Mancano ancora due mesi abbondanti al 24 di luglio e, prima che quel giorno arrivi, di acqua sotto i ponti ne passerà parecchia. Finirà questo campionato emozionante, quanto altalenante. Inizierà e si concluderà un europeo che si è fatto attendere per oltre un anno. Ci si preparerà alle prossime olimpiadi di Tokyo, nella speranza che il Covid non si metta di traverso per l'ennesima volta. Ma non solo. Nel mio personale intimo, vedrò festeggiare il quarantesimo di matrimonio dei miei genitori, mia figlia Iside vivrà la prima estate della sua vita, così come acquisterò per la seconda volta una casa, che stavolta credo e spero sarà quella definitiva. Come ho detto, in questi due mesi che ci seprarano dalla fine di luglio, di cose a cui dovrò pensare sarannno parecchie. Eppure quel 24 di luglio comincia già a far risuonare l'allarme dell'agenda biologica contenuta nel mio cervello. Una data che potrebbe essere una tra le tante, almeno per la maggior parte di chi sta leggendo, ma che per me rappresenta una ricorrenza importante. 

Premesso che io non sia induista o buddista, amo festeggiare il giorno che in oriente è noto come Guru Purnima. Tradotto direttamente dal sanscrito, tale ricorrenza si traduce come luna piena del maestro, meglio ancora - analizzando ancor più approfonditamente la parola guru - luna piena di colui che disperde le tenebreFesta molto colorita il Guru Purnima, ma anche molto personale per chiunque decida di ricordarla. Avviene sempre il giorno della luna piena tra giugno e luglio, considerata dagli orientali come la più splendente dell'anno. Secondo tradizione, coloro che onorano tale momento devono digiunare per tutto il giorno e nutrirsi esclusivamente di yogurt e latte per i quattro successivi. Il motivo risiede nel rendere onore ai maestri che, nel corso della vita, ci hanno segnato profondamente e fatto crescere secondo tutti i punti di vista, che essi siano trapassati o ancora viventi. Non importa chi siano. Se siano conosciuti alle masse, o siano stati semplicemente nostri parenti o amici. Ognuno ha i propri ed è giusto che li onori come meglio gli compiace. Per quanto sia lontano geograficamente e tradizionalmente da tali culture, festeggio anche io il Guru Purnima perché la mia vita mi ha insegnato che i maestri sono importanti. E, come tali, la loro memoria va sempre onorata. Non farlo vorrebbe dire non solo svilire quanto fatto di buono da tali persone, ma anche il nostro stesso percorso personale. Per indole o fattore sociale, molto spesso preferiamo infatti ricordarci di cosa non funziona in questo mondo, ma come recita una frase a me molto cara del Talmud, basta che esista un solo giusto perché il mondo meriti di essere stato creato. E così, tra le mie personali guide spirituali, annovero sempre figure immortali quali Socrate, Nietzsche, Schopenhaure, Epitteto, Krishnamurti, Lao Tzu e moltissimi altri ancora. Seguono figure meno note, ma non meno importanti per me. I miei nonni, che come molti si dovettero rimboccare le maniche per ricostruire dopo una guerra, vissuta tra l'altro in prima persona. Vi sono le mie due maestre, Maria Teresa e Anna Maria, che grazie a loro imparai l'amore per la scrittura e il far di conto. Vi sono poi altri personaggi, che per alcuni troverebbero poco senso in questo mio lungo novero, ma senza i quali molto probabilmente la mia vita avrebbe preso tutt'altro corso. Tra questi, uno in particolare viene dal mondo dello sport e, se già avete provato a leggere qualche mio articolo in passato, già l'ho citato qualche volta. Coach Daniele. 

Sebbene amante del calcio sin dai dieci anni, non sono mai stato in grado di tirare un calcio sensato a un pallone. Se avete presente quel tipico momento della nostra infanzia dove i due più forti decievano a turno i loro compagni di squadra, io spesso ero l'ultimo a essere scelto, sempre che non fossimo dispari, in quel caso facevo l'arbitro. No, nel mio destino non c'era il calcio, ma c'era la pallavolo. O almeno così pensavo, dato che mio fratello fu un buon giocatore e mio nonno, si da quando fondò la sua polisportiva, era molto legato a tale sport. Così, quando compii gli otto anni e giunse il momento di iscrivermi a una disciplina, esternai il mio desiderio. Piccolo problema: nella polisportiva del mio paese, i maschietti potevano iscriversi al minivolley solamente dopo il quinto anno di scuola elementare, vai a capire il perché. Fu così che dovetti deviare sulla pallacanestro, promettendomi però che, raggiunta l'età giusta, sarei tornato sulla mia prima scelta. Promessa che non sarebbe stata mantenuta. In quegli anni accadde infatti che mi innamorai della pallacanestro, e di questo devo ringraziare il mio primo coach, Dario - prendo nota per tenere un posto anche lui il 24 luglio - che mi insegnò molto bene i fondamentali di questo sport. Tutto bene sino alla fine delle elementari, quando entrai nella cosiddetta età dello sviluppo, dove qualche problemino, il mio cigno nero, era lì pronto ad attendermi. Primo fra tutti: mentre i miei compagni si sviluppavano superando ampiamente il metro e ottanta, io mi dovetti accontantare di 173 centimetri conditi da tanta voglia di crescere. D'altronde l'altezza non è tutto, vero? Ebbene, così non la pensava il mio allenatore all’epoca - credo si chiamasse Davide - che pensò bene di relegarmi in panchina per ben tre anni. Se non fosse stato che avessi imparato ad amare quello sport alla follia, e mi trovassi bene con tutti i miei compagni, molto probabilmente avrei mollato molto prima. Giunto al termine delle medie, la misura fu colma anche per me. Nella pre-season che anticipava il mio approdo alle superiori decisi che, dopo essermi goduto quel fine estate di preparazione e partitelle, avrei gettato la spugna. Se non fosse stato per quel tizio burbero, dal forte accento bergamasco e dalla bestemmia facile, che una sera di allenamento di inizio settembre si presentò al campo. Il tizio, che al tempo non conoscevo, si sedette sugli spalti per vederci in azione. Terminato l'allenamento, scese in campo, andò dal mio allenatore e, puntando un dito nella mia direzione, disse: voglio lui. Come scoprii poco più tardi, si trattava dell'allenatore della squadra under 17, che quell'anno si sarebbe ritrovata sguarnita di parecchi giocatori. Ricordo ancora bene lo sguardo del mio allenatore quel giorno. Nei suoi occhi si leggeva un'espressione del tipo, se proprio lo vuoi, non venire poi a lamentarti. Aveva una stima di me quell'uomo… vabbé, è un'altra storia. Mi trovai così catapultato, io che ero giocatore abbonato alla panchina, a giocare con ragazzi di minimo un paio d'anni più grandi, e a giocare per davvero. Grazie a Coach Daniele, che era un vincente per natura, vincemmo anche noi, e vincemmo parecchio, anche se solo a livello giovanile. Eppure, nonostante i trofei e le vittorie, il ricordo più bello che ho di lui è il profondo senso educativo che c'era nel suo modo di allenare. Per lui il senso di gruppo e la passione del singolo individuo erano più importanti del risultato. Non gli importava vincere, anche se ce la faceva benissimo, ma il come si vinceva. Puoi segnare di culo da quindici metri o poggiare il pallone sul tabellone e segnare facile. Io preferisco la seconda perché - pota - se sei arrivato sotto canestro, vuol dire che hai fatto tutto bene. Questa è una delle tante frasi che, quasi fosse un mantra, soleva ripeterci costantemente.  Nulla veniva lasciato al caso con lui, meno che mai l'aspetto caratteriale. Prima di conoscerlo ero un ragazzino timido e, come si dice in gergo, con il braccino. Tre anni più tardi cominciavo a ringhiare già dagli spogliatoi e persi la concezione che la mia statura fosse un problema. 

Nel corso dei sei anni sotto la sua guida, più volte gli chiesi il perché, quale fu la ragione per cui quel giorno scelse proprio me. Nella mia squadra di allora c'erano parecchi giocatori molto, ma molto più talentuosi di me. Ebbene in quei sei anni, ogni volta che glielo domandai, mi rispose sempre nello stesso modo. Per tre motivi: perché ti allenavi a testa bassa; perché avevi una buona tecnica di tiro… e perché sei russo, o slavo o quel che è. Piccola digressione: nonostante il mio nome, io non sono russo, ma lui se ne fece una ragione solo anni più tardi quando, carta d'identità e certificato di nascita alla mano, glielo dimostrai. Al di là di questo breve aneddoto, scoprii la verità compiuti i vent'anni. Finita la sesta stagione, coach Daniele ci annunciò che non ci avrebbe seguito in prima squadra, per rimanere con i ragazzini come aveva sempre fatto. Pensammo allora che fosse duopo onorarlo con una cena di saluto a nostre spese.  Fu in quell'occasione che, facendogli quella domanda per l'ennesima volta, mi diede una risposta completamente diversa. Forse, l'unica che avesse senso. Ti ho conosciuto che giocavi giusto dieci minuti a stagione, eppure amavi giocare, lo si vedeva. Io volevo giocatori con passione e amore per questo sport. Il resto non mi interessava. 

Attraverso lo sport, coach Daniele mi insegnò a essere una persona migliore, dentro e fuori dal campo. Non so se fui un giocatore interessante dal punto di vista sportivo, ma i suoi insegnamenti me li porto dietro ancora oggi che gioco di meno, ma alleno di più. Mi insegnò a non giudicare mai compagni e avversari sulla base delle apparenze, che tutti possono essere utili e che senza passione, senza amore per quello che si fa, anche la più grande delle vittorie perda di senso. E, per questo, per me lui rimarrà sempre il modello a cui qualsiasi allenatore e formatore di giovani atleti dovrebbe aspirare. Perché lo sport è gioco e, come tale, è il momento in cui sperimentiamo veramente la vita. Insegnare i valori del gioco, significa insegnare i valori genuini della vita, e questo forse ce lo siamo dimenticati. Come disse infatti Nietzsche, la maturità dell'uomo significa aver ritrovato la serietà che si metteva nel gioco da bambini. Dedicato ai maestri di tutto il mondo, noti o meno noti che siano. Buon Guru Purnima a tutti, anche se non lo festeggiate.

Un abbraccio

Igor