A seguito della cessione del quotidiano “la Repubblica” al gruppo Exor ed il conseguente avvicendamento del suo direttore, Carlo Verdelli, in sella da (solo) un anno a favore di Maurizio Molinari, proveniente da “la Stampa” dove è stato direttore piuttosto a lungo, derivo una sensazione, probabilmente esagerata, di preoccupazione a proposito dell’indipendenza dell’informazione rispetto alle proprietà delle testate.

Non credo sia difficile intuire che la motivazione prioritaria del cambio di direttore è quella di accontentare i nuovi gruppi di potere appena entrati nel pacchetto azionario, non di meno il dubbio è che nuovo direttore possa equivalere a nuova linea editoriale e la nomina di un “uomo Exor” di lungo corso come Molinari possa essere, per la nuova proprietà, una più collaudata garanzia di stabilità e moderazione, rispetto a quella che Repubblica ha seguito nell’ultimo anno.

Personalmente, ritengo che Repubblica sia stato a lungo il quotidiano che ha raccolto il miglior gruppo di giornalisti e commentatori italiani: a parte il fondatore, Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, potrei citare Brera e Mura (per cominciare dallo sport), Umberto Eco tra i prestigiosi commentatori, Alberto Arbasino e Pietro Citati (passato poi, se non erro, al Corriere della Sera) nelle pagine della cultura e poi Galimberti, Augias, Serra e molti altri fino ad arrivare a Luca Bottura che, con la sua arguta ironia, mi allieta, da qualche tempo, qualche minuto di lettura.

Pur se il mio giudizio è del tutto irrilevante, ritengo che, al contrario della tradizione appena citata, negli ultimi due anni da un lato il contenuto letterario di Repubblica sia notevolmente peggiorato e dall'altro - per contro - la linea editoriale si sia fatta più netta e decisa in una direzione che condivido; pur non ritenendo, per quanto mi riguarda, un quotidiano - qualunque sia la sua storia e provenienza - la fonte di formazione delle mie idee, che coltivo sempre ed attentamente con la massima autonomia, ritengo che la linea, da sola, sia insufficiente a confezionare un giornale come è stato - sempre a mio giudizio - Repubblica per molti anni. Il prodotto che viene confezionato oggi risente di esigenze di marketing troppo pressanti. La cultura è totalmente svilita per dare spazio a Robinson (2,5 euro alla settimana), gli approfondimenti sono quasi totalmente lasciati all'Espresso (altri 2,5 euro alla settimana) e, per argomenti più leggeri, al Venerdì (2 euro alla settimana), con il supplemento D del sabato arriviamo ad una spesa, nel week end, di quasi 10 euro in 3 giorni per la pubblicazione di supplementi che, almeno in 3 casi su 4, fanno da base ad un incremento della raccolta pubblicitaria, senza che vi sia un equilibrio di aumento del contenuto della qualità redazionale (ancora oggi, sfogliando la seconda parte dell'Espresso, mi capita spesso di chiedermi se sono io che vivo in un mondo parallelo o se il tipo di vita e di consumi proposti dal settimanale non esista nella realtà). Gli argomenti trattati si rincorrono e la sensazione (che può essere sbagliata) è che al posto degli inviati vi sia la preferenza a scrivere gli articoli in redazione basandosi su quanto arriva dalle agenzie di stampa o da quanto si raccoglie attraverso Internet (con relativi rischi di fake news, che possono capitare - e ne abbiamo lette - anche se c'è un controllo di persone specializzate). Gli articoli sono sempre più corti, gli argomenti sempre più banali, con spazio maggiore rispetto a prima per la cronaca (soprattutto se ci sono episodi di cronaca nera eclatanti) e per gli innumerevoli battibecchi dei politici. Dopo il periodo di direzione di Calabresi, molto politically correct, l'avvento di Verdelli ha spostato il timone leggermente a sinistra principalmente costruendo un pulpito autorevole per contrastare il sovranismo: condivido questa scelta ma, come detto, se l'aspetto politico non è supportato da elevati contenuti editoriali, rischia di rimanere piuttosto fine a sé stesso.

Perché l'acquisizione da parte di Exor? Non ho bisogno di specificare che oggi il gruppo è attivo in numerosi settori e che la sua diversificazione dal core business dell’auto rimanda ormai a diversi anni fa e, in aggiunta, la presenza in attività di editoria (prima tra tutte la proprietà de “la Stampa”) è da ritenere, anch’essa, storica; preso da questo punto di vista l’interesse potrebbe essere ricondotto ad una semplice possibilità di ulteriore crescita di fatturato e profitti (la ex proprietà di Repubblica vantava dimensioni non trascurabili per entrambi gli indici di valutazione aziendale). Prima di approfondire questo punto, è necessaria una breve digressione.

Non ho mai creduto, ovviamente, alla totale indipendenza dei quotidiani. Per mestiere e per diletto, conosco un poco il funzionamento del “sistema” negli altri Paesi comparabili all’Italia e da un punto di vista di “schieramento” non vi sono particolari differenze rispetto a noi. Ravvedo invece differenze sostanziali a proposito di spazio dedicato alle varie aree delle quali si compone un “quotidiano nazionale” e, purtroppo, a totale discapito della stampa italiana. In particolare, per Repubblica, comparabile a “El Pais” e “Le Monde” (anche se in Francia esiste “Liberation” che cattura una parte dei potenziali lettori italiani di Repubblica), vedo una continua diminuzione di spazi ed approfondimenti riferiti alla politica estera e degli argomenti una volta inseriti in quella che era la “terza pagina” del giornale (ovvero gli approfondimenti di riflessione sulla politica o sulle idee) a vantaggio di cronaca (più o meno “nera”) e costume (quest’ultimo, da ormai parecchio tempo, monopolizzato da quello che vive intorno al business della moda – o, se preferite, fashion – e della cucina). In altre parole, dal mio modesto punto di vista, già eravamo su di un piano inclinato scivoloso (e non da ieri). Se qualcuno di voi ha provato, per qualunque motivo, nell’ultimo anno, a sfogliare un numero di “El Pais” o “Le Monde” sono certo che sarà d’accordo. Inoltre, i numerosi cambiamenti di grafica ed impostazione del giornale hanno portato ad un ingombro sempre maggiore del titolo di un articolo e dei suoi sottoprodotti immediatamente ad esso riconducibili (occhiello e catenaccio) a scapito del contenuto e, troppo spesso, aumenta la tendenza ad accorciare quest’ultimo con conseguente rischio di superficialità. Infine, ma non da ultimo, l’aspetto di marketing prevale macroscopicamente: si cerca, in altre parole, di parlare la lingua che il potenziale consumatore vuole sentire. Questo non solo relativamente alle idee espresse, ma anche a proposito del linguaggio e dello stile di scrittura.

E’ dunque evidente che avrei in mente un tipo di quotidiano che è piuttosto lontano da tutti quelli che oggi vengono venduti nel nostro Paese; questo senza utopia e tenendo conto che un giornale ha bisogno di vendere copie e pagine pubblicitarie e che senza questi presupposti non avrebbe lunga storia: non di meno, gli esempi citati di altri Paesi dimostrano che, senza avventurarsi in terreni poco praticabili, è possibile confezionare un prodotto meno a sensazione e più di “pensiero” (ammesso che questa nostra facoltà sia ancora praticabile).

Concluso l’exscursus a proposito di quello che mi manca in un quotidiano, credo si sia creato un perimetro più chiaro a proposito delle preoccupazioni su Exor e possiamo quindi addentrarci nell’argomento.
Come ho detto, non credo esista l’indipendenza del giornale rispetto al suo editore; di certo, Scalfari ha potuto sostenere la sua creatura grazie al suo carisma (ed a quello di chi è riuscito a far collaborare al giornale), ma non avrebbe resistito se gli editori che si sono succeduti non fossero stati – chi più chi meno – su di una linea quanto meno convergente a quella manifestata da “Repubblica” nel corso degli anni; per altro, i fedeli lettori possono confermare che, politicamente, essa non sia sempre stata coerente e a questa saltuaria mancanza si è ovviato – almeno fino a poco tempo fa – con la pienezza dei contenuti.

Anche ieri Scalfari confermava (e come avrebbe potuto fare altrimenti?) che il cuore del giornale rimarrà ancora quello di sempre, ma ho ritenuto il suo articolo di fondo un po’ deludente e poco convinto a proposito dei contenuti (umilmente, ritengo che da qualche tempo Scalfari si affidi ad un “ghost writer”, vista l’ossessività con la quale ripete i suoi concetti e l’attenzione parossistica che dedica a Papa Francesco: probabilmente perché vede davanti una strada che – inevitabilmente - si accorcia). Ai lettori attenti non sarà sfuggito il cambiamento di linea (non clamoroso, ma certamente visibile) seguito alla nomina a direttore di Verdelli. Il giornale si è lanciato in una campagna contro il sovranismo con toni e stile decisamente più aggressivi di quanto non avvenisse con la direzione di Calabresi, fino ad arrivare a minacce di morte ed assegnazione di una scorta proprio per Verdelli e, a tale proposito, credo sia giornalisticamente da evidenziare che il giorno della sua rimozione da direttore è coinciso (probabilmente solo per caso) con la data impressa sui messaggi delle minacce di morte.

Pensare ad Exor proprietaria di Repubblica mi riporta ai tempi del lodo Mondadori e di Scalfari che combatteva contro SB.: allora la famiglia Agnelli era ufficialmente fuori dalla contesa, ma “l’imprenditore nazionale di riferimento” era, appunto, SB. e sono state scritte pagine di giornalismo tutto infervorato dalla libertà a proposito di quanto stava accadendo.
Oggi, forse a causa del Covid-19 che monopolizza, in maniera a mio parere a dir poco sovradimensionata, tutta l’impostazione delle notizie, il passaggio di proprietà del quale sto parlando è passato praticamente sotto silenzio: sciopero di un giorno della redazione di Repubblica, nessun commento su “la Stampa”, se non l’editoriale del nuovo direttore, Massimo Giannini. Altro indizio, quest’ultimo, non proprio rassicurante. In pratica: Molinari, più moderato di Verdelli, da “la Stampa” a “Repubblica”; Giannini, uno dei moderati di “Repubblica”, da quest’ultima a “la Stampa”, ovvero: tolgo un affidabile moderato da un giornale né carne né pesce, ma con una grande “affidabilità di famiglia” di lungo corso, per “normalizzare” un giornale lanciato su di una linea precisa e lo sostituisco con qualcuno che viene da quel giornale, magari insoddisfatto di quella linea, che potrà consolidare lo “status quo” esistente.

Inutile specificare che si tratta di una visione dell'argomento del tutto personale; voglio invece aggiungere che non affermo questi principi né per gridare al complotto, né per sollevare dubbi su eventuali intenti manipolatori di Exor, che già ha manipolato a sufficienza in passato le sorti di questo Paese e che avrebbe in mano carte ben più manipolatorie relativamente ad altri settori dell’economia; ed è proprio questa convinzione che ha insinuato il mio dubbio a proposito della decisione d’acquisto. E’ vero, come ho già detto, “Repubblica” appartiene ad un gruppo in crescita di fatturato e che fa utile, è possibile che qualcuno dei soci volesse “fare cassa” (vista anche la situazione non propriamente chiara all’interno della famiglia De Benedetti) e che la cessione fosse nella strategia del gruppo e che quindi c’era un venditore e si è trovato un acquirente; tutto assolutamente logico e trasparente tranne, a mio giudizio, le motivazioni dell’acquisto e solo il tempo ci dirà se lo spirito di “Repubblica” rimarrà immutato e se assisteremo ad un cambiamento di rotta in direzione liberale (o liberista). Ed in effetti è proprio il tempo che ha fatto scaturire la scintilla di questa mia riflessione sull’argomento. Quando nacque Repubblica ero studente al liceo e, per dirla con Enzo Biagi, “incendiario”. “Repubblica” dava spazio, con una motivazione abbastanza “intellettuale” alle rivendicazioni ed alle lotte degli studenti e c’erano collaboratori del calibro di Italo Calvino, della cui ironia mi ero innamorato grazie al “Barone Rampante”: così, pur ritenendolo, insieme al resto della stampa nazionale, un “vizioso strumento della decadente cultura borghese”, cominciai a seguirlo e, da allora, non l’ho praticamente mai abbandonato. Se sulle sue pagine non posso dire si sia formata la mia cultura politica, certamente è cresciuta la mia cultura “generale” legata a scrittori e giornalisti che, in questi lunghi anni, hanno arricchito le mie conoscenze a proposito di arte, letteratura, cinema e, non certo da ultimo, sport; ed hanno commentato 44 anni di avvenimenti nazionali ed internazionali. Sospetto che il bagaglio, per me pesante ed importante, di tutto questo tempo, possa rischiare di non essere più sdoganato secondo il metodo che è stato seguito fino a questo punto. Ma posso – come spesso capita – sbagliarmi.

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