Cala il sipario sul mondiale verde-oro.
All’Education City Stadium, la Croazia di Modric fa l’impresa e vola per la seconda volta consecutiva alle semifinali della rassegna iridata. Per il Brasile nessuna novità rispetto alla formazione che aveva superato brillantemente i coreani quattro giorni prima. Per la Croazia, Pasalic e Borna Sosa in luogo di Petkovic e Barisic, schierati invece dal primo contro il Giappone.
Una partita tatticamente perfetta da parte dei croati, bravissimi nel gestire il possesso palla e a tessere una ragnatela di passaggi in cui ne gli avanti, ne i centrocampisti di Tite sono riusciti a inserirsi concretamente, con le sortite offensive ridotte a sprazzi individuali, mai realmente pericolosi per la selezione guidata da Zlatko Dalic.
Una partita a scacchi giocata lucidamente dagli..."scaccati", che con le giuste accortezze hanno disorientato le mosse delle pedine più pericolose, rendendole nulle, prive di efficacia. Azioni che comunque non sono mancate come testimoniano le crude statistiche del match: dodici, le conclusioni verso Livakovic, ormai in lizza per il titolo di miglior portiere del mondiale, sempre sul pezzo e molto lucido nelle risposte, anche se a essere onesti comunque abbastanza facilitato dalle conclusioni degli avanti sudamericani, quasi sempre centrali e addosso al numero uno degli uomini dell’est. Straordinaria anche la retroguardia croata, mai vacillante, impeccabile e a tratti dominante, soprattutto nelle figure di Juranovic e Gvardiol, rispettivamente annientatori di anima e fantasia di Vinicius e Richarlison, ridotti all’evanescenza al punto da portare Tite a rinunciarvi già nell’arco dei tempi regolamentari.
Stessa sorte per Raphinha, uscito addirittura al minuto 56 e messosi in mostra solo nei primissimi minuti della ripresa, quando una sua discesa sulla destra l’aveva portato al passaggio in area che trovando la deviazione di Gvardiol, a momenti beffava Livakovic, costretto a metterci il piede per evitare di capitolare. Com’è chiaro da quanto detto finora, la Croazia non ha fatto molto per far sua la partita, più accorta a evitare di prenderle piuttosto che provare a offendere la difesa della seleçao, praticamente mai in affanno nei 120 minuti che hanno coperto tempi regolamentari e supplementari.
Se si fosse trattato di un incontro di pugilato, ai punti certamente il ring si sarebbe tinto di verde-oro, ma questo è il calcio: puoi giocare bene, male, puoi essere ostico e ordinato, brutto e sconnesso.
Conta andare avanti. Che sia grazie a una rete in più dell’avversario nei centoventi minuti, o una serie di rigori calciata meglio, fa la differenza solo nelle statistiche. Chiedere alla Spagna dei millecinquanta passaggi per conferma. La seleçao ci ha provato con tutte le forze e senza arrendersi allo scorrere del tempo. Non è stata precisa né bella, almeno fino al 106º, quando una straordinaria azione corale iniziata e conclusa da Neymar, l’aveva virtualmente portata tra le fantastiche quattro.
Mancavano solo quindici minuti. Un quarto d’ora che il Brasile ha avuto paura di giocare come sempre: attaccando l’area avversaria. I sudamericani anziché fare quello che è per natura nelle loro corde, hanno scelto di abbassarsi e difendere il risultato, invitando la Croazia a uscire dal guscio e a provare con cross e imbucate a recuperare l’esiguo svantaggio. In tale direzione anche il cambio di Tite, che rinuncia a Paqueta praticamente secondi dopo l’assist che lo stesso aveva fatto per permettere a Neymar di valicare la muraglia croata. Al suo posto anziché puntare su un uomo dalla grande qualità di passaggio e inserimento come Bruno Guimaraes, il tecnico brasiliano inseriva il più difensivo Fred, cercando quindi di tenersi stretto il risultato.
È difficile dare colpe a un tecnico che ha visto i suoi soffrire tremendamente per arrivare alla rete del vantaggio, ma in ogni caso ha cercato un assetto che non è nelle corde dei suoi. Il Brasile non si difende, attacca. Con un gol di vantaggio avrebbe dovuto sfruttare la velocità degli avanti, proprio in virtù di un assetto molto più propositivo, a quel punto d’uopo per gli scaccati. E in effetti le scelte di Dalic andavano logicamente in quella direzione: dentro Budimir e Orsic in luogo di Brozovic e Borna Sosa. I croati si sono affacciati fino all’ultimo respiro tra i centrali verdeoro, soprattutto con Perisic, più volte pericoloso con traversoni verso Petkovic - subentrato a Kramaric al 72º - e Budimir. 
L’assalto finale produce, infine, il tanto agognato pareggio, grazie a una conclusione di Petkovic su passaggio vincente di Orsic al 117º.
Se per altri i tiri dagli undici metri sono alla stregua di una lotteria, per i croati sono un porto sicuro, bravi e freddi come sono a presentarsi sul dischetto.
Non può essere un caso se per due mondiali consecutivi superi ottavi e quarti ai rigori. Non è fortuna, è preparazione. Sicurezza nel calciarli. Freddezza. Bravura a metterla dove il massimo difensore avversario non arriva.
La prima volta può essere provvidenza, la quarta no.
E si vede proprio da come li approcciano: respirano, guardano il portiere e con estrema calma vanno a calciare con la sicurezza di chi sa esattamente cosa sta facendo, riuscendo in qualche modo ad estraniarsi dalla paura del fallimento. Una lezione che sicuramente porterà con se il giovane Rodrygo, timoroso e con in faccia tutto il peso di quel primo rigore. Un rigore da calciare verso un gigante che diventa montagna insormontabile se prima di calciare volti le spalle al dischetto, come faceva notare in un recentissimo pezzo il blogger Eusebio.
Alla fine l’autore del gol, che aveva mandato in estasi l’intero popolo brasiliano, non è neppure arrivato a calciare il penalty.
Neymar abbandona la contesa con in tasca il 77º gol che gli fa agganciare Pelè: troppo poco per far si che ci sia un sorriso anziché lacrime sul volto di O Ney.
Continua quindi la maledizione della sesta stella per il Brasile, solo una volta tra le semifinaliste dopo la vittoria del 2002, una circostanza tra l’altro di cui avrebbero fatto volentieri a meno i brasiliani, considerando che si tratta del 7-1 con cui vennero disintegrati dalla Germania nel 2014.

Niente “derby” sudamericano contro l’Argentina, che invece ha fatto il suo ed è arrivata alla sesta e penultima partita, seppur complicandosi parecchio la vita e riuscendo a superare l’Olanda solo ai rigori, dopo essere persino stata avanti di due. Pronostico rispettato quindi dalla seleccion, che adesso per arrivare all’ultima gara della manifestazione dovrà vendicare il Brasile contro la Croazia.
Se la Croazia ha mostrato tutta la sagacia tattica e la durezza a morire, ancora meglio ha fatto il Marocco di Ziyech, capace di eliminare dopo la Spagna anche il Portogallo. Gioia incontenibile in quel di Milano, dove continua il sogno dei migliaia di marocchini che popolano la città meneghina. Ad esultare per la nazionale africana - la prima nella storia a volare così in alto nella massima competizione calcistica - l’intero mondo arabo e musulmano, che vede nelle gesta dei “leoni dell’atlante” una riscossa che valica le frontiere dello sport.
Per continuare a marciare verso l’impensabile, gli africani dovranno fronteggiare la temibile Francia di Mbappe e… Giroud, da menzionare assolutamente per quanto di buono sta facendo a 36 anni suonati.
Anche contro l’Inghilterra di Ginni (mi dispiace amico mio) l’attaccante del Milan ha sfoderato una prestazione da applausi, coronata dalla quarta marcatura in questa Coppa del Mondo, confermandosi assoluto protagonista in maglia bleu.
Boccone amarissimo quindi per Albione, eliminata proprio dagli eterni nemici Galli. Una sconfitta bruciante e che non rende giustizia a un secondo tempo giocato molto bene dalla squadra allenata da Southgate, condannata dal penalty fallito da Kane a soli sei minuti dal novantesimo. Un tiro fallito che perseguiterà negli anni a venire e forse per il resto della carriera il capitano di Inghilterra e il Tottenham, ancora una volta costretto a raccogliere i cocci di un insuccesso. Ancora una volta lasciando la coppa in mani straniere, lontana da “casa”.

Appuntamento a martedì 13 per Argentina-Croazia e mercoledì 14 per Francia-Marocco. Inutile dire che Francia-Argentina sia la finale più probabile, ma in questa manifestazione l’ovvio si è materializzato poche volte. Forse ha inciso il fatto che si sia giocato in inverno. Forse la globalizzazione ha portato questo sport ha un livello medio più alto, lasciando poche selezioni ancora lontanissime dai valori delle top europee e sudamericane.
Forse semplicemente doveva andare così, perché il calcio non è una scienza esatta, ed è il motivo per cui piace così tanto a ogni latitudine del mondo. Essere la compagine più forte aiuta, ma non è garanzia di successo. Avere un seguito immenso come succede praticamente sempre al “mio” Brasile, anima, alimenta la voglia di superare l’ostacolo e offrire spettacolo, ma poi ci sono gli avversari. La tenacia. Il non arrendersi. Disattendere i pronostici. Un modo di stare in campo diverso da quel che ti è più congeniale. Ci sono gli errori, di giocatori e allenatori. C’è una storia in ogni partita e quella storia non è trama dallo spartito già scritto.

Croazia, Argentina, Marocco e Francia. Queste le quattro sopravvissute ad un mese anomalo e intenso, pronte a giocarsi la vita per consegnarsi all’eternità. 
Una settimana. 
Due partite. 
Chi si regalerà il Natale più magico della storia del calcio?