Caro Gianni,

non ti conoscevo personalmente, anche se mi è capitato di incrociarti diverse volte dalla Tullia, al Tagiura, e di scambiare un veloce saluto al quale hai sempre risposto, a volte anche con un mezzo sorriso (da sottolineare, per te con l'espressione burbera, anche se non eri certo una persona triste). Tutti sappiamo che eri un appasionato di cucina, soprattutto quella delle terre di Lombardia e che spesso ti si trovava al Tagiura, appunto, o "al vecchio porco", oppure ci deliziavi raccontantoci, dalle colonne del giornale per il quale scrivevi, che il migliore kebab di Milano è quello di Corso Lodi (una specialità lontana dalla tua terra, ma non dalla tua enorme cultura e da quell'apertura che hai sempre avuto nei confronti di culture diverse).

"Ti sia lieve la terra": è una delle tante cose che ho imparato da te. Hai sempre usato questa breve frase, secondo me insuperabile, per salutare le persone che se ne sono andate prima di te. Ogni volta che l'ho letta mi sono sempre fermato a riflettere sul suo significato, gli ho dato una mia interpretazione (che ovviamente può essere lontana da quello che realmente intendevi) che mi ha portato a pensare che sia una delle espressioni più belle e più vere da dire in un'occasione così triste: la terra sembra opprimere il corpo dopo la sepoltura, ma quello che rimane più a lungo è "l'oppressione della coscienza", è il vero "peso" che puoi portarti dentro: ti sia lieve la terra - per quel poco che conta il mio pensiero - ha sempre significato, per me, che dopo la morte l'anima della persona possa rimanere leggera.

I tuoi racconti hanno accompagnato la mia passione per lo sport e non solo: per la letteratura, la poesia, la storia, la geografia, la cucina, il vino. Da non appassionato di ciclismo, non mi perdevo neppure uno dei tuoi racconti dal Tour de France; la tua descrizione, oltre che delle imprese sportive, delle bottiglie di vino superbo (quante volte ti ho "usato" quale sommelier), dei piatti della cucine francese e dei luoghi, alcuni dei quali pensavo di conoscere bene, ma che apprezzavo molto di più dopo che tu ne avevi parlato. L'estate del Tour è diventata, per anni, una specie di vacanza da lontano: i tuoi racconti stillavano le gocce di sudore dei corridori insieme alla bellezza delle Alpi e dei Pirenei e della campagna francese, alla frescura dei ristoranti di quella campagna nelle sere d'estate. E quel romanzo "giallo su giallo", ambientato (e come avrebbe potuto essere diversamente) proprio al Tour, nel quale hai, secondo me, risentito in maniera superba dell'insegnamento del tuo maestro: Gianni Brera.

Poi c'era, all'inizio di ogni campionato di calcio, la tua "lettura della palla di lardo", nella quale con lo spunto della previsione per chi avrebbe vinto lo scudetto, spaziavi con leggerezza ed ironia, senza risparmiare frecciate e critiche al mondo del calcio milionario. Era questo che ti differenziava da tutti i tuoi colleghi: l'ironia con la quale riuscivi a sferzare anche i personaggi più idolatrati del calcio milionario e l'accuratezza ed il linguaggio dei tuoi commenti alle partite.

Ma ben al di sopra ognuna di queste magnifiche occasioni, c'erano i tuoi "sette giorni di cattivi pensieri" che sono stati per così tanti anni, una delle ragioni (e non certo l'ultima) per le quali attendere la domenica. Con uno stile asciutto eppure ricco, mi hai raccontato di campi di periferia e di violenze anche tra genitori di calciatori in erba, delle ingiustizie del mondo dello sport in Italia e nel mondo, di miracoli compiuti da persone sconosciute e - purtoppo - dell'arroganza di chi occupa il potere nel calcio e nello sport. oltre questi argomenti, nello stesso spazio della tua rubrica non è mai mancata qualche riga dedicata alla musica (della quale eri un profondo conoscitore) e spesso il pezzo si concludeva con qualche poesia, non raramente presa da autori a me sconosciuti, ma dalle quale ho ricavato grande umanità e con le quali credo di essere cresciuto anch'io come uomo. Non sai quante occasioni hai dato a me e ad alcuni dei miei pochi amici più vicini di ore di discussione e commenti a proposito di quello che trovavamo nei tuoi pezzi.

Sono fermamente convinto, caro Gianni, di essere quasi totalmente scevro di attenzione per i mti del nostro tempo, ma ho bisogno di dire che tu sei stato per me un mito. La domenica sarà un po' più triste; non potrò correre in edicola e, appena avuto in mano il giornale, andare alla pagina del tuo pezzo e divorarlo e poi rileggerlo con più attenzione e poterne discutere, al telefono o di persona, con le persone che mi sono più care.

Posso solo dirti grazie per avermi fatto crescere, maturare, per aver contribuito ad allargare la mia mente ed accrescere la mia (scarsa) cultura. E non posso non terminare con quella frase che mi hai fatto amare, anche se riferita ad eventi tristi: "TI SIA LIEVE LA TERRA".