noti, a tale proposito, l’insensatezza della scelta della produzione italiana nel tradurre il titolo originale “Love and Death” – amore e morte - in un più “edulcorato “Amore e Guerra; probabilmente con la speranza di renderlo meno funereo ed attirare più gente al botteghino: insomma, per dire, è come se negli USA avessero deciso di tradurre “Morte a Venezia” con “War in Venice”), attraverso l’amore, ma soprattutto le gioie del sesso – altra ossessione alleniana - che da esso ne derivano; nonché “cucinando” dialoghi filosofici con profonde iniezioni di ironia. La sceneggiatura, come sempre nei suoi film, è strabordante e personalmente non ho mai dimenticato (come penso molti altri che hanno amato il film) i due monologhi filosofici “nonsense”, recitati quasi a raffica da Diane Keaton e da Woody stesso che appare nell’ultima scena da morto e che, in maniera folgorante racchiudono amore, sesso, religione, morte e, in definitiva, la natura umana:

Sonja (Diane Keaton): “Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire, e soffrire è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità… Io spero che tu prenda appunti”

Boris (Woody Allen) da morto: “Grano... Sono morto e loro parlano di grano... La questione è: io ho imparato qualche cosa dalla vita? Solo che gli esseri umani sono divisi in due: mente e corpo. La mente abbraccia tutte le più nobili aspirazioni: come poesia, filosofia... Ma chi si diverte è il corpo. La cosa importante è non essere amari: sapete, se viene fuori che c'è un Dio, io non credo che sia cattivo... credo che... il peggio che si può dire di lui è che fondamentalmente è un disadattato. In fondo, sapete, ci sono cose peggiori della morte: se avete passato una serata con un assicuratore... voi... voi capite cosa intendo... Il segreto credo che sia non pensare la morte è la fine, ma pensarla piuttosto come un modo molto efficace di ridurre le vostre spese. Quanto all'amore, sapete... che si può dire? Non è la quantità dei vostri atti sessuali che conta, è la qualità. D'altronde, se la quantità è meno di una volta ogni sette, otto mesi, io una guardata me la farei dare. Beh, io avrei proprio finito, addio...”

Tutto questo preambolo è legato alla necessità che sento di parlare di amore, guerra e buon senso in questi giorni di D.P.C.M. che parla di “congiunti”, della sua interpretazione da parte dei media a solo scopo polemico, della fine che ha fatto il buon senso di ciascuno di noi, che pare obnubilato da fake news e “video virali” e, ultimo ma non meno importante, dall’utilizzo a più voci della parola GUERRA (“siamo in guerra”, “è come in una guerra”, “combattiamo questa guerra contro un nemico invisibile”… e chi trova la similitudine più lugubre vince una crociera su di una nave alla quale, a destinazione, sarà impedito di attraccare – ovviamente perché il porto è in un Paese che combatte a sua volta la stessa guerra).

Abbiamo messo le decisioni sul nostro futuro in mano agli scienziati e gli diamo voce attraverso i media ed i social. I politici, in tutto il mondo e di tutte le parti, si affidano a comitati tecnico scientifici per proteggersi le spalle e comunicare che le loro decisioni dipendono dai rapporti che questi comitati gli consegnano, senza neppure approfondire i dettagli delle decisioni che prendono e prestando così, inevitabilmente, il fianco a polemiche e rimproveri.

Come altro è possibile interpretare il negare la riapertura ad attività che potrebbero utilizzare questa settimana per adeguarsi alle regole di distanziamento sociale (le uniche, badate bene, che gli scienziati hanno sostenuto e dalle quali non c’è stato nessuno sviluppo) o la limitazione agli incontri, inizialmente riservata ai soli “congiunti”?

Quindi, se sono – ad esempio – un parrucchiere che vuole organizzarsi per ricevere un cliente alla volta e solo su appuntamento, che disinfetta regolarmente i suoi strumenti di lavoro, che utilizza guanti e mascherina e lo stesso chiede di fare ai suoi clienti e che, in definitiva, potrebbe rispettare tutte le regole di igiene e, pur non rispettando la distanza di un metro nello svolgimento del suo lavoro, indossa (e fa indossare) regolare mascherina, non posso lavorare. E qui introduciamo per la prima volta il concetto di buon senso. Ma non era più di buon senso mantenere esclusivamente la rigidità delle regole guida (distanziamento sociale, igiene, dispositivi di protezione) e, con chiarezza, determinare che, fatto salvo il rispetto di queste ultime e con immediato provvedimento di chiusura e multa pecuniaria in caso di controllo e loro mancanza, tutte le attività potevano riaprire nello stesso momento? In questo modo si sarebbe certamente guadagnato in chiarezza, si sarebbero evitate polemiche e si sarebbe ottenuto – probabilmente- un miglioramento del rispetto delle regole da parte di tutti. Al contrario, la scelta di una riapertura scaglionata, con dettagli decisamente farraginosi ed una certa mancanza di chiarezza nella comunicazione, ha portato a polemiche pretestuose e prestato il fianco ad attacchi provenienti da ogni parte.

Ma parliamo un po’ d’amore, con un transfer dall’amore ai tempi del colera e Garcia Marquez, all’amore ai tempi del coronavirus (ancora senza un romanzo pubblicato). Il decreto inizialmente parlava di “visita ai congiunti”, sottintendendo un legame parentale e rispolverando, per l’occasione, un principio che molti di noi ritenevano ormai desueto, per il quale il legame che sottintende affezione possa risiedere esclusivamente nella famiglia. Ora, per carità di patria non voglio scomodare gli indubbi riflessi cupi che rimandano alla mafia e volendo essere di manica larga, valutare che questa comunicazione risenta esclusivamente di stupidità e superficialità da parte di chi l’ha suggerita; e non posso non dubitare che provenga, in qualche modo, dal mondo della scienza. Sarebbe come certificare che posso incontrare mio cugino, del quale non me ne può fregare di meno, ma non la mia fidanzata, che mi manca da due mesi e, soprattutto, non si capisce quale sarebbe la “sicurezza” del primo incontro rispetto all’insicurezza del secondo. Anche l’amore si scontra con il buon senso. Sarebbe stato sufficiente seguire la stessa strada indicata per l’esempio delle aperture; seguire – in altre parole – il buon senso. Se le regole da seguire continuano ad essere distanziamento sociale, igiene, divieto di assembramento e dispositivi di protezione, fatto salvo il loro rispetto, potete incontrare chi vi pare. Abbiamo un comitato tecnico scientifico senza sentimenti, senza cuore o forse è semplicemente talmente attento a non prendersi rischi relativi ad una recrudescenza dei contagi da non poter allargare neanche di un micron le loro menti scientifiche ad esigenze della natura umana? No, non è così ed il nostro Primo Ministro ce ne ha dato una dimostrazione inequivocabile: l'amore lo ha chiesto alle banche. Avete letto bene: alle BANCHE, AMORE. Cioè, in alternativa ad un sistema (possibile perché utilizzato da altri paesi) deciso dal governo e che potesse portare direttamente risorse economiche alle piccole aziende che ne hanno bisogno come l’ossigeno delle terapie intensive, si dice alle banche: vi prego, guardate con amore a chi verrà a chiedere questi prestiti. Quindi si crede nell’amore, anche se, come nella sindrome di Stoccolma, è un amore riposto nel proprio aguzzino. Al contrario di tutte queste situazioni alquanto meschine, proviamo a pensare ad un ragazzo ed una ragazza che si sono conosciuti come studenti all’università a Milano e che si sono separati in quanto studenti fuori sede, ciascuno in un altro luogo diverso della Regione e che, dopo un tempo che l’amore allunga anche oltre la già lunga durata, potranno finalmente, se non riabbracciarsi, almeno rivedersi il 4 maggio, anche se non “congiunti”.

Ed arriviamo, ultimo ma non meno importante, alla guerra. Le generazioni che fanno oggi parte della classe dirigente, per la maggior parte, non hanno un’idea (per fortuna di tutti) di cosa sia – in effetti – una guerra. Paradossalmente, è più probabile che una guerra vera, per qualche tempo ed in maniera comunque “privilegiata”, l’abbiano vista quelle poche persone, probabilmente più giovani d’età, che possono aver prestato la loro opera in scenari di guerra (reporter, giornalisti, fotografi, medici ed altro personale di questo tipo). Non di meno, evocare uno scenario di guerra è un indubbio ed efficace mezzo per mettere pressione sulle persone comuni, spingerle ad agire dominate dalla paura. Evocare la guerra significa creare un nemico, spingere a schierarsi tutti insieme contro di esso e abolire qualunque obiezione a proposito delle decisioni prese; qualche esempio inconfutabile: Gallera risponde a chi gli contesta quanto accaduto nelle RSA che in Lombardia è scoppiata una guerra e che, di conseguenza, si è fatto ciò che si è potuto al meglio; i camion che trasportano le bare evocano indubbiamente uno scenario di guerra; Conte appena possibile ribadisce che stiamo combattendo una guerra (sperando così che il nemico sia per tutti il coronavirus e non il governo); i giornalisti, i conduttori televisivi, i giornali, il web: tutti concentrati su questo punto: intanto cerchiamo di vincere, tutti insieme (anche se c'è chi rema contro), questa guerra.

E’ così? Spiace dissentire, ma non credo. Il collo di bottiglia attraverso il quale si è dovuti passare, ricordiamolo, è stata l’inefficienza e la totale impreparazione del sistema sanitario a contrastare l’epidemia quando la stessa è scoppiata e la prova che questo sia il punto cruciale è la linea attualmente tenuta da CTS e dal governo, tesa ad evitare il rischio di ricaderci; una maggiore disponibilità di posti di terapia intensiva negli ospedali (che l'Italia aveva negli anni passati e che avrebbe continuato ad avere se qualche fenomeno non avesse provveduto a tagliare con la scusa dell'eccellenza) ed una “normale” disponibilità di dispositivi – se mi passate l’allitterazione - come da protocollo del contrasto alle epidemie disponibile nei documenti delle Regioni da 10 anni, non avrebbe certo annullato il passaggio del virus, ma avrebbe certamente limitato i danni. Ma, come è abitudine nel nostro Paese, le responsabilità rimbalzano; ancor più per quelle nelle quali è necessario prendere delle decisioni e si gestisce l’opinione pubblica con un minimo sindacale di informazione confusa e cercando di appigliarsi allo spirito di sacrificio della comunità, spendendo una parola come guerra: grave, meschina, respingente e restringente per creare in parallelo un nemico comune invisibile ma, paradossalmente, facilmente riconoscibile e condivisibile. Il risultato è la perdita di lucidità e l’inevitabile riduzione dello spazio per l’analisi, per discutere e poter approfondire i problemi correttamente.

Anche il mondo del nostro amato sport non sfugge al principio. C’è un ping pong furioso tra FIGC (che dovrebbe farsi portavoce di quanto accade in Lega Calcio) e governo, nella persona del ministro Spadafora. Ciascuna parte vorrebbe che fosse l’altra a prendere la “madre di tutte le decisioni” che, per parte del ministro, porta ad un “come ti muovi, sbagli”. Se deciderà di riprendere e dovesse esserci un contagio tra i calciatori verrà messo in croce per aver dato l’assenso; se – viceversa – deciderà di sospendere definitivamente il campionato per maggiore attenzione alla tutela della salute, verrà crocefisso per aver affossato il sistema, il ritorno economico, le società di Serie A e chi più ne ha più ne metta: mi scuserete l’insistenza sul concetto, ma parrebbe che, alla distribuzione del buon senso, questi signori abbiano bigiato.

A me sembra evidente l’esistenza di alcuni problemi di fondo per i quali non ritengo possibile non ci siano delle soluzioni praticabili che, pur non facendo parte né di CTS, né di task forces, provo umilmente ad ipotizzare.

Il P.d.C. cessi di apparire in pubblico argomentando a braccio delle misure fondamentali per il popolo; organizzi poche “slides” nelle quali faccia un elenco delle disposizioni che può ampliare con un breve commento. Chiunque di noi abbia mai avuto modo di gestire una presentazione di lavoro fa la stessa cosa, mi chiedo come sia possibile che i consulenti del governo non lo suggeriscano al P.d.C.

Si scindano gli aspetti sanitari da quelli economici: tentare di legarli porta inevitabilmente a ricevere critiche per entrambi. Se il CTS elabora un documento di previsione dei contagi a seguito delle aperture, se ne mostri una sintesi e qualcuno ci metta la faccia.

Da tempo non è più differibile che le risorse economiche previste per aiutare il tessuto produttivo arrivino a chi ne ha bisogno. E’ evidente a tutti che non si possono seguire i normali canali "italiani" (leggi burocrazia etc.) che ne portino al possibile utilizzo, è il momento di prendere coraggio e di creare un canale diretto tra le decisioni economiche prese dal governo e la loro attuazione. E’ il momento di ritornare alle teorie Keynesiane di intervento diretto dello Stato nella gestione delle crisi complesse: si faccia una legge e la si voti immediatamente per consentire allo Stato interventi sulle decisioni delle banche.

Ci sono almeno tre possibilità di creare cassa in aggiunta agli eventuali provvedimenti che prenderà l’Europa.

  • Lo Stato può emettere degli “Italia bond”, da vendere solo a risparmiatori italiani e/o a chi ha risorse economiche disponibili (imprenditori e altre categorie benestanti) per aumentare la percentuale di debito italiano nelle mani di italiani (oggi molto bassa) anzichè della BCE e simili e compensabili, in alternativa al rimborso, con futuri crediti fiscali e partecipazioni ad iniziative d’investimento finanziate dallo Stato a fondo perduto.
  • In aggiunta, è il momento di proporre condizioni vantaggiose di rientro dei capitali fuggiti all’estero, attraverso piani di investimento per le aziende in settori con alte potenzialità di sviluppo futuro come la green economy.
  • Proporre alle grandi aziende nazionali che hanno scelto di spostare all’estero la propria sede fiscale delle future agevolazioni fiscali a fronte di un immediato rientro sul suolo nazionale.

Sentiamo da più parti sostenere che in futuro può esserci l’opportunità di guardare al mondo con occhi diversi da prima; una proattività ed una progettualità sostenibile potrebbe convincere il mondo imprenditoriale italiano a guardare allo sviluppo con occhi diversi e, conseguentemente, l’Europa ad aumentare la sua fiducia nei confronti degli indicatori economici da noi sviluppati e questo indirizzo consentirebbe un rilancio dell’occupazione soprattutto in direzione del recupero di tanti talenti che indubbiamente possediamo, ma che oggi sono costretti a guardare all’estero per la loro affermazione.

Queste proposte, che ho qui cercato di sintetizzare, arrivano da diverse fonti imprenditoriali, politiche e persino dal top management del più importante gruppo bancario nazionale e sono rese pubbliche da articoli e studi del Sole 24ore: non si tratta quindi di un’utopia. E’ chiaro che per renderle utili all’ottenimento di un risultato di creazione di risorse e di un progetto per un futuro di sviluppo necessiterebbero di un “pensiero” che dovrebbe prendere forma ORA, magari dedicando ad esse una parte di una delle “task force” create e che, fino ad ora, hanno prodotto poco costrutto.

Affrontiamo un momento di tragedia e di sconforto nel quale, passato lo stupore per il numero impensabile dei morti, è ricominciato lo sport preferito degli italiani: la critica. Per contro, è di norma più costruttivo fare delle proposte utilizzando competenze diverse con l’obiettivo di ricostruire un futuro, imparando – se possibile – dagli errori commessi per non ripeterli. C’è quindi una speranza, insita nella natura dell’uomo e che dovrebbe portarci ad una visione nuova e meno egoistica dello sviluppo economico per realizzare una società nuova e più umana.