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Ugolino e il suo cameriere
La vita è una partita che finisce 0 a 0, é un continuo andirivieni di umori, felice è colui che gioisce della luce, consapevole che è solo un bagliore momentaneo. Che poi ritorna … Io venivo dal buio fitto, avevo perso mia moglie, avevo perso i miei sogni, ho conosciuto la depressione, ho sfiorato il suicidio, ho pregato, ho imprecato, ho rubato, ho scommesso e smesso di scommettere su me stesso. Ho brancolato in un labirinto che sembrava senza uscite, ma la vita un’insegna EXIT te la mostra sempre ….

«Scossone nella maggioranza, l’onorevole Masi lascia il partito di Mulè, dopo averlo attaccato violentemente in aula». «Masi passa al gruppo misto. durissime le sue parole: “Rodolfo Mulè non mi rappresenta più, immotivati i suoi attacchi alla sovrintendente Dragotto. Indegno d’un uomo delle istituzioni speculare su una tragedia per mero calcolo politico”» «Il Mule’ che non ti aspetti: far fuori la Dragotto per piazzare un suo fedelissimo ai beni culturali» «Lo speculatore di tragedie e l’amico da sistemare: storia di un politico siciliano» «Il governatore interviene sull’arroventata polemica tra il presidente del parlamento siciliano e la sovrintendente ai beni culturali: “Mulè faccia chiarezza, Adele Dragotto ha la mia fiducia”». Bingo!
La pressione mediatica su Adele di colpo svanì, adesso in mezzo al mare, anzi nella cacca, c’era Mulè. Il bastardo era stato sommerso da una caterva di letame, tra l’indignazione social, i titoli di giornali e le defezioni che seguirono all’uscita di Masi dal partito. Ma era soprattutto il silenzio assordante dei suoi a fare un gran rumore, nessuno ne aveva preso le difese, nessuno voleva rischiare di rimanere invischiato in una situazione del genere.
Inoltre, ciliegina sulla torta, era finalmente intervenuto il governatore, schierandosi dalla parte della sovrintendente e del sentiment popolare. Altro che torta, proprio una frittata! E a farla era stato lo stesso Mulè, il quale, evidentemente perché ormai privo di uno spin doctor all’altezza, non aveva considerato il rischio altissimo che aveva corso nel montare un caso politico sul suicidio di un imprenditore siciliano, di cui i media di tutto il Paese non smettevano di parlare. Io invece sì, l’avevo calcolato, avevo previsto tutto e avevo vinto. Avevo salvato Adele e mi ero preso la mia rivincita sul bastardo, la cui carriera politica era praticamente finita. I media di tutto il Paese, infatti, non smettevano di parlare del suicidio e non smettevano di parlare dello “speculatore di tragedie”. Incredibile come una frase, magari scritta o detta di getto, possa diventare virale e identificarti più dello stesso nome che porti dalla nascita. Lo speculatore di tragedie in quegli infausti giorni s'era chiuso in un silenzio tombale, dribblando cronisti appostati sotto casa e rifiutando interviste. Mulè era ormai un fantasma che camminava lentamente verso il declino, avrebbe ciondolato sul suo stesso ruolo di presidente del Parlamento siciliano fino alla fine della legislatura e poi la sua stella si sarebbe definitivamente eclissata. Avrebbe forse continuato a sopravvivere di qualche elezione, mai più nessuno, però, gli avrebbe affidato ruoli apicali. In politica, certi scivoloni sono irrimediabili (ricordo di una presidentessa della Camera scomparsa dalla scena per il solo fatto d’essere andata al supermercato con la scorta); ecco, lo scivolone di Mulè divenne clamoroso.
Una lettera aperta, vergata dalla moglie di Morello e pubblicata sul Corriere, scolpì il suo nome sulla lapide dell’inverecondia. Inoltre, mai sazio del sangue della polemica, specie se a sanguinare è uno della casta, il più importante programma d’inchiesta della rete nazionale aveva intervistato tale Augusto Salvo, a detta di Masi, colui che era stato individuato da Mulè come il successore di Adele Dragotto. Avevo sussurrato io quel nome a Milazzo, affinché giungesse alle orecchie di Masi, avevo sempre saputo dell’intenzione di Mulè di mettere Salvo su quella poltrona. E Augusto Salvo aveva conficcato l’ultimo letale chiodo sul corpo martoriato d’un politico messo in croce da un mancato uomo delle pulizie. Ci avevo preso in pieno! Ero davanti alla tv e me la godevo nell’ascoltare le parole di Agusto Salvo: “Mulè lo conosco da tempo, tra noi c’è sempre stato un rapporto di stima, ma ha sempre voluto la testa della Dragotto e quando mi ha svelato il suo piano politico per farla fuori, io ho gliel’ho sconsigliato. Lui mi ha risposto che non dovevo preoccuparmi, che in politica è come in amore, tutto è lecito. Io l’ho lasciato fare, e di questo mi scuso, d’altronde impedirgli di fare qualcosa è praticamente impossibile …”. Sì, una goduria! Anzi, no: la sublimazione della goduria!

Adesso però veniva il difficile: far recuperare i ventimila euro a Malvagno, perché mai avrei fregato il padre di Giovanni. Non c’era nessun dossier, non c’era prova di alcuna corruzione, non ci sarebbe stata nessuna autorizzazione e non c’era da parte mia nessuna intenzione di tornare a lavorare al bar (la mia richiesta serviva solo a rendermi più credibile). Milazzo e Masi erano fottuti. Malvagno non avrebbe mai avuto i suoi tavolini, ma avrebbe riavuto i suoi soldi. Perciò, presi l’unica decisione possibile e chiamai Angela.

Prima d’incontrare la mia ex moglie, dovetti rispondere a una convocazione molto importante, sebbene fatta col più informale dei mezzi, cioè un WhatsApp audio: “Domani mattina ti aspetto in ufficio, vieni all’orario per te più comodo”. Non vedevo Adele da quel fantastico weekend. Durante tutta la convulsa settimana che seguì non capitò che ci s’incontrasse in casa e anche i messaggi si erano ridotti a un silenzio che silenziosamente avevamo stabilito di tenere. L’intesa era massima, sempre così tra due persone intelligenti e in perfetta sintonia. Arrivai all’edificio della Sovrintendenza verso le dieci. Il cielo era plumbeo, il mio umore soleggiato. Varcai il portone principale e mi diressi verso la portineria, schermata da una vetrata spessa, dietro la quale torreggiava, assiso sul trono del posto fisso che nessuno può toglierti, un omaccione con la barba incolta, la pelle bruna e gli occhi castani contornati da sopracciglia folte. “Buongiorno, la dottoressa Dragotto?”, feci io. “Ha un appuntamento?”. Non sapevo cosa rispondergli, sapevo solo provare fastidio verso il tipico atteggiamento di chi ti sta concedendo la grazia di prestarti attenzione. “Sì!”, sibilai appena, sottolineando con la testa la mia risposta. “Chi devo dire?”. “Giuseppe Mendola”. L’omone prese la cornetta come se stesse sollevando un manubrio di venti chili, sussurrò qualcosa e il mio nome in mezzo a quel qualcosa. Poi si rivolse a me, sembrava il Nebbia di Heidi nel bel mezzo di una pennica: “Un momento”.
Aspettai una decina di minuti. Fino a quando dalla tromba delle scale, che intravedevo oltre le vetrate alla fine d’un ampio atrio, non comparve la ragazza che veniva con Adele al bar. Dalla reazione del signor Nebbia, che s’alzò di scatto dalla sua postazione, compresi di essere un visitatore speciale; e lo comprese pure lui, che infatti cambiò espressione, nel senso che quantomeno cancellò dal suo sguardo quel senso di svogliata noncuranza che mi aveva fino a pochi istanti prima riservato. “Giuseppe, che piacere!”. Mi venne incontro con un sorriso smagliante, lunghi capelli lucenti, un enorme cellulare in mano e l’aria perfettina da miss efficienza. “Vieni con me, prego”. La seguii, prendemmo l’ascensore. Lei pigiò il numero 7, salimmo. Mi guardai allo specchio e pensai che questa volta il vestiario fosse quello giusto. “La dottoressa ha una riunione in corso, ma non ci metterà molto”, fece lei per spezzare il solito silenzio imbarazzante degli ascensori. Io annuii, accomodante. Fummo presto al settimo piano. Seguii la segretaria, che mi condusse fin dentro la stanza di Adele. “Puoi aspettarla qui. Ti porto qualcosa?”. “Magari un caffè, grazie”. “Te lo porto subito”.
Pensai che nelle due volte in cui avevo visto quella ragazza, ero stato io a provvedere al suo caffè. Adesso m’incensava e mi faceva aspettare non nella saletta d’attesa, ma dentro la stanza del capo. Subito dopo la porta si riaprì. Che efficienza!, pensai. Solo che non era la segretaria col caffè, era Adele, che subito mi prese in giro alla sua maniera: “Oh, questa volta sì che l’abito è quello giusto!”. Mi venne incontro, abbracciandomi, radiosa. Mi baciò sulla guancia, sulla parte della guancia più vicina alle labbra, o almeno così mi parve. Aveva la felicità disegnata in faccia e aveva una fragranza delicatissima cosparsa sul corpo. I capelli raccolti, il tailleur azzurro e il luogo le conferivano l’aura sua di potere e autorità, ma per me era, e sarebbe stata per sempre, la Adele che dorme in casa mia e indossa l’enorme felpa verde dei Boston Celtic. Io fui disinvolto nel ricambiare l’abbraccio, forse anche troppo, perché le carezzai la testa. Quindi, canzonai: “Dottoressa …”. Ci guardammo per alcuni istanti e ci dicemmo tutto senza aprir bocca. Poi arrivò il caffè e Adele poté così rispondere alla domanda che, dal momento in cui m’aveva inviato quel vocale, mi ero posto un miliardo e mezzo di volte. “Giuseppe, sbrigati col caffè, dobbiamo tornare alla riunione”. Bevvi il caffè, la segretaria nel frattempo mi dotava di un beige e mi sottoponeva una serie di fogli da sottoscrivere, che io sottoscrissi senza neppure leggere, sotto lo sguardo quatto di Adele, la quale faceva finta di concentrarsi su altro, ma se la rideva divertita. “E allora, andiamo?”. La guardai, sfidando il tremore del mento. Quando la gioia diventa commozione si chiama felicità ed era esattamente ciò che provavo in quel momento. Lei mi guardò, sfidando tutta sé stessa per mantenere l’ultimo insperato contegno da sovrintendente. La segretaria uscì, forse a un cenno di Adele o forse per capacità di lettura delle situazioni o forse perché doveva uscire e basta, che ne so?   “Grazie!”, le dissi con un lacrimone che non riuscii a non far scendere giù. Lei si avvicinò, mi mise la mano sulla guancia, quella stessa guancia che baciò ancora, mentre col pollice s’impossessava di quel lacrimone come d’una gemma di cristallo da volere a tutti i costi. “Sono io che devo ringraziarti - disse con la voce raddolcita - ma facciamo così: giuriamoci che questa è l’ultima volta che ci diciamo grazie, tra due persone che si vogliono bene non occorre”. Annuii, compiacente. Lei andò verso la porta. Io la seguii e tornammo alla riunione. La prima di tantissime altre riunioni che avrei fatto al suo fianco. Ero il capo dello staff della dottoressa Adele Dragotto. E degli accadimenti dell’ultima settimana (del come, del quando, del perché) non parlammo mai, non ce ne sarebbe mai stato bisogno.

Cos’è successo poi?
Poi è successo che ho ceduto l’appartamento ad Angela per soli cinquantamila euro, purché tutti e subito. Venti li portai a Malvagno, raccontandogli tutta la verità: non la prese bene, nonostante la restituzione; quanto meno la sua incazzatura mi diede la stura per regalargli il suggerimento di stare lontano dalle cose della politica. Milazzo e Masi non sarebbero mai stati un problema, in fin dei conti Masi si era intascato i ventimila euro e Milazzo s’era messo in mezzo a una situazione che poteva diventare scottante, perciò, nessuno dei due (ammesso che Masi mi conoscesse) sarebbe mai venuto da me a recriminare qualcosa.
Poi è successo che gli altri trentamila euro li tenni per me, magra consolazione a fronte di un appartamento dal valore venti volte superiore.
Poi è successo che me ne tornai a vivere dai miei, in attesa di una nuova sistemazione.
Poi è successo che decisi di andare a trovare Rodolfo Mulè a casa sua. Conosco casa sua, la conosco bene, ci ho passato ore ed ore. Ero stato un suo fedelissimo, il suo pupillo, il suo spin doctor, fino a quando non fui divorato dal suo cinismo, che l’aveva portato a sacrificare la mia candidatura alla Camera dei deputati per far spazio al suo fac totum. Non ho mai saputo perché mi avesse preferito “Diego il cameriere” (lo chiamavamo tutti così, quella specie di segretario tuttofare), qualcuno rumoreggiava di un No che Mulè non aveva potuto dirgli, essendo Diego Azzara il depositario di tutti i vizi e gli sfizi dello stesso Mulè. So solo che non me l’ero tenuta, avevo mandato pubblicamente a quel paese Mulè, apostrofandolo duramente come il conte Ugolino della politica siciliana e lui me l’aveva fatta pagare, distruggendo la mia carriera per sempre. La conosco bene, casa sua. Ci andrò domani. Mi aprirà la moglie più cornificata della storia o forse lo stesso Diego, che pur essendo diventato l’onorevole Azzara, il cameriere non ha mai smesso d’esserlo.
Gli consegnerò una bottiglia di vino rosso, un Barolo, e un biglietto.
Vi ho scritto: «Fattelo servire dal tuo cameriere e bevilo alla mia salute, Ugolino dei mei coglioni. GM».  

 

FINE