Quando si accetta la panchina della nazionale, sul petto della cui maglia brillano ben quattro stelle mondiali, guardarsi indietro e vedere cosa hanno fatto i grandi del passato è praticamente un obbligo. L'incarico di CT non è come quello di allenatore di un club. I rapporti di forza sono differenti. I ragionamenti da fare, il modo di scegliere i giocatori, di allenarli soprattutto, non ha niente a che vedere con quella dimensione. Un allenatore di squadre di club infatti vede quotidianamente i suoi giocatori, può operare sulle loro gambe, così come sulle loro teste. Può imporre una filosofia di gioco, dei tatticismi tecnici, delle visioni e delle abitudini. Il CT questo lusso non ce l'ha. Il fattore tempo è assai severo con lui, concedendo appena qualche settimana di aggregazione l'anno, con ben poche possibilità di vedere se quanto fatto prenda o meno la giusta direzione. Insegnare filosofie e imporre modelli tattici è pura follia. Chi ci ha provato, tranne qualche rarissimo caso, ha sempre fallito, portandosi a casa lo scotto della vergogna e una ferita indelebile nel proprio orgoglio. 

Ora, questa pesante responsabilità si trova nelle mani di un certo Mancini, un tecnico abile che si è fatto apprezzare sulle panchine di importanti squadre. Un CT che ha dato dimostrazione di saperci fare, sebbene in scontri non proprio impossibili per la sua selezione, raggiungendo a tempi di record la qualificazione al prossimo Europeo ed eguagliando i risultati dei sui grandi predecessori del passato. Grandi personaggi che hanno segnato intere epoche, entrati a far parte dell'hall of fame del calcio che conta, quello che non muore mai. A loro, ora che viene il difficile, Mancini dovrebbe guardare e, perché no, immaginarsi di avere un colloquio, una tavola rotonda, magari un'amabile cena con questi titani.
Stiamo parlando proprio di loro, i tecnici che vinsero il Mondiale di Calcio sulla panchina della nostra gloriosa nazionale: Vittorio Pozzo, Enzo Bearzot e Marcello Lippi. Per quanto distanti anni, anzi interi decenni l'uno dall'altro, questi tre grandi hanno infatti avuto un qualcosa in comune, una grande per quanto semplice intuizione: comprendere che l'Italia, intesa come nazionale, ha un'unica filosofia.

- Saper soffrire, ecco la chiave, caro Roberto - così forse gli direbbe il pacato Bearzot, fumandosi la sua pipa all'inizio di questo colloquio immaginario e meraviglioso. - Di campioni ne abbiamo avuti, in tutte le epoche. Senza almeno un paio di loro dentro la formazione, è impensabile di poter vincere qualcosa, questo è indubbio. Ma santo cielo, non siamo e non saremo mai forniti come il Brasile dei miei tempi o la Spagna dei tuoi -. A dirlo è proprio colui che incontrò, e sconfisse, quello che forse fu il Brasile più forte di tutti i tempi; i verdeoro di Zico, Socrates e Falcao.
Un'armata di semidei, più che una squadra di calcio direbbero in molti. Semidei che però incontrarono degli eroi, anzi antieroi per come furono bisfrattati alla vigilia, in grado di sconfiggerli in quel lontano 1982. Come? - Sapevamo di essere inferiori. Tre pareggi nel girone di qualificazione, chi avrebbe mai scommesso su di noi. Eppure noi avevamo un qualcosa in più. Eravamo uniti, contro tutto e tutti. Sapevamo soffrire e sapevamo che, se ci avessero segnato un gol, noi ne avremmo messo un altro subito dopo. Questo perché la nostra è una nazione di artigiani. Noi raggiungiamo i nostri obiettivi solo in un modo, sudando. Per questo non stranvinceremo mai, contro nessuno, nemmeno le più insignificanti. Ma è anche il motivo per cui non saremo mai una squadra facile, nemmeno per quelle che vivono nell'Olimpo del calcio. - 

Attraverso il fumo denso della pipa del vecio, nomignolo con cui tutti conoscevano il compianto Bearzot, Mancini intravede lo sguardo di un altro signore. Anche lui, esattamente come il suo predecessore, vinse in un momento di estrema crisi per il calcio italiano. Attraverso gli occhiali eleganti e il volto sempre apparentemente imbronciato, Marcello Lippi, ultimo campione del mondo con l'Italia, è d'accordo con il vecio, ma vuole aggiungere qualcosa. Un suo personale spunto. - Parliamoci chiaro Roberto. Siamo italiani e noi siamo forti in una cosa in particolare: la difesa. Puoi segnare anche un solo gol per vincere la partita, ma prima di tutto non ne devi prendere -. Lippi ha buon diritto per dire ciò. La sua nazionale del 2006 subì appena due reti, tra l'altro avvenuti uno per autogol e l'altro su rigore. - I tuoi difensori devono essere intelligenti, prima che corpulenti. Guarda Cannavaro: è un nano, ma non c'era palla che non fosse sua, se questa toccava terra -. Mentre lo dice, Mancini rivede di fronte a sé la semifinale contro la Germania del 2006. Ai supplementari l'Italia è in vantaggio, ma la Germania la sta costringendo nella sua area di rigore, mentre il pubblico spinge sempre di più per il pareggio. Un lancio lungo però fa un rimbalzo di troppo e Fabio Cannavaro, con uno scatto violento, ruba il pallone e fa ripartire l'Italia in contropiede. Un lampo che porta gli azzurri sul due a zero, aprendo loro le porte della finale, che poi vinceranno.
Mancini sente un'ondata di ansia salirgli su per la schiena. Riuscirà anche lui ad arrivare a quei livelli? Anche lui respirerà l'aria pesante, colma di emozioni, di una finale? 

Questo suo vagare con l'immaginazione viene subito notata, e non da un personaggio qualunque. Vittorio Pozzo, col suo sorriso serafico disegnato su un volto pieno e gioviale, gli regala così anche il suo contributo. - Siate orgogliosi, signor Mancini - così gli dice, guardandolo dritto negli occhi. - Ai miei tempi non era un semplice modo di fare. Era un obbligo. Mi capirete - prosegue usando il Voi del ventennio - Io non dovevo rendere conto dei risultati solo ai tifosi o alla federazione, come voi. Io dovevo rendere conto a una persona come Benito Mussolini, il quale non era dedito a perdonare tanto facilmente le sconfitte. Soprattutto non amava l'arrendevolezza. Per questo vi dico, non lasciate mai che il pensiero di perdere vi solchi il capo, né a voi, né a vostri giocatori. Siate umili, per carità, che la tentazione di credervi imbattibili non vi tocchi mai. Ma non permettete mai che la paura entri nel vostro spogliatoio -. Mancini sa bene di cosa sta parlando il CT leggendario che vinse ben due mondiali. Per quanto negli ultimi due decenni l'Italia sia sia fregiata di un mondiale e di una finale europea, è anche stato il ventennio della Corea, la seconda nella storia, dei biscotti nordici, delle eliminazioni nei gironi e persino dell'esclusione dall'ultimo mondiale. Che cosa è accaduto a questa Italia per cadere così in basso? 


L'Italia ha un'unica filosofia, come comprende Mancini alzandosi dalla sedia, ringraziando i suoi predecessori per l'apprezzato colloquio. Una filosofia che impone all'Italia un'unica verità, ovvero quella di un essere una compagine che mai, in nessuna epoca così come nel presente, ha entusiasmato. Per quanto sia latina per latitudine, non lo è per spirito e gioco. E' piuttosto una compagine coriacea, che preferisce costruire muri, piuttosto che dilettarsi di tango o flamenco. Una squadra non bella dunque, che fa quello che può, come meglio può. Ma che quando lo fa, non ce n'è per nessuno.
Un'unica filosofia a guidarla: saper soffrire con orgoglio, difendendo fino alla morte il risultato. La Garra, come direbbero i sudamericani, quella grinta che non ti permette di mollare mai, di lottare per la causa, anche nelle situazioni più disperate. Con questo pensiero Mancini si alza e se ne va, salutando con la mano i suoi illustri interlocutori giunti apposta per lui, due di questi persino dall'oltretomba. Nel lungo corridoio osserva con ammirazione le foto di coloro che hanno ricoperto il suo attuale incarico, chi più amato, chi meno osannato. 
E mentre imbocca l'uscita, ode in sottofonde  il grande tifo di tutti i tempi, di un secolo intero. Migliaia, anzi milioni di voci che all'unisono urlano "Forza Italia". Un incoraggiamento che Mancini spera sarà di buon auspicio. 


In bocca al lupo, Mister.