“Ogn'anno, il due novembre,c'é l'usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll'adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.” 

A’ Livella - Antonio De Curtis in arte Totò
Inizia così, lo scritto più celebre di Totò, per una volta evidentemente con poca voglia di far ridere, anche se qualche sorriso arriva comunque nell’immaginarsi la scena tra i versi de à livella.
Di storie con fantasmi, spiriti, anime che non trovano pace nel riposo eterno, ce n’è a bizzeffe, a maggior ragione ambientate il 2 novembre - giorno in cui per tradizione o imposizione (come nel caso dei nativi americani) cade la commemorazione dei defunti, preceduta dall’Ognissanti, vissuta grossomodo alla stregua della medesima ricorrenza - ma il messaggio è profondo e originale, come lo stesso autore.
Chissà se anche lui ha poca voglia di riposare, e vaga di notte scontrandosi con gente che probabilmente in vita non gli è stata all’altezza, ma che ora gli è pari, nel sonno eterno. Se così fosse, è riuscito a essere testimone dello scempio di Poggioreale? Avrà visto crollare il cimitero? Lo immagino lì, mentre assiste impotente alla palazzina che va giù, immedesimato nei “panni” del netturbino della sua storia, quando esclama “Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive”. Mi sembra di sentire le urla del marchese nel vedersi scaraventare nella boscaglia più fitta e inaccessibile presente dinanzi alla “necropoli”, o sospeso in aria, tra quelle bare in un limbo tra inferno e paradiso, della serie “neanche da morti si sta tranquilli”. Che poi non era neanche la prima volta.  Già a inizio anno c’erano stati cedimenti strutturali causati - in parte - dai lavori in essere per lo sviluppo della metropolitana, e nello specifico di quella che sarà la fermata “poggioreale”: un ingente quantitativo d’acqua - presumibilmente quel che rimane del fiume Sebeto - filtrò tra i lavori provocando il crollo di un edificio del cimitero, facendo cadere nel vuoto diverse bare e ciò che restava dei corpi senz’anima.
Anche a Genova, a Camogli, parte del cimitero subì un crollo, con la conseguente dispersione di salme e resti.
Genova che tra l’altro subì il cedimento del ponte Morandi in quel 14 agosto di quattro anni fa, purtroppo tutt’altro che vigilia di festa e vacanze. Non di meno, come tra l’altro nel caso appena citato, spesso sono problematiche già note, criticità che esistevano e a cui piuttosto che trovare pronta soluzione si tende a posticipare, a protrarre, a portare avanti fino al giorno in cui l’evitabile diventa inevitabile. A quel punto “corsa ai colpevoli”, alla ricerca dei responsabili, e via a prosopopee giudiziarie che hanno come fine ultimo quello di evitare condanne più che infliggerle; anni e anni per definire il tutto come “fatalità”.
Questo è il paese in cui il comandante di una nave crociera, responsabile di uno degli incidenti più devastanti della storia, per giunta in fuga nel bel mezzo del disastro, viene chiamato a farsi voce per seminari sulla gestione del panico. Il peggio è che siamo talmente assuefatti all’assurdo e a notizie sconcertanti che inconsciamente finiamo per catalogarle tra le cose che capitano, come fosse tutto normale; l’indignazione dura dieci giorni, giusto il tempo di fiondarsi su qualche nuova notizia. Siamo in un tunnel senza luce all’orizzonte, un profondo oblio che fa percepire l’inaccettabile come normalità.

Tornando al 2 novembre, mi chiedo con quale spirito e che senso possa avere recarsi al cimitero per la commemorazione dei defunti sapendo che probabilmente ci si potrebbe ritrovare a pregare dinanzi a un loculo vuoto, o ancor peggio custode delle ossa di qualcuno a caso, messo li come “Esposito Gennaro - Netturbino” quando magari trattasi del “signore di Rovigo e di Belluno”. Dovranno ritenersi fortunati i parenti delle salme rimaste scoperte e quindi visibili, forse così avranno modo di riconoscere i corpi senza vita dei propri cari e sapranno a chi rivolgere i loro pensieri. Non fa ridere, perché è tutto drammaticamente reale: tra le bare sospese in cielo, ce ne sono alcune rimaste aperte, “baciate” dal sole e dalle intemperie. Peggiore ancora la situazione per i familiari dei defunti caduti nel vuoto: come faranno a ripescare dalla ”giungla” dinanzi al cimitero le salme dei morti? Come sapranno con certezza chi sia Tizio piuttosto che Caio? Mix di pezzi, tanto sono morti? Spero proprio non finisca così, ma “a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina” diceva Andreotti. A Camogli le salme precipitarono addirittura in mare.
Allora mi chiedo pure fino a che punto possa essere utile ancora tenere aperti i cimiteri e i defunti nelle bare, sapendo che in Italia non si ha la capacità di gestire le cose, anche quelle relativamente più semplici. Perché è questo che dimostriamo di volta in volta. Date le circostanze, sarebbe preferibile la cremazione e quindi la custodia privata delle ceneri dei propri cari. Nulla contro le tradizioni sia ben chiaro, anzi trovo che siano un plus a cui non bisogna rinunciare. Quando possibile, vado sempre a rendere grazie, a “salutare” chi mi ha dato tanto; inoltre una preghiera, un “eterno riposo” o anche solo un pensiero li raggiunge ogni giorno, senza dover passare necessariamente dalle date simboliche sul calendario. Farà davvero bene allo spirito recarsi presso un cimitero crollato? Soprattutto, stiamo davvero onorando la memoria di chi ci ha preceduto?
Non migliore la situazione a Palermo, dove forse non ci sono stati eventi quali frane o “cadute massi”, ma in compenso ci sono tantissimi feretri che attendono da tempo collocazione e degna sepoltura. I familiari dei defunti collocati presso il cimitero di Santa Maria dei Rotoli, raccontano di una situazione oltre il limite della decenza, con odori nauseabondi che portano gli stessi a evitare di recarsi per un saluto, o a non indugiare oltre il tempo necessario a farsi il  segno della croce. A quanto pare, alcune bare sono state forate per evitare che potessero esplodere a causa dei gas generati dai corpi in decomposizione. Uno scempio di difficile denominazione. Se non bastasse, per gran parte della struttura la presenza di cocci di lapidi e rovine, fiori lasciati a marcire e vecchie bare di zinco abbandonate all’incuria del tempo: uno scenario che ricorda più un cantiere che un luogo di riposo. Serve davvero avere strutture del genere, così fatiscenti, prive di civiltà e rispetto? Oltretutto non è che sia gratis garantirsi un “posto” al cimitero. Chissà che ne pensa lo scimpanzé che ci “canzonava” in quanto unici esseri viventi costretti a pagare per garantirsi un posto nel mondo: caro amico peloso, pure da morti ci tocca pagare, e pure da morti veniamo calpestati, fino a vederci inumati nei posti più reconditi del pianeta! Che facciamo però, non ci rechiamo più al cimitero? Cancelliamo il 2 novembre? Il punto è che le ricorrenze ci tengono ancorati alle persone, e nel caso specifico del 2 novembre, ci tiene attaccati alla memoria di chi non c’è più. Certo, se qualcuno ci stava a cuore, non serve varcare il cancello di un cimitero per rendergli omaggio, però sono usanze che in qualche modo ci fanno umani, o no? Cosa sono poi le ricorrenze? Un modo per sentirsi, per dirsi “come stai, come va”, per sincerarsi su salute e lavoro, per ricordare momenti felici insieme, o solo trovate commerciali per vendere a cadenza fissa oggetti, fiori, vesti, regali e via dicendo? Forse entrambe le cose. In fondo ne abbiamo bisogno, anche solo per scandire il tempo che passa. E allora il 2 novembre è il giorno per commemorare i defunti, il 25 dicembre, la Pasqua e ogni Domenica per ricordarsi del signore; i compleanni per appurare quanto sia cresciuto tuo figlio o quanto stia diventando “vecchio” il tuo vecchio, l’onomastico per sentirsi legati a santi e a persone che si chiamano come te, le feste della mamma e del papà per rammentarti che qualcuno ti ha messo al mondo nel bene e nel male, la festa della donna per il gentil sesso, San Valentino per gli innamorati e così via.
Per alcuni un’incombenza di cui farebbero volentieri a meno, e certe volte a dirla tutta, alcune situazioni ti portano a pensarla in questo modo, soprattutto quando le ricorrenze non sono tradizioni, ma pura pubblicità, come nel caso della “giornata della pasta”, la “giornata del pane”, quella dei biscotti e dei taralli. Quella dei taralli non c’è? Boh non so…i taralli non lo meritano un giorno? Altra cosa sono gli stro**oni che inviano lo stesso messaggio privo d’anima a tutta la rubrica durante le festività più riconosciute, tipo Natale e Capodanno. Ma che auguri sono? Ma non è meglio mandarne quattro, cinque, uno, ma a chi si pensa di tenere davvero? Alla fine, nonostante mi stizziscano parecchio, rispondo anche a quelli. Sono un babbeo? Probabilmente sì, ma non per via di questo approccio: in fondo non mi costa nulla, e mi lascia comunque con un animo più sereno. Penso che ricordarsi che esistano persone intorno a noi, gente che prova sentimenti, o semplicemente che ci è vicina anche se lontana da occhi e cuore, è fondamentale, in quanto senza contatti siamo ancora meno di quel niente che già rappresentiamo nel mondo. Non è neanche facile: nel mio caso è mia madre a fungere da “promemoria vivente”, e ad avvisarmi di volta in volta di compleanni, onomastici, nascite e così via. Se vi state chiedendo se la mia “fissa” per l’analogico mi abbia fritto il cervello al punto da non sapere che esista la funzione “promemoria” sul cellulare devo deludervi: ne sono a conoscenza e alcune volte la utilizzo anche, ma volete mettere la bellezza del messaggio di mamma che mi scrive “ricordati che oggi è San Giovanni”, “vedi che oggi tuo cugino fa il compleanno”, “oggi tua zia fa venticinque anni di matrimonio”? E’ impagabile. Niente a che vedere con “promemoria - compleanno John Doe”…freddo e “tristerrimo”. Poi ci sarebbero anche i social a indicare ricorrenze e compleanni, ma ormai ne sono completamente fuori, ad eccezione di whatsapp, che è un “male necessario”. Non odio i social, anzi, in passato ne ho attinto a piene mani. Prima dell’avvento di instagram e tik tok, l’innamoramento collettivo per Facebook aveva colpito anche me: ci postavo tutto, e mi dilettavo a pubblicare di tanto in tanto qualche poesia sulla mia pagina personale, ormai morta e sepolta. In seguito approdai su Twitter, un modo più che altro per restare aggiornato quasi in tempo reale sulle mosse di mercato della mia Roma, ma poi commenti troppo lontani dal mio modo di vivere il calcio, e l’odio che si respira dietro i tasti di tantissimi utenti mi dissuasero dal farne parte; inoltre mi “scontravo” continuamente con tanti giornalisti dell’etere romano, taluni con il palese hobby di screditare oltremisura qualsiasi mossa capitolina, altri al contrario “troppo tifosi” al punto da non accettare critica che fosse una verso la Roma e la società, riuscendo a trovare poche volte un equilibrio, una via di mezzo di pensiero e opinioni; “un grigio” che facesse da contraltare al bianco o al nero. Più di tutto però, allontanarsi dai social derivava dalla necessità di vivere vita vera, non solo quella costruita dietro allo schermo di un cellulare. A lavoro, in metro, per strada, tutti a testa bassa sullo smartphone: una tristezza infinita. Adesso poi c’è il “multiverso”: ciaone! Già immagino le persone vagare come zombie per le strade con gli occhialini per la realtà aumentata. Di questo passo finiremo come nella scena del film “Demolition Man” dove Stallone si ritrovò dopo un lungo periodo da ibernato a fare sesso mentale. Per carità, senza demonizzare troppo una tecnologia che avrà sicuramente risvolti positivi, come la possibilità di visitare pazienti da qualsiasi parte del mondo, capire e risolvere problematiche di salute, e forse un giorno non troppo lontano fare anche interventi chirurgici in questo modo.

Si era partiti dal 2 Novembre e adesso siamo alla realtà aumentata: mi sa che i fantasmi comincio a vederli pure io. E allora mettiamo nel pentolone pure un po di calcio: proprio il 02 Novembre, nello specifico il 2 Novembre 2019, si tenne la sfida tra Roma e Napoli, partita archiviata da qualche giorno e che ha visto i partenopei uscire vittoriosi dallo stadio Olimpico. Che ha di speciale quella gara lì? Beh, oltre alla curiosa coincidenza che vide le compagini affrontarsi proprio nel giorno dedicato ai defunti, si trattò di una bellissima giornata per i giallorossi, i quali si imposero per 2-1 sugli azzurri, in quel caso allenati da Carletto Ancelotti nella sua seconda stagione con i partenopei, per intenderci quella del celebre ammutinamento. Ad allenare i giallorossi, il portoghese Paulo Fonseca, arrivato sulla panchina romanista proprio in quella ultima estate “normale”, ovvero l’ultima senza incombenze covid. In quella partita, a brillare di luce fortissima fu Nicolò Zaniolo, autore di una pregevole conclusione dal limite dell’area che si andò a infilare alle spalle di Meret; una rete che fu il prologo di un’intera partita disputata a livelli da fuoriclasse, con numerose sortite offensive, galoppate sulla fascia che spezzarono in due il centrocampo partenopeo, schierato in 4-2-4 tanto spregiudicato quanto attaccabile con un minimo di ordine tattico. Era Zaniolo ancora con entrambe le ginocchia al loro posto, senza interventi chirurgici ne legamenti spezzati. Quanto mi manca quel giocatore… Chi l’avrebbe mai detto che quel gol sarebbe stato l’ultimo del carrarese all’Olimpico in serie A? A vederlo oggi sembra un cartonato di quella versione dirompente e decisiva. Di Veretout e di Milik, le restanti reti della sfida che terminò 2-1.
Anche un altro precedente tra Napoli e Roma, a essere precisi disputatosi il 1° Novembre, ma molto più sentito perché giunto a pochi mesi dagli scontri avvenuti all’esterno dello stadio dei marmi e che vide la morte di Ciro Esposito, giovane tifoso azzurro accorso nella capitale per assistere alla finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, purtroppo mai giunto all’impianto sportivo in quanto rimasto gravemente ferito da un colpo di arma da fuoco esploso da Daniele De Sanctis, ovvero un ultras della Roma a cui poi è stata inflitta una pena di 16 anni di reclusione. La Coppa Italia venne vinta dagli azzurri, ma il clima surreale in cui si disputò la partita, scacciò qualsiasi desiderio di festa per il trofeo conseguito. Il 1° Novembre del 2014 quindi, Roma e Napoli si trovarono di fronte allo stadio San Paolo, forse per puro caso, o per divina intercessione, non nel giorno dei morti, ma in quello dei santi. La partita la vinsero i partenopei per 2-0, una gara mai in discussione e che la squadra - ai tempi - di Benitez si aggiudicò dominando in lungo e in largo gli uomini di Rudi Garçia, già sotto dopo appena tre minuti per via del bellissimo gol segnato da Higuain. Alla rete dell’argentino, seguì quella di Callejon a pochi minuti dal termine. La partita fortunatamente non vide scontri ne particolari tensioni, anche se l’aria alla vigilia era particolarmente tesa: un manichino impiccato con indosso la casacca della Roma venne esposto al quartiere sanità, al quale facevano da “ornamento” striscioni minacciosi verso il tifo organizzato romanista. È naturale pensare che non ci sia alcun modo di ritornare ai fasti degli anni ottanta, con le tifoserie gemellate che davano il meglio di loro stesse in manifestazioni di affetto reciproco, con tanto di sbandieratori, cori festanti da una parte e dall’altra, e soprattutto zero preoccupazioni di ordine pubblico. La grandezza di entrambe le squadre, l’amicizia che legava Bruno Conti a Maradona facevano il resto.
A tal proposito, da ricordare un recente episodio che ha lasciato un barlume - seppur minimo - di speranza: in occasione della morte del “dieci” per antonomasia, Bruno Conti si recò a rendere omaggio all’altarino dedicato a Maradona nei quartieri spagnoli; un gesto molto apprezzato dal popolo napoletano, con Bruno che venne accolto da cori e applausi da parte dei presenti. Una piccola pagina felice in un computo complessivo di odio incolmabile. Peccato davvero. Se la morte è la “livella”, ovvero lo strumento che appiana differenze e classi sociali, la stupidità è il parametro che ci rende uguali da vivi. Qualcuno potrebbe dire “parla per te, stupido a chi?” Non avrebbe neanche torto. E allora dimostriamo di poter superare inutili divergenze, commenti beceri e cori ingiuriosi: godiamoci l’amore per le nostre squadre, per lo sport e per qualsiasi hobby ci renda felice. Non rendiamo brutto un qualcosa che potrebbe essere bellissimo, ma soprattutto non riduciamoci a ricordare le persone solo quando attraversano la riva in compagnia di Caronte, perché la vita è adesso, “live is life” per citare un motivetto che porta la mente subito a quel ricciolone di Villa Fiorito e alla sue magie.
Al di là di quante volte si vada al cimitero, di quanto si possa pregare per l’anima di chi ci ha lasciato, è soltanto sul purgatorio terreno che possiamo dimostrare quanto teniamo a qualcuno: dopo è solo silenzio, e spesso rammarico. In tal senso, l’onda che ha circondato di affetto la figura di Maradona in seguito alla sua dipartita, non è comunque pari all’amore che i napoletani gli hanno dimostrato giorno per giorno. Diego sapeva di essere amato, ma è comunque morto solo, abbandonato dalle persone che più gli avrebbero dovuto stare accanto, e che invece si sono fatte prontamente vive nel discutere di questioni ereditarie. Strano eh? Senz’altro “el diez” ci avrà messo del suo, ma quanto odio ancora ci dev’essere? Cosa deve accadere ancora per renderci conto che i muri che innalziamo non hanno ragione di esistere? Non sono un prete, ne un santo, e anche preti e santi sanno perfettamente che il male esiste, e con manifestazioni meno celate del bene. Farsene promotori comunque, non aiuta nessuno. Penso a Pantani, morto nella solitudine di una camera d’albergo, e non sapremo mai se si stata una scelta o se l’alone di mistero dietro quella vicenda abbia ragione di esistere. Quel che è certo è che il campione, non più tale, era rimasto solo. 

Questo mondo coglione piange il campione quando non serve più
Ci vorrebbe attenzione verso l’errore oggi saresti qui
Se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui”

Scriveva così Venditti in “Tradimento e Perdono”, riferendosi oltre che al “pirata”, al capitano della Roma Agostino di Bartolomei che si tolse la vita sparandosi, e a Luigi Tenco, che decise con il suo gesto estremo di “chiarire le idee a qualcuno” durante il festival di Sanremo del 1967. 
Stamme a ssentì…nun fa’ ‘o restivo, suppuorteme vicino che te ‘mporta? 
Così lo spazzino al signore di Rovigo, forse lanciando un messaggio a chi ancora abita materialmente il pianeta. Perché ricordare è importante, ma rispettarsi quando conta davvero lo è di più. 

Chissà, forse davvero come immaginava Antonio Totò De Curtis, marchesi e netturbini si danno battaglia tra le lapidi, non avendo quindi tempo di rendersi conto delle cavolate che fanno i vivi. In tal caso, i nobili stipati dalle parti di Camogli avranno percepito anche l’impatto con l’acqua marina? I miei nonni si lamentano l’uno dell’altro pure da morti? Si svegliano ancora in piena notte per raccontarsi i tempi andati? Non è che sono loro che ad agitarsi fin troppo fanno crollare mura, lapidi, ossa e croci? Non è che hanno ragione i britannici nel pensare che i morti sono pure dispettosi, e per chi non lascia caramelle e dolciumi fuori all’uscio di casa, sono dolori e tormenti? Non lo dite in giro, non vorrei che qualche politico prenda per buona la teoria e faccia ricadere la colpa dei loro disastri su ipotetici “non morti”. Non è così “amici” amministratori: 

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: Quelli nell’aldilà sono seri... appartenene à morte!
Buona Domenica e buon ponte amici. Un abbraccio.

FR27