Pizzico al braccio: si sono qui!
Si fa fatica a mettere insieme i pensieri. Cioè, normalmente sarebbe facile, ma non con tutta sta gente intorno. Non mentre canti a squarciagola, e l’aria si fa irrespirabile per via dei fumogeni. Certo che il giallo e il rosso, sono proprio bei colori. E non che ne avesse bisogno: Budapest è incantevole, ma quei colori esaltano tutto, c’è poco da fare.
Un’idea me l’ero fatta: “vado lì e sarà indimenticabile, comunque vada”. Lo sapevo, sin dal 18 maggio.
Forse persino da prima, ma non ho avuto forza né coraggio di prenotare prima del verdetto della semifinale: maledetta scaramanzia! Quanto mi sei costata! Avessi prenotato un paio di giorni prima dello 0-0 contro il Leverkusen, le mie tasche non si sarebbero tinte di rosso. Tant’è, l’importante è essere qui ora. Non c’è prezzo che tenga. Beh, non esageriamo, i conti in tasca tocca farli sempre, ma questa proprio non me la volevo perdere.
Purtroppo, di balordi pronti a lucrare sulla passione della gente, ne è pieno il mondo, e anche stavolta in tanti si sono ritrovati a pagare anche cinque o più volte il valore nominale dei tagliandi validi per accedere alla Puskas Arena: se esiste un Dio del calcio, spero proprio che abbia in serbo un girone infernale per chi si è arricchito a discapito dell’amore verso una squadra.
E quanti! Quanti pronti a far carte false pur di esserci: eccoli qua, eccoci qua! 25.000 anime a sostener la Roma, arrivate in terra magiara superando ostacoli d’ogni tipo. Economici senz’altro, ma anche logistici, non essendoci tantissimi voli di linea per Budapest. Pur di risparmiare qualcosina, in tanti sono partiti in macchina, in barba alle tante ore che separano la capitale d’Italia da quella ungherese.
C’è chi è addirittura passato dalla Turchia, avventurandosi verso rotte apparentemente insensate; altri, seguendo un tragitto più naturale, sono transitati dalla Slovenia o dall’Austria. Altri ancora, hanno fatto scalo in Serbia: per una volta tutte le strade portavano a Budapest, ma quando si parla di strade, Roma c’entra sempre. Stavolta poi, più d’ogni altra volta. Eh sì che se n’era parlato a più riprese d’incontrarci presto o tardi, animati dalla stessa passione, ma beccare Ale, Fil ed Enrico in Ungheria, era proprio oltre ogni più rosea aspettativa.
Mirko e Matteo non potevano certamente mancare un appuntamento del genere, con il secondo che proprio non conosce confini quando trattasi di As Roma: nello specifico, parliamo di uno degli eroi che giunsero fino alle porte del Polo Nord per seguire la disfatta contro il Bodo Glimt. Da meno di un anno con noi, ma non per questo meno legato alla causa, Franco da Torino, che ha tampinato a tal punto la Uefa da averli evidentemente colpiti, o forse impietositi, affranti dalla caparbietà del siculo - abita a Torino ma è siciliano - al punto da concedergli un’occasione: d’un tratto si ritrova sulla mail personale il link per l’acquisto dell’agognato biglietto, preso al volo e con le lacrime agli occhi di chi ha fatto un’autentica impresa per poter affermare “io c’ero”.
Marco e Ale, con la prospettiva intelligente di legare turismo all’evento, sono sul posto già da qualche giorno: il celebre parlamento, la passeggiata sul Danubio, il bastione dei pescatori, solo alcune delle attrazioni offerte dalla città. Un modo anche per allontanare il pensiero fisso della coppa, se solo non fosse che in città tutto riconduce alla partita: se proprio si volesse far finta che non ci sia nulla di li a poco, due trofei giganti ad immagine e somiglianza dell’Europa League, rubano la scena nelle piazze centrali della capitale magiara. In ogni caso, un romanista proprio non pò distrarsi da quel pensiero.
Che follia amare questa squadra: dev’essere lo stesso pensiero dei tanti ungheresi che ci riprendono dai balconi. Staranno pensando “questi so' matti”. Forse i tanti sorrisi indicano più ottimisticamente apprezzamento ed empatia per ciò che vedono: un intero popolo unito sotto gli stessi canti, gli stessi vessilli, il medesimo amore sconfinato. Se mai ce ne fosse stato bisogno, oggi, in questo lungo abbraccio che idealmente unisce Roma e Budapest, Puskas Arena e Stadio Olimpico, Franco, Mirko, Matteo e qualsivoglia cuore giallorosso, ho capito definitivamente che la Roma è tutta la mia vita. Una droga di cui non posso e non voglio fare a meno.

Cavoli, adesso un po’ di stanchezza si sente: dalla fan zone alla Puskas Arena, è un bel pezzo a piedi. Sfilare in corteo è fantastico, ma sta calura non aiuta. Tra l’altro al pensiero di questa finale, sono due settimane che non dormo.
Non sarà che abbiamo esagerato col gulasch? Certo che quella zuppa di fagioli…tanta robba cacchio! Poi quella cremina piccante… spinge eh! Niente male la “nduja magiara”. 

Roma alè!
Forza Roma alè!
Voglio solo star con te!
Voglio vincere, e cantar per te,
Forza, Forza Roma alè!

Incredibile. Ancora non ho realizzato.
Ma è vero? Siamo a Budapest? Pazzesco. Chi l’avrebbe mai detto? Di sicuro non io. La speranza c’è sempre, ma era quella intrinseca al tifoso. Il lumicino accanto al cuore: quella flebile fiammella che accomuna tutti, al di là della fede.
Ad una Europa League che ai nastri di partenza iniziava con squadre gigantesche come Arsenal e Manchester United, si univano scendendo dalla Champions Barça e Juve su tutte, oltre al Salisburgo, al Bayer Leverkusen e al solito Siviglia. Arrivare in fondo a questa competizione sembrava impossibile, al punto che uscire al playoff contro il Salisburgo sembrava quasi un male minore per una squadra che ha palesato grandi limiti di rosa sul doppio impegno.
E invece, tra buona sorte (su tutto evitare le inglesi e ritrovarsi dal lato “giusto” del tabellone) e risultati, un gruppo che più squadra non si può è riuscito a staccare il pass per la finale: due in due anni, in barba agli innumerevoli detrattori di Josè da Setubal, che potrà non piacere per gioco e modi, potrà sembrare ed essere fuori da qualsivoglia Bon Ton calcistico o sportivo, ma che è al tempo stesso tremendamente trascinante ed efficace in quel che propone.
Dopo quindici anni di niente, la Roma si gioca il secondo trofeo internazionale di fila: scusate se è poco! Comunque vada, dopo essersi assicurato l’eternità con Porto e Inter, Josè Mourinho resterà un nome inciso a fuoco anche nella storia della Roma, avendo spinto i colori della capitale dove nessuno prima. E’ con questa consapevolezza che si cancellano ansie e preoccupazioni. Comunque vada, sarà fantastico: siamo parte della storia, insieme al nostro condottiero portoghese. 

“Vogliamo giocare. Siamo lì, andiamo”.

Un mantra ripetuto più e più volte, quasi a spazzare possibili tristezze: ci abbiamo messo tutto quello che avevamo. L’abbiamo voluta a tutti i costi. Ci siamo sacrificati, perdendo giocatori e punti cruciali in campionato. Non sarà facile, ma andiamocela a giocare con la consapevolezza di aver lasciato tutto pur di vivere questa partita. Facile a dichiararsi spensierati: ne i cori, ne la vista delle varie glorie del passato (Rizzitelli, Perrotta e Cassetti), ne tantomeno la birra riescono nell’intento di stemperare la tensione. Non è una partita, è LA partita. Lo era, almeno.
Non mi sono bevuto il cervello: so perfettamente che siamo ormai a Giugno inoltrato, e il truce verdetto è già arrivato da un pezzo. Non è stato facile metabolizzare la sconfitta. Non lo è tutt’ora. Forse non mi riprenderò mai del tutto da un epilogo che poteva essere certamente immaginabile, ma quando sei così vicino al trionfo, fa proprio male. Enrico, a delitto appena compiuto ha esclamato “ci becchiamo la nostra quota di dramma generazionale che ci ricorda che sarà sempre una merda”: una frase che rimane dentro, perché dipinge esattamente lo stato d’animo di chi si è fatto coccolare dal sogno, prima di vederselo scippar via dal destino.
Un destino infimo, che ha assunto connotati ben precisi al fischio del secondo tempo supplementare: genti che non si conoscevano si guardavano negli occhi, come a cercare uno spiraglio di luce che potesse invertire un finale già conosciuto.

“Tiramo sotto a curva loro ca**o!”
“Mejo! Cor Liverpool avemo tirato sotto a curva nostra e sapemo com’è finita! S’è destino vincemo!”

Appunto: maledetto destino!

E così, quanto di più bello si potesse immaginare, si porta a vita il fardello della sconfitta. E’ un po’ che provo a scrivere questo pezzo. Inevitabilmente è uno dei miei più sentiti. Il peggio è che nella scrittura ho sempre trovato conforto, ma stavolta no: il ticchettio dei pulsanti sancisce la dolorosa certezza ch’è tutto finito, e la Roma questa partita l’ha persa davvero. 
Porca zozza quanto fa male.

Mourinho in lacrime è il finale che proprio non ti aspetti: un gesto che rende umano un essere fin li sembrato divino, asceso per portare il nostro nome dove merita, un nome spesso così pesante da essere croce di se stesso.
Quante emozioni tutte insieme: gioia, ansia, preoccupazione, il delirio smisurato per il sinistro fatato di Dybala, frustrazione al pari, infine profonda tristezza.
Dell’arbitro preferisco non dire nulla: è sotto gli occhi di tutti quanto fatto o meno, e dargli spazio sarebbe un plus che non merita. Quanto successo all’aeroporto, quello si, merita menzione perché finisce per rovinare la straordinaria diapositiva che abbiamo lasciato tra le strade della capitale ungherese. Non facciamolo più fratelli: non siamo questo. Siamo la marea giallorossa che ha stupito il mondo. Siamo quelli che, superata la tristezza, fanno l'ennesimo sold out per un Roma-Spezia che sembrava buono solo per le statistiche e per le sorti dei liguri, salvo poi diventare fondamentale per tornare in quella coppa che abbiamo sperato di innalzare al cielo sorreggendo le braccia di capitan Pellegrini. 

Quel che fa ancora più male, è l’aver constatato ancora una volta che felicità ed entusiasmo non sono uguali dappertutto.
Nulla contro, sia chiaro, ognuno festeggia a suo modo, ma un appunto agli amici andalusi va fatto: eh vabbè che ne avete vinte sette, ma un minimo di entusiasmo!
Ecchecacchio!
In aeroporto né cori né manifestazioni di gioia! Altro che “Nadie la quiere como nosotros”: sembrava che avessero vinto una partita in parrocchia!
Tacci Vostra! Avesse vinto la Roma, Budapest non avrebbe dormito per dieci giorni!

Cosa sarebbe stato… il coronamento di tutto.
Purtroppo le favole spesso restano tali, e non ci resta che rimetterci in piedi sperando in qualche modo di tornare ancora lì, a giocarci il tetto dell’Europa, che sia quello della Conference, dell’Europa League o della Champions poco importa: anche Fiorentina e Inter, nelle rispettive finali, sono uscite sconfitte da partite molto ben giocate, punite oltre i demeriti dal risultato, purtroppo l'unico verdetto che conta.
A tal proposito, un abbraccio sentito va al mio amico Vincenzo, che per seguire la sua Inter si è avventurato in un viaggio che da Milano l’ha portato a Tirana, poi nella capitale turca: amico mio, so cosa si prova! Al di là del valore della coppa, il sentimento, credimi, è lo stesso.
Purtroppo, il risultato non si può controllare, e una giornata da sogno, può vestirsi da incubo. Giocando con “il grande incubo” degli 883, si potrebbe dire: la coppa, il sogno, il grande incubo; in una stagione come questa con tre finaliste italiane e zero coppe portate a casa, il titolo rischia di starci benissimo.
Per la Roma, il sogno è stato Dybala e il suo sinistro benedetto, mentre l’incubo ha il volto dei calci di rigore e dell’arbitro Taylor. Tra l’altro, incubo non finito se vogliamo: la Uefa ci ha punito oltremodo con la squalifica di mezzo stadio per la prima europea in casa, oltre al settore ospiti chiuso per la prima trasferta nel girone. 4 giornate, invece a Mou: scandalosamente pesante! Josè ha sbagliato, questo è fuori discussione, ma andrebbe anche compreso lo stato d’animo di chi si è visto scippare un titolo europeo da decisioni di campo che hanno fattivamente pregiudicato l’esito della contesa.
Per la Fiorentina, il sogno è stato il pari di Bonaventura, che con la sua rete sembrava aver spostato definitivamente le sorti della finale; l’incubo è il solito - clamoroso - gol subito in contropiede, oltre all’accendino che ha spaccato la testa a capitan Biraghi: una scena che da sola sarebbe dovuta valere il 3-0 a tavolino per i viola, e che invece costerà solo la ridicola somma di cinquantamila euro agli inglesi del West Ham. Anche in questo caso, Uefa assolutamente ingiudicabile.
Per l’Inter, il sogno è stato essere in finale e giocare alla pari di un undici che aveva letteralmente annichilito il Real Madrid, relegata a squadra di provincia nella prima mezz’ora della semifinale di ritorno; l’incubo è stato Lukaku, che a botta sicura riesce a mettere il pallone nell’esatto punto in cui si ritrova Ederson. Un consiglio gratuito: portate Lukaku al sacro cuore! 

Pizzico al braccio: niente, non sono a Budapest.
Sta roba del pizzico mi sa che non funziona più come dovrebbe. Non sono più alla Puskas Arena, ne a Budapest, ne in Ungheria o all’aeroporto. Eppure in un dì di Maggio, tra i colori di un popolo, tra le voci stridule ma orgogliose, tra i passi lenti e costanti, “noi c’eravamo”, e saremo per sempre lì, tra il vento che soffia ancora, il vento che accompagna la nostra storia, parte sconosciuta e sincera di un amore immenso,  che valica i confini, che riga gli occhi e fa battere il cuore come poco altro. 

Grazie fratelli miei: mi avete regalato una giornata immensa. 
Grazie Roma mia, per essere ciò che sei: tutto.
FR27