Una bandiera dell’Ecuador affissa alla ringhiera di un balcone mi ha riportato indietro nel tempo, quando da ragazzino attendevo con impazienza europei e mondiali per adoperarmi nello stesso semplice gesto.
In paese, tutti - alcuni esagerando con le misure - coloravano i balconi di verde, bianco e rosso: era quella, in buona sostanza, l’essenza del mondiale. Apporre il tricolore era come dare il benvenuto alle speranze azzurre: una gioia autentica, pura, propria dell'infanzia. 
Quella bandiera ha aperto uno squarcio nel cuore: un doloroso risveglio dal torpore che faceva accettare di buon grado il fatto di non esserci, di non far parte della manifestazione. Ancora una volta.
Nel 2014 avevo 24 anni: ero raggiante, carico per la gioia dell’impiego nella città meneghina e per il “calore” delle festanti notti della stessa. La mia Roma aveva chiuso una stagione da protagonista, alle spalle solo di quella inarrivabile Juve dei 102 punti. Il mondiale non era una novità, bensì una prassi: alzi la mano chi otto anni fa avrebbe pensato realmente di poter vivere un mondiale senza Italia. Era impronosticabile. Forse qualcuno cominciava a preoccuparsi, visto che già i ventitrè in Brasile non è che fossero proprio “una squadra fortissimi”, per dirla alla Checco Zalone.

Nemmeno chi in possesso di memoria storica più ampia avrebbe legittimamente potuto pensare che la nazionale italiana - la seconda con più mondiali in bacheca - potesse calare a picco in maniera così vertiginosa. Nella migliore delle ipotesi, al prossimo giro avrò spento 36 candeline. Non che sia un problema per il sottoscritto, ma per i calciatori classe 90’ e affini, lo è: Immobile, Insigne, Verratti, Florenzi, Perin, De Sciglio, Balotelli - solo per citare i nomi di chi a inizio percorso aveva retaggio da “futuro della nazionale” - non vivranno più l’esperienza del mondiale. Forse ci potrà arrivare un Verratti trentaquattrenne, ma per gli altri è finita qui. Se non altro, i più fortunati sono stati comunque consegnati alla storia da Euro 2020: un trionfo che per quanto accaduto prima e dopo, ha più sentore di un riuscito lancio di dadi piuttosto che di qualcosa di costruito e meritato nel tempo. C’è da dire che lo sconforto è arrivato tutto insieme, perché in realtà il cammino che ci aveva portato sul tetto d’Europa era stato virtuoso, stabilendo pesino il record di risultati utili consecutivi. Tutto faceva pensare che quel gruppo non aveva ancora detto tutto, e che anzi il mondiale potesse essere il coronamento definitivo del cammino percorso da Mancini.
Onestamente, la mancata qualificazione resta una macchia che non si cancella, e probabilmente il commissario tecnico avrebbe dovuto dimettersi: siamo l’Italia, non qualificarsi alle competizioni non dovrebbe neppure essere un obiettivo, e fino a otto anni fa non lo era. Gli azzurri al mondiale erano una certezza assoluta. Allo stesso tempo, anche quando la nazionale era una squadra zeppa di campioni, non ha mai espresso un calcio godibile, piacevole, così come invece accaduto negli ultimi anni con il tecnico ex Inter. Anni fa, nelle occasioni in cui l’Italia scendeva in campo, ero solito apostrofarla come “under due e mezzo”, a sottolineare l’attitudine tutta nostrana ad un calcio tutt’altro che propositivo. Ricordo la squadra incredibile allenata da Trapattoni: ditemi una sola partita che vi abbia entusiasmato. Un gioco di una pesantezza unica, con le gare che sì, le vincevi, perché con Buffon, Nesta, Pirlo e Totti diventa pure difficile non portare a casa la pagnotta, ma si faticava, si arrancava nonostante una rosa dove i più “scarsi” oggi sarebbero prime donne. Il Mancio ci aveva dato un gioco riconoscibile, un’identità quasi da squadra di club. Probabilmente è quella identità - oltre a un pizzico di buona sorte - che ci ha permesso di “sopravvivere” alla Spagna, squadra che in quanto a palleggio non ha pari. Siamo stati senz’altro fortunati all’europeo, ma la vittoria è stata comunque meritata.
Il problema viene dopo. Nasce dalla “paura” di rinnovarsi, di accantonare qualche uomo importante di quel trionfo in luogo di gente con voglia, con il fuoco dentro, con il desiderio di fare la differenza, di diventare attore protagonista al posto di chi già si sentiva tale: “svuotato” da quel successo, compiuto, senza esserlo. A Mancini imputo questo, ancora più della mancata qualificazione. In sua difesa, si può pensare che forse non c’era tempo per esperimenti, dato che gli incontri decisivi in chiave mondiale si sono tenuti pochi mesi dopo alla conquista del titolo continentale. Forse egoisticamente avrebbe fatto bene a lasciare il giorno dopo aver vinto l’europeo: sarebbe andato via da vincente, lasciando in tutti il dubbio che avrebbe potuto ancora dare. Invece è rimasto, e la fortuna che l’aveva accompagnato fino a Wembley ha presentato il conto, riscuotendo attraverso i rigori sbagliati da Jorginho, fatalmente confermato rigorista nonostante un ruolino dal dischetto non proprio da cecchino.

E oggi possiamo raccontarci quello che ci pare. E’ il mondiale probabilmente più criticato della storia. E’ il mondiale dei seimila morti. E’ il mondiale che disputato d’inverno, interrompe campionati e coppe. E’ il mondiale in cui Infantino si prodiga in un intervento di un’ipocrisia tale da renderlo ridicolo, peggiore di un’eventuale silenzio. E’ il mondiale che santifica in via definitiva il “Dio denaro”, che viene prima di tutto, figurarsi del rispetto. Tutto vero, com’è vero che si tratta del secondo mondiale di fila senza Italia, e qualunque tesi passabile per farci pesare di meno la disfatta, non cancella l’amarezza di non esserci.

Diciamoci la verità: ci rode il c***. Di brutto. “Con questa squadra è meglio non essere andati”: chissà se pure argentini e tedeschi lo pensano dopo aver perso contro Arabia Saudita e Giappone. Forse il calcio ci sta dicendo che è cambiato tanto tatticamente, e selezioni che prima si battevano in “carrozza” oggi vanno rispettate. O forse no. E’ come sempre: le partite vanno giocate. L’unica nota lieta di non esserci è che si può puntare il dito e pensare “ma noi, ci avremmo perso contro l’Arabia Saudita o il Giappone?”; poi ti ricordi che la tua “madama morte” si chiama Macedonia, e che nel 2014 a farti lo scalpo fu il Costarica: la celebre affermazione “il calcio è strano Beppe” (Caressa a Bergomi) rimbomba nel cervello. 
Che brutta storia stare in disparte: appollaiati sul trespolo a gufare le “grandi” europee, nella speranza che falliscano. E’ inaccettabile. Fa malissimo. Più di quanto siamo pronti ad ammettere. Ancora peggiore il maldestro tentativo di ammazzare il tempo giocando amichevoli disutili, proponendo tra l’altro una difesa composta da Bonucci, Acerbi e Gatti: “salvando” l’ultimo, quale senso può avere schierare Bonucci e Acerbi, rispettivamente di anni 35 e 34? Neanche amichevoli insulse come questa vengono sfruttate per proporre emergenti. Il “bello” è che si perde pure. Non era meglio dar spazio a un undici di ventenni? Probabilmente avremmo perso lo stesso, ma almeno si sarebbe dato a spazio alle nuove leve. Se non sperimentiamo ora, quando? E invece giocano Grifo e Politano, di anni 29, gioca Verratti, di cui si conosce vita e miracoli…per cosa? Per aumentare il rammarico di non essere al mondiale? 

Spesso ho l’impressione che alcune chiamate siano solo “pubblicitarie”, come nel caso di Pafundi. Mancini chiama il sedicenne dell’Udinese perché ci crede davvero, o solo per poter dire un giorno “sono stato io a lanciarlo?” Perché caro Mancio, se ci credi allora gli devi dare spazio, possibilità di sbagliare, tenerlo in nazionale A in pianta stabile. Se Pafundi “domani” va a giocare in under 18, non serve a nulla averlo chiamato con i “grandi”. Non apporta nessuna crescita al movimento azzurro una chiamata estemporanea. Serve solo a farsi pubblicità, a poter dire “ci credo nei ragazzi, ma non ci sono”. Se Pafundi vale, allora stia in nazionale maggiore, o almeno faccia un percorso “breve” in under 21. Non rispediamolo con i pari età. Meglio un brutto risultato con Pafundi, Scalvini, Miretti, Fagioli, Samuele Ricci, che uno positivo con Verratti, Immobile, Grifo e Bonucci. E’ anche passando per qualche risultato infelice che si costruisce, a maggior ragione in un periodo dove manca la luce che illuminava gli straordinari interpreti del passato. Gli stessi calciatori comunque, devono mostrato coraggio, quello di scommettere su loro stessi, anche a costo di lasciare il prezioso “orticello” chiamato serie A. In tal senso, un plauso a Scamacca che ha avuto il coraggio di cimentarsi con la Premier League; come ci si poteva aspettare gli inizi al West Ham sono stati complicati, ma l’ex Sassuolo si sta ritagliando spazio, e sicuramente diventerà un giocatore più completo grazie all’esperienza nel campionato più competitivo al mondo. Spesso i giocatori nostrani sono parsi piuttosto “pigri”, poco propensi ad abbandonare le sponde dello stivale, finendo per limitarsi nella crescita sia personale che professionale. Un appello sentito ai futuri “azzurri”:

Ragazzi, siate audaci! Credete in voi stessi, scommettete su di voi, non solo scegliendo le “solite” tre/quattro del nostro campionato. Un tempo essere titolari in serie A era il massimo traguardo auspicabile. Oggi non è così. Mettetevi in risalto e provate un sentiero che non sia il medesimo d’ognuno. Che sia Premier, Liga, Bundes, Eredivisie, Primeira Liga, Ligue 1…apritevi al mondo! 

Frattesi non perde occasione per ribadire la volontà di rivestire la maglia della Roma, in quanto “chiusura del cerchio”: onestamente, già al leggere queste parole, da tifoso giallorosso mi vengono i brividi, perché sanno di “arrivo”, e invece per un calciatore di 23 anni quella chiamata dovrebbe rappresentare quasi un inizio, pur se fosse per il resto della carriera. Per carità, sono sicuro che il talento romano abbia proferito quelle parole con i migliori propositi, sentendo quindi la voglia di indossare i colori che gli stanno a cuore, ma da un professionista bisogna pretendere la voglia di emergere, di non porsi limiti, di pensare che possa ambire a qualsiasi cosa, e non che abbia come massima aspirazione “tornare a casa”. Sia chiaro, l’eventuale arrivo di Frattesi mi riempirebbe di gioia: in questo momento la dinamicità del “neroverde” sarebbe oro per la mediana di Mourinho, orfana di Wijnaldum. E' bellissimo sentire che un giocatore abbia il sogno di giocare nella sua squadra del cuore, ma se si ambisce a essere forti, di livello internazionale, se vogliamo una nazionale che torni ad avere come obiettivo la vittoria delle competizioni e non la qualificazione, anche chi andrà a formare il gruppo azzurro deve avere determinazione e coraggio di fare scelte difficili e impopolari. Anche contro gli interessi personali, da tifoso, spero che più giovani facciano la scelta di Scamacca: non è la soluzione ai problemi azzurri, ma sicuramente un passaggio di crescita per l’Italia che verrà. Il resto lo devono fare Mancini, Nicolato e tutti coloro che si adoperano per “casa azzurri”.

E' tempo di cambiare le cose e srotolare la bandiera ormai impolverata e in soffitta da troppo tempo. Dodici anni - come minimo - senza mondiale: il peggio è già arrivato e non c’è momento migliore per costruire. 
Facciamolo!

 

FR27