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Il successo è alzarsi la mattina ...
Ero andato a vivere nel mio nuovo appartamento di via Notarbartolo. Quando Aldo me lo lasciò, era disabitato, non lo aveva mai dato in affitto. Avevo fatto un minimo di ristrutturazione e cominciato ad arredarlo a gusto mio. Era enorme, troppo per una persona sola, ma era mio e nessuno me l’avrebbe tolto. Angela non si sarebbe arresa, io neppure. Il mio avvocato mi aveva rassicurato sul buon esito della lite, ma quale avvocato non lo fa? Insomma, non ero tranquillo. Giovanni volle rendere omaggio alla mia nuova casa con un autoinvito a cena. Si presentò con Monica e con una pianta. Io gli feci trovare una tavola imbandita alla meglio: un tagliere di salumi pregiati, la pasta al forno preparata da mia madre, per cui sarebbe stata sufficiente una scaldata, pane, olive, formaggi, Cocacola e del vino di media qualità. C’era anche Ciccio, per la cena scegliemmo infatti uno dei giorni in cui avevo mio figlio con me. Fu una serata piacevolissima, parlammo di tutto, Giovanni s’era fatto un ragazzetto perbene ed equilibrato, per tutta la serata non feci che osservarlo, inorgoglito. Parlammo anche del bar e di suo padre, ma con una serenità poco prima impensabile. Anzi me ne portò i saluti, che io ricambiai: “Digli che non serbo rancore e che spero lui non ne serba a me. Semplicemente non ci siamo capiti”. “Lui vuole che io ti dica che al bar un posto per te ci sarà sempre … ah, mia mamma ti manda un abbraccio”. Gli erano venuti gli occhi lucidi o forse erano i miei che luccicavano. A scuola andava bene, Monica lo confermò. Stentava solo in matematica, ma da questo punto di vista c’era ben poco da fare, l’avevo sempre saputo. Non aveva abbandonato la sua vecchia comitiva, molte delle sue vecchie abitudini invece sì e questo grazie anche alla sua fidanzatina. Era diventato davvero asciutto. Lo evidenziò, raccontandomi degli enormi sacrifici che aveva fatto per raggiungere quel peso forma e vantandosi di un soprannome che, ironia della sorte, non aveva più nulla d’ironico. Io colsi l’occasione al volo per rinverdire la mia nuova vocazione di magister, quella che aveva unito le nostre strade: “Nomen omen, dicevano i latini”. Ciccio mi guardò, stranito. L’Asciutto ovviamente mi andò dietro, complice e sfotticchiante come sempre: “Accuminciamu!”. “Cominciamo, sì. Sapete cosa vuol dire?”. “Il destino nel nome”, rispose Monica. “Minchia Mony, sei un mostro!”. “Giova’, la mentula lasciala stare!”. Ridemmo. E mangiammo. E parlammo ancora, parlammo tanto. Non abbastanza, per quello che avrei voluto io. La serata non si protrasse molto a lungo, l’indomani c’era scuola ed erano venuti in scooter, perciò, avevano promesso ai rispettivi genitori che non avrebbero fatto tardi. Mangiammo il dolce, una mousse ai frutti di bosco comprata nella mia pasticceria di fiducia. l’Asciutto ne assaggiò giusto una cucchiaiata, un tempo ne avrebbe ingurgitata mezza teglia. Quindi ci accomiatammo. Salutai entrambi, abbracciandoli forte e riempendoli di noiosissime raccomandazioni. “Dritti a casa, ah!”. “Sì sì, ciao parri’ ”. Rimasi solo, in cucina. Ciccio s’era messo subito a letto, anche lui domani avrebbe avuto scuola. La tv era accesa sul canale dello sport, a un volume decente. Avevo ancora addosso il profumo di lietezza che mio figlioccio m’aveva regalato quella sera. Presi meccanicamente l’I-phone (ormai nessuno più guarda la tv e solo quella), andai sui giornali on line, una cosa che non facevo da tempo. E forse sarebbe stato meglio che non lo avessi fatto, perché ciò che lessi dissolse il mio buon umore. Le polemiche contro Adele non si placavano, anzi, ci aveva messo del suo pure il neosindaco di Palermo (presente alle esequie dell’imprenditore suicida), con un’intervista in cui non aveva mancato di sottolineare “La giustezza della protesta di Mulè”; e i due non erano nemmeno della stessa sponda politica. Il silenzio di quei giorni non aveva prodotto l’effetto sperato. Adele era stata persino invitata ad una trasmissione su rete nazionale, segno che il caso, com’era prevedibile, aveva varcato lo stretto della Sicilia, ingigantendosi. Adele ne aveva parlato con me, aveva rifiutato l’ospitata perché io glielo avevo praticamente proibito. Si fidava di me, s’era affidata a me, anche perché internet le aveva rivelato cos’ero stato prima di aspirare ad essere l’uomo delle pulizie e di diventare, poi, il tato di suo figlio. Stavo facendo la cosa giusta? Il dubbio cominciava ad assalirmi, del resto quello non sarebbe stato il primo dei miei errori e nemmeno il secondo, il terzo o il quarto. Mi sentivo coinvolto, mi sentivo responsabile. Dovevo fare qualcosa, la cena con l’Asciutto e una notte insonne mi fecero venire un’idea.   

Lasciai che trascorressero un paio di giorni, durante i quali Adele continuava a subire attacchi e a sperare intimamente che stessi davvero studiando qualcosa. Tra noi era calato uno strano sottaciuto assenso, come se ciò che c’eravamo detti in camera da letto fossero state parole d’acciaio, il tacito accordo di farla insieme, quella cosa. Si limitava a lasciarsi guidare da me, senza che ce lo dicessimo, senza aver mai stabilito una qualche forma di collaborazione. I ruoli erano ben definiti: lei era quella sotto i riflettori, io l’unico di cui poteva fidarsi e a cui aveva deciso di affidarsi, fino alla fine. E comunque, praticamente non ci si era visti più, lei aveva ripreso i suoi abituali ritmi: fuori la mattina, quando poteva pranzava con Sussulto e poi in ufficio fino a sera. Era invece diventato più intenso, quasi abitudinario, lo scambio di messaggi tra di noi, in quei giorni ce ne mandammo diversi, pochissimi quelli inerenti alla situazione, molti riguardanti suo figlio, altri più banali; ed era sempre lei che iniziava. Così come era stata lei a dar vita a quel gradevolissimo pingpong quotidiano, quando, la mattina seguente al nostro summit in camera da letto, mi mandò un WhatsApp, semplice, scontato, quasi adolescenziale: «Buongiorno». Lei, che aveva un rapporto col cellulare e con la pratica messagistica simile a quello che un alpinista può avere con la pesca subacquea, mi scrisse semplicemente «Buongiorno». È proprio vero, si può dire nulla in un trattato e si può dire tutto in una semplicissima parola digitata.  La mia devozione divenne totale, assoluta, cieca. Mi sarei fatto ammazzare per lei, avrei fatto di tutto pur di farla uscire da quella selva oscura in cui le infernali logiche della politica, e il mefistofelico Mulè, l’avevano trascinata, suo malgrado. Avrei financo sfruttato l’ascendente che avevo verso mio figlioccio, che infatti chiamai, trascorso quel paio di giorni. Giovanni pendeva dalle mie labbra, non mi fu difficile chiedergli di comminarmi un incontro con suo padre e con quel politicante borgataro di Milazzo. E a lui non fu difficile comminarlo nel giro di ventiquattro ore. Quella notte non chiusi occhio, sentivo l’adrenalina circolare tra le mie vene, lubrificandole di carica e motivazione. Non avevo dubbi, non avevo esitazioni, sapevo già cosa fare e l’avrei fatto. Per Adele.

Il remake di un vecchio film, Saranno famosi, mi aveva lasciato sulla pelle una delle frasi più belle della cinematografia mondiale: “Il successo è alzarsi la mattina talmente eccitata per quello che devi andare a fare che non vedi l’ora di uscire da casa”.
Quella mattina, la mattina dell’incontro con Milazzo e Malvagno, mi alzai euforico come non mi succedeva da tempo. Il bar Alla Zisa era lo stesso porto di mare che sapeva di frittura. Gli odori acri dei fumi provenienti dal laboratorio, i colori scolorati di pareti abbrustolite di fatica e respiri, la gente ed un viavai continuo, i rumori del macinacaffè che s’inframmezzano al tintinnio dei cucchiaini che sbattono contro tazzine di scarsa porcellana, la cassa che s’apre e si chiude a intermittenza sostenuta: non era cambiato nulla. Appena ci misi piede, avvertii un tuffo al cuore e capii che quel luogo avrebbe avuto sempre un posticino speciale nell’archivio della mia memoria. Milazzo e Malvagno erano già lì, seduti allo stesso tavolino di quello stesso cantuccio in cui un tempo io e Giovanni ci mettevamo a studiare. Sembrava essere passato un secolo, invece erano passati solo pochi mesi. Mi sorprese l’accoglienza di Ferdinando, disinvolta e cordiale. Mi sorprese la mia totale apatia nei suoi confronti, forse perché ero concentratissimo sull’obiettivo. Milazzo, invece, non mi sorprese affatto, era la cosa inutile, ignorante e scaltra, di sempre. Non era stato eletto al Consiglio comunale, aveva perciò perduto il suo status di consigliere e la cosa gli pesava, d’un peso tanto invisibile quanto percettibile al sol occhio nudo di chi quella nudità ben conosce. Tutti continuavano a chiamarlo “consigliere”, del resto lui continuava a fare quello che aveva sempre fatto e cioè favoretti, servizietti, panza e presenza. Aveva comunque avuto un incarico presso la segreteria di un deputato regionale, l’onorevole Masi (in Sicilia i consiglieri regionali li appelliamo “onorevoli”): contrattino da 1100 euro al mese e per le prossime elezioni regionali i voti della Zisa assicurati all’onorevole. Funziona così. Mi sedetti, stampando tra i denti un sorriso falso di circostanza. Chiacchierammo del più e del meno, mentre Malvagno mi faceva portare il caffè. Ci misi un po' prima di arrivare al dunque, volevo arrivarci gradatamente. Funziona così. “Milazzo, come va la politica?”, virai finalmente verso la questione. “Benone! Ho un incarico …”. “… Sì, lo so. Adesso lavori per l’onorevole Giancarlo Masi”. “T’interessi di nuovo di politica, adesso?”, quasi mi rinfacciò Malvagno. Io lo guardai dritto negli occhi, ferino: “M’interesso di affari adesso”. “Affari?”. “Sì, Nando, affari. Sono alle soglie dei cinquant’anni, non posso mica pensare di campare con le lezioni private a vita! E neppure di fare il cassiere, con tutto il rispetto”. Malvagno condivise con una smorfia eloquente. Milazzo gli lanciò una mezza occhiata complice. Io ovviamente mi avvidi di tutto, perché per me quella situazione era pane quotidiano e, devo ammetterlo, pur essendo totalmente sintonizzato col momento difficile di Adele, avevo l’entusiasmo di nuovo a mille, mi sentivo di nuovo un treno in piena corsa. Li guardai, prima l’uno poi l’altro, facendo passare una scintilla di furbizia tra i miei occhi.  “I tavolini …”, dissi quindi, guardando verso fuori, idealmente in direzione del famoso castello dirimpetto al bar. “Eh?”, mi sollecitò Malvagno ingolosito.  “Posso ottenere tutte le autorizzazioni che servono. E non solo per i tavolini, ma anche per l’organizzazione degli eventi”. Il castello alla Zisa è caratterizzato da un enorme, stupendo giardino, più volte richiesto per l’organizzazione di mega eventi (sfilate, concerti, eccetera), sempre negati dalla Sovrintendenza. Autorizzarli, invece, sarebbe equivalso a portare lì, a pochi passi da quel bar, migliaia di persone durante l’estate e fino a tarda notte; insomma, Malvagno con quei tavolini e quegli eventi avrebbe svoltato.  “Addirittura!”, fece Milazzo, sfottente. “Con la Dragotto è di casa”, gli spiegò Malvagno, anticipandolo. “Esatto, sono proprio di casa”. “E da noi che vuoi?”, mi chiese ancora Malvagno. Mi voltai verso di lui, ignorando, anche col linguaggio del corpo, Milazzo: “Voglio che mi riassumi come direttore del bar: duemila euro al mese, messa in regola e tutti i diritti riconosciuti; niente turni, niente cassa, niente orari”. Malvagno fece la bocca a cucchiaio, possibilista:“E lui cosa c’entra? Perché hai voluto incontrare pure il nostro amico Milazzo?”. “Lui ci serve a mantenere la Dragotto al suo posto”. “Io?”. Adesso mi voltai verso Milazzo, ignorando questa volta Malvagno: “Non tu, il tuo onorevole”. Milazzo si sistemò sulla sedia. Io continuai: “Ho bisogno che Masi faccia un intervento in aula a favore della sovrintendente e contro Mulè, che dichiari apertamente che quella di Mulè è un’operazione politica, architettata per piazzare un suo uomo alla Sovrintendenza al posto della Dragotto e che sfruttare la tragedia del suicidio di un imprenditore è bassa politica. In buona sostanza, ho bisogno di alleggerire la presa su di lei e di accendere i riflettori su Mulè”. Milazzo fece la faccia scioccata: “Ma sono dello stesso partito, dovrebbe mettersi contro il suo stesso leader …”. “Appunto, mi serve che lo faccia proprio uno del suo partito, sennò che valenza avrebbe? I giornali ci vanno a nozze con ste cose” … e a quel bastardo di Mulè potrebbe franare il terreno sotto i piedi, mi augurai con tutto il cuore. “Non lo farà mai”. “Lo farà, invece”. Milazzo emise un mezzo singhiozzo, accompagnandolo al movimento ondulatorio della testa: noi palermitani dissentiamo così. “Lo farà, ti dico. Perché tu gli assicurerai ventimila euro e un posto sicuro nel listino del governatore alle prossime elezioni”. “E come cazzo gliele assicuro queste cose? Oh, ma chi sei?”. “Ai ventimila euro penserà Nando, al resto penserò io”. “Ma quello, ventimila euro, li guadagna in due mesi …” Io sbuffai, guardandolo scocciato. “Se ci vai con ventimila euro, tutta l’operazione sarà più credibile, capirà che dietro di te c’è gente che fa sul serio”. Malvagno non obiettò. Milazzo invece proseguì in quella sua manifesta perplessità, colorata d’odiosissima ironia: “E tu come penseresti al resto? Sentiamo …”. Imperterrito, misi sul tavolo una cartellina gialla: era la risposta. “Cos’è?”, chiese Malvagno. “E’ un dossier”. Mi guardarono entrambi con meno sicumera, stavano entrando in un tunnel forse troppo buio per loro, ma lastricato d’oro. Oro anche per Milazzo, perché essere al centro di un’operazione così delicata significava legare il suo destino a quello del deputato, che perciò lo avrebbe sempre garantito (se due vanno a rubare insieme, i loro destini sono legati per sempre). “Un dossier?”, fece. Io mantenni il sorriso iniziale, ero come un druido tra adepti spersi: “Qui dentro ci sono prove di tentativi di corruzione da parte di uomini vicini al governatore nei confronti della Dragotto. È davvero una iena, ma intelligentissima: ha sempre saputo che un giorno avrebbe potuto servirle un’arma di questa portata e se l’è costruita. Era sul punto di dare tutto alla stampa e dimettersi in pompa magna, ma io l’ho convinta ad aspettare”. “Che tipo di prove sono?”. Malvagno allungò le mani verso la cartella. Io l’afferrai prima che lui potesse prenderla, guardandolo torvo: “Mail, messaggi e foto. Ma questa non si tocca, eh!”. Milazzo si mantenne perplesso, ma dalla sua faccia traspariva un'espressione d'ingolosimento: “E come faccio a convincere il governatore sulla parola?”. Sorrisi: “Milazzo, ma che dici? A te il governatore neanche lo fanno vedere in fotografia. Deve essere Masi, il tuo onorevole, a condurre il gioco, non tu. E comunque il dossier sarebbe da tirar fuori all’ultimo, l’anno prossimo, a poche settimane dalla presentazione delle liste, non ora”. Milazzo non capiva, mi guardava in modo strano. Gli spiegai come fa un maestro delle elementari: “Masi sminchia a dovere Mulè, cambia partito, si avvicina al governatore, che tra due anni si ricandiderà. A quel punto Masi gli consegnerà il dossier in cambio di un posto nel listino bloccato, il governatore non potrà rifiutarsi e lui sarà rieletto senza dover spendere un solo centesimo di campagna elettorale e senza dover gareggiare coi pezzi da 90 che stanno transitando nel partito di Mulè e che in una competizione elettorale se lo mangerebbero a colazione … l’ultima volta ce l’ha fatta per una manciata di voti, lo sai, no?”. “E io?”. “E tu, caro il mio consigliere mancato Milazzo, intanto continuerai a stare nella sua segreteria, magari con un contatto più corposo, poi potrai pretendere da Masi di essere il suo unico candidato al Consiglio comunale ed essere finalmente eletto … è la politica, bellezza!”. Milazzo rimase impassibile, nonostante io l’avessi deliberatamente e continuamente irriso fin dall’inizio della riunione. Era letteralmente calamitato dalla prospettiva di trovarsi in mezzo a un’operazione di alta politica e dall’idea di poter fare finalmente il famoso salto. E sì, forse era anche affascinato da me. Comunque, non demorse: “Ma anche all’onorevole Masi devo portare qualcosa di concreto. Mi serve quel dossier”. Aprii la cartellina, presi il primo foglio e feci in modo che entrambi lo leggessero dalle mie mani: era la stampata di un WhatsApp. Sia Milazzo che Malvagno quasi strabuzzarono gli occhi, occhi che puntarono sul contenuto del foglio, cercando di distinguerne parole e nomi. Milazzo credette di poter fare lo scaltro: “Non mi basta, devo farlo vedere a Masi”. Storsi la bocca, fintamente seccato: “E secondo te io faccio girare un documento del genere … vabbè Mila’, mi siddiò, tornatene a fare lo spicciafaccende. Nando, scusami per il tempo che ti ho fatto perdere” e mi alzai. “No, aspetta Giuseppe”. Centro! La presa di Malvagno sul mio braccio era talmente decisa che capii di aver fatto centro. Non aspettai, me ne andai con la mia cartellina tra le mani, dicendo: “Fatemi sapere, vi do due giorni”. Ma prima di lasciare il bar, mi voltai a guardare un’ultima volta Milazzo e mi ci riavvicinai: “Masi lo convinci perché è nella merda, lo sa che rischia di non essere eletto. Vacci coi ventimila in mano, sarai già a metà dell’opera. Vi saluto!”.  

Quel weekend lo ricordo benissimo. Era sabato pomeriggio, faceva freddo (a Palermo una decina di gradi è già freddo), ero a casa e avevo tutta l’intenzione di rimanerci, rincoglionendomi di partite, libri e musica. Avevo Ciccio con me, lui si sarebbe rincoglionito di Xbox. Era una di quelle giornate uggiose che ti annebbiano l’umore e ti fanno venir voglia di non fare nulla: il massimo per un lagnuso. Avevo appena fatto il mio riposino pomeridiano, avevo acceso il computer con l’intento di scrivere qualche pagina di questa storia, ma l’avevo subito richiuso, accondiscendendo all’apatia. Accesi la tv, alle 18 giocava l’Inter, avevo il tempo di fare un paio di partite a Fifa con Ciccio. Il suo Psg stava stracciando il mio Chelsea, quando qualcuno citofonò. Il suono del citofono è uno dei più detestabili, mi ha sempre generato una specie di fremito fulmineo, non so spiegarlo, come di disagio o timore o non so cosa. La mia ex moglie diceva che fosse il frutto di un qualche trauma, nascosto nei meandri del mio subconscio: verosimilmente una delle sue tante castronerie da psicologa fai da te. Guardai istintivamente mio figlio, neanche fosse un veggente in grado di rispondere al mio più automatico dei “chi sarà mai?”. Lui si alzò per andare a vedere chi fosse. “Lascia stare. Sarà qualche scocciatura, il ragazzo del volantinaggio, un testimone di Geova … giochiamo”. Esorcizzavo sempre così quel fremito, ignorandolo. Continuammo a giocare, ma pochi secondi dopo il citofono emise nuovamente l’antipatico suono graffiato. Andai io, scocciato e anche un po’ impensierito. “Sì?”. “Sono Adele”. Rimasi muto come un deficiente e per un tempo che non fu certo un’eternità ma ci s’avvicinava. “Scusami, Giuseppe, forse ti disturbo … scusami, io …”. “No no …”. Il mio grado di deficienza raggiuse picchi assoluti, ancora imbavagliato dalla sorpresa e incapace di mettere due parole insieme. “Sei occupato? Ti chiedo scusa, forse non dovevo”. Per fortuna rinsavii: “Macché! Sali pure, quinto piano”. Aprii. Anche lei a imbarazzo non era messa bene. Ancora al citofono, si scusò per la milionesima volta in pochi secondi: “Scusami, non so se magari sei in compagnia, io non …”. Altro che iena, altro che generalessa di ferro, altro che super manager! Era una bambina indifesa. “Sì che sono in compagnia, ma sali lo stesso” e ripigiai l’apri-portone (appunto, un deficiente). Andai di là, indossai una tuta e le scarpe del padel (sempre a portata di mano), quindi andai in bagno a darmi una sistemata, perché il mio aspetto in modalità pantofole è sempre stato penoso. Lei suonò al campanello della porta dopo una manciata di minuti. Io aprii, dopo essermi dato un’ultima disperata rassettata. Anche lei era in compagnia, era con suo figlio. Non seppi cosa pensare. “Adele, che sorpresa! Entrate, dai”. Accarezzai la testa di Alfredo, che mi diede il cinque. Li condussi in cucina, l’unico spazio living disponibile di quell’enorme casa, per metà ancora da arredare. “Sono ancora in fase di sistemazione”, le spiegai. Guardandosi un po' intorno, Adele si sedette sul divano che avevo posizionato davanti la tv, suo figlio accanto a lei, obbediente e un po' intimidito. Sembravano due profughi appena sbarcati su un’isola sconosciuta. Io la guardavo, mi chiedevo quale fosse il motivo di quell’improvvisata e la guardavo. No, non era una bambina. Era poco più che una ragazza, semplice, struccata, in jeans e maglia di flanella, i capelli un po' arruffati, gli occhi acquosi. “Ti faccio il caffè”. “No Giuseppe, davvero, vado subito via! Hai detto che non sei solo, non vorrei … scusami”. Ignorandola, presi la caffettiera, mentre chiamavo a gran voce mio figlio: “Ciccio!”. E subito Francesco atterrò in cucina direttamente dal suo pianeta stanzetta, mentre io rassicuravo Adele, guardandola dritto negli occhi: “Non scusarti più, non serve. Mi fa piacere che tu sia qui”.  Adele cambiò espressione, mi parve più distesa. “Ciccio, lei è la dottoressa ...”. “… Io sono Adele. E lui è mio figlio, Alfredo!”. “Amunì, prendetevi qualcosa dalla dispensa e andate a giocare”. Francesco prese un paio di merendine e due bric di succo di frutta, facendo segno ad Alfredo di seguirlo. Si mostrò entusiasta della situazione, sebbene nei rapporti sociali fosse un diesel, proprio come me. Pure Alfredo era entusiasta, altrimenti non avrebbe ignorato le raccomandazioni della madre, di non sporcare, di non litigare, di non eccetera eccetera. Anch’io dovevo fare la mia parte, il copione del padre me lo imponeva: “Ci’, non costringere Alfredo alle tue maratone di Fifa, ok?”. “Sì, papo, tranquillo”. Francesco era un bambino dal carattere particolare, ma sapeva essere più maturo di tanti adulti che conoscevo, quando voleva. I due bambini si allontanarono, biascicando concetti strani su giochi a me sconosciuti, sotto lo sguardo finalmente calmo di Adele. Aspettando il borbottio della moka, mi sedetti accanto a lei. “Che succede, Adi?”. “Adi?”. Rise, abbozzando tra i suoi occhi a mezzaluna un’espressione artatamente stupefatta. Io arrossii di vergogna e non potei far nulla per nasconderlo. Lei aumentò l’intensità della risata. Io mi rialzai e andai a cercare riparo nella caffettiera. “Niente Giuseppe, non succede niente ...”, il suo sorriso si andò spegnendo. Le diedi il caffè, mi ci sedetti nuovamente accanto. Lei ne bevve appena un sorso e mi spiegò. “… Mio marito è andato a Verona, dai suoi, a me non andava e allora …”. I puntini di sospensione erano tutti disegnati sulla sua faccia ed erano milioni. Guardava il suo caffè, passandosi la tazzina tra le mani come fosse un piccolo rullo antistress. Io guardavo lei.  “… Eravamo a casa, Sussulto mi ha chiesto di te ed eccoci qua”. Stavo per chiederle come mai non mi avesse prima avvisato, ma visto che era ancora a disagio, evitai. E poi, che importava? “Avete fatto benissimo!”, le dissi sentenzioso. Lei si rabbuiò appena. “La verità è che mi sentivo sola”. Si alzò, posò la tazzina sul tavolo, si risedette abbandonandosi alla sofficità del sofà, sospirò: “Che weekend di merda!”. Ce l’aveva col marito, ma non l’avrebbe mai ammesso e forse per questo cambiò discorso: “Scusami se non ti ho avvertito, ma ieri sera ho spento il cellulare e ho intenzione di riaccenderlo lunedì … disposizioni dall’alto”, scherzò, ammiccandomi. E io in sollucchero: “Sì, sfotti, sfotti!”. Sorrise di gusto. “E se chiama tuo marito?”. “Trova staccato! Per le emergenze c’è il telefono di casa e la messaggeria”. Mi alzai anch’io, biasimandomi per aver spento subito quel bel sorriso, distratto e svampito, che le sue labbra rosa avevano appena acceso. Giurai che non le avrei più chiesto o detto nulla del marito. Presi dell’acqua, perché non sapevo cos’altro fare. “Sai chi è venuto in ufficio?”, fece lei. “No, Adele, no! Niente lavoro. Cerchiamo di salvarlo, sto weekend di merda”. Lei acconsentì, forse a malincuore perché era proprio venuta a casa mia per sfogarsi, o forse con animo bendisposto, perché era venuta a casa mia per staccare la spina e non pensare a niente. Non lo sapevo, ma sapevo che fosse giusto così. E sì, lo salvammo, quel weekend. Guardammo un film su Netflix (e addio partita dell’Inter), mentre i nostri figli furono inghiottiti, prima, da Fifa e, poi, da Fortnite. Per cena, ordinammo al Mac Donald. Poi giocammo a Nomi cose e città, mentre il cielo, dietro le finestre, ci fotografava in istantanee di maltempo. E parlammo tantissimo, ci raccontammo tantissimo, ridemmo tantissimo. Poi fu l’ora per lei di tornare a casa. Solo che pioveva forte, perciò le chiesi di rimanere per la notte. Ciccio avrebbe dormito con me, lei e Alfredo nel letto a castello di Ciccio, il quale stranamente non protestò, probabilmente la novità lo allettava. Adele non se lo fece dire due volte, bensì dieci volte, mettendo in mezzo mille impedimenti, soprattutto il vestiario per la notte. Ma io non mi arresi: “Ad Alfredo diamo un pigiama di mio figlio, tu puoi mettere un mia felpa, è di un paio di taglie più grande, ti arriva sopra le ginocchia”. Alla fine, cedette e si vedeva lontano un miglio che ne fu felice. A casa sua ci sarebbe tornata l’indomani sera, dopo aver trascorso tutta la domenica insieme: colazione a casa (al mattino lei, dentro quella felpa e col sonno che aleggiava sul suo aspetto, era bellissima); poi tutto il giorno fuori, perché il tempo fu migliore. Lunedì sarebbero scadute le quarantotto ore che avevo concesso a Malvagno e Milazzo, e in quel meraviglioso, indimenticabile weekend ci avevo pensato spesso

 

Continua ...