...Segue

"Ascoltami, Adele!"

Qualche giorno dopo Adele tornò a casa intorno alle cinque del pomeriggio, caso del tutto eccezionale. Era esausta, pallida, adombrata. Doveva essere successo qualcosa. Io ero seduto sul divano con Alfredo, stavamo guardando il terzo episodio della saga di Harry Potter. Si abbassò a dare un bacio sulla guancia del bambino, quindi posò una mano sulla mia spalla sorridendo appena. Poi andò di là, nella restricted area di casa Pirrone, la zona-notte per intenderci. Il bambino stoppò il film e fece per alzarsi, voleva correrle dietro. Io lo fermai, dicendogli che forse era meglio lasciarla riposare. Mi diede retta, ormai mi dava quasi sempre retta. Schiacciò play e tornò a concentrarsi sul maghetto dagli occhiali rotondi, proprio come i suoi. Chiamai Cristin, le dissi di preparare una tazza di the per la signora e portarglielo. Cristin lo fece, stranamente senza brontolii. Il film finì, dovevo andare. Adele non s’era più fatta viva, evidentemente s’era messa a letto e si era appisolata, evidentemente era stata una pessima giornata. Rimasi un altro po’, giusto il tempo di aspettare il responso della filippina, a cui avevo chiesto di andare a vedere se fosse tutto a posto e di chiederle se avesse bisogno di qualcosa. Cristin tornò subito dopo: “Dice che te ne puoi andare, tutto a posto!”.   Me ne andai, col morale alle stalle. Mi dispiacque vederla così, ma soprattutto mi dispiacque non aver potuto parlare con lei, forse sarei stato capace di un buon consiglio, di una battuta spiritosa, di una parola di conforto, o magari del silenzio, lo stesso silenzio ammantante con cui giorni prima lei aveva raccolto il mio sfogo. Insomma, sarei stato capace di esserle in qualche modo d’aiuto, qualunque fosse la natura delle sue afflizioni. Sì, lo ammetto, ero devoto a Adele Dragotto.  

La devozione accrebbe quando, l’indomani, mi mandò un messaggio in cui si scusava per il suo comportamento: «Potevamo approfittarne per parlare, non lo facciamo mai abbastanza». In effetti era vero, non capitava quasi mai che stessimo a parlare, il più delle volte lei rientrava quando io ero già andato via da un pezzo, perciò il nostro rapporto, in quei primi mesi di lavoro in casa Pirrone, si era ridotto a sporadici confronti su Alfredo e poco più. Inoltre, odiava il telefono, non lo aveva mai con sé, tant’è che mi aveva dato il numero della segretaria, casomai avessi dovuto comunicarle qualcosa di urgente. Mi capitava d’intrattenermi più spesso col marito che con lei. Me ne dolevo, la cosa mi aveva anche deluso, immaginavo che lavorare in casa sua significasse intensificare il nostro rapporto, che al contrario s’era mummificato e quasi non avevo più rivisto quella donna affabile che al bar mi aveva dedicato brevissimi ma gustosissimi scambi di parole, gesti ed espressioni. Lei però aveva avuto un pensiero per me. Quella mattina era su tutti i giornali, il suo cellulare sarà stato sul punto di esplodere e lei aveva avuto un pensiero per me. Volevo aiutarla, volevo fare qualcosa, volevo suggerirle di non rilasciare più nessuna dichiarazione, che già aveva sbagliato a farlo. Ma in fin dei conti ero semplicemente il tato di suo figlio, pertanto, ogni mio consiglio avrebbe avuto la stessa inutile valenza dei mille consigli e delle mille verità, che in situazioni del genere i cortigiani dispensano e che nel 99,9% dei casi sono tutte stronzate. La sua situazione era brutta. Un imprenditore edile, tale Vito Morello, s’era tolto la vita dopo il fallimento della sua azienda, la quale era in attesa di un nullaosta della Sovrintendenza ai beni culturali per fare dei lavori che forse l’avrebbero salvata. Il presidente del Parlamento siciliano non aveva perso tempo a cavalcare la sua tigre preferita, i giornalisti non avevano perso tempo a fare semplicemente il loro mestiere. «Lotta alla burocrazia, parla il presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, Rodolfo Mulè: “La burocrazia è il male della Sicilia, la sovrintendenza ai beni culturali il male assoluto. La Dragotto si dimetta”». Questo era il taglio più morbido tra le molte narrazioni da parte della miriade di giornali, giornaletti e siti che ormai tempestavano l’opinione pubblica. Io le scrissi semplicemente: «Pensa a tener duro, passerà. Passa sempre». È vero, la piena passa sempre, in politica vige un brocardo tutto siciliano: calati iuncu ca’ passa la china. Ma se il giunco non s’abbassa, la piena lo travolge ed era quello che stava succedendo a lei. La polemica si era fatta rovente. Mulè era un politico di razza, un comunicatore nato, il leader del maggior partito siciliano, vale a dire l’alleato numero 1 del governatore, che infatti aveva taciuto. Io avevo già capito tutto: Mulè voleva la testa di Adele, per piazzare su quell’ambitissima poltrona un suo uomo, non gl’importava un accidente dell’efficienza della macchina e nemmeno dell’imprenditore suicida. Con questo preciso obiettivo l’aveva provocata e lei, eccellente burocrate ma spratica di queste logiche, c’era cascata come un pero secco, replicando nell’unico modo in cui non avrebbe dovuto, cioè a modo suo: “Il presidente Mulè parla senza sapere, da quando mi sono insediata i miei uffici hanno decuplicato l’efficienza, quel nullaosta non poteva essere concesso. Se vorrà, gli fornirò tutti i dati, ma prima chieda scusa”. E caso politico aperto: dimissioni chieste da tutto il partito di Mulè e pure dalle opposizioni, che ovviamente non persero occasione per buttarla in caciara. Per non parlare di ciò che s’era scatenato nei social (fognatura dove brulicano i più schifosi scarafaggi demagoghi) e di una lettera aperta, consegnata al Giornale di Sicilia, a firma dell’ANCE (l’associazione nazionale costruttori edili), che chiedevano un cambio di rotta per il futuro della Sicilia, accusando la sovrintendente Dragotto di essere «una decontestualizzata, che, anziché fare un passo indietro, si preoccupa di chiedere con protervia le scuse del Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana». Uno Tsunami, altro che piena! Anche a me arrivò un’ondata in piena faccia: la famosa lettera dell’avvocato.

La lettera dell’avvocato dalle nostre parti costituisce una delle più comuni minacce contro un presunto o reale torto, con la speranza che l’autore dello stesso, per paura d’incorrere in un qualche imprecisato guaio giudiziario e fare le leggendarie scale, receda da ogni suo intento e deponga le armi. Appena scoppia un diverbio, una questione, un litigio, scatta il mantra: “Ora gli mando la lettera dell’avvocato!”. È l’alternativa più comune alla minaccia di violenza fisica, minaccia che va dal “Gli alzo le mani” al “Ci posu ru buaffe” al più estremo “Ci rump’ i cuainna” (dipende da quale gradino della scala sociale palermitana si minaccia di far precipitare l’autore del torto di cui sopra). Il più delle volte, comunque, la lettera non viene né richiesta all’avvocato tantomeno scritta, eppure quella volta una lettera mi venne recapitata davvero. Ne lessi superficialmente il contenuto, la questione in oggetto non poteva che essere il testamento e la sua impugnazione da parte degli eredi legittimi. Detestai Angela con tutto il mio cuore e non pensavo che ciò sarebbe mai stato possibile, dopotutto era la madre di mio figlio. Odiai il suo compagno con ogni mia molecola e questa non era invece una novità. Mi aggrappai a quell’appartamento e ad ogni suo centimetro quadrato, perché mi serviva, perché un giorno l’avrei lasciato a Ciccio per intero, perché Aldo aveva voluto così. E per ripicca. E per principio, anche, perché non avevo commesso alcun torto, semmai ero io che avrei dovuto alzare le mani, dare due schiaffi o rompere le corna. Ovviamente, non compii alcuna delle tre azioni suindicate, certamente non nei confronti di Angela (le femmine non si sfiorano neppure con un dito) e nemmeno nei confronti del suo compagno, anche se la voglia di prenderlo a legnate l’avevo, eccome; e comunque se c’è una cosa lontana anni luce da me è la violenza corporale (invece, in quella verbale eccello, quando voglio). Chiamai perciò Maurizio, mio amico da parecchio tempo, eravamo stati colleghi all’università. Ci fummo laureati lo stesso anno, lui aveva proseguito il percorso naturale e adesso era un avvocato civilista, io l’avevo abbandonato per darmi alla politica e adesso ero l’uomo dei compiti per casa. Se ne sarebbe occupato lui, io dovevo occuparmi di Alfredo. E avrei tanto voluto occuparmi di sua madre.  

Qualche giorno dopo in casa Pirrone accadde nuovamente che Adele rientrasse nel primo pomeriggio. Aveva la faccia di cartone, era smunta, tirata. Io e Alfredo stavamo facendo i compiti, lei ci salutò disforicamente, poi andò di là: “Vado a riposarmi un po'”, disse. Alfredo accennò una protesta, che io provvidi a stoppare sul nascere, promettendogli il montaggio dell’ultimo Lego arrivato in casa, una nave mercantile dalle dimensioni gigantografiche. Adele mi dedicò uno sguardo complice e pieno di buoni sentimenti, io le schiacciai l’occhio.   Continuai con i compiti, che finimmo in una buona mezz’ora. Fuori dalla finestra una pioggerellina ingrigiva il cielo e maculava di fragili goccioline le vetrate, distogliendo i miei occhi dal sussidiario di Alfredo. Non ero affatto concentrato, il piccolo leggeva, io lo sentivo ma non ascoltavo una sola sillaba di ciò che fuoriusciva dalla sua bocca. Pensavo a tutto e a niente. Finimmo così di fare i compiti, con la lentezza svogliata d’un triste pomeriggio d’autunno. Speravo solo che il piccolo avesse messo le x giuste nei riquadri giusti, perché mi scocciava pure correggere. Avevo la mente rivolta a Adele. Lei stava di là, a pochi metri da me, afflitta di una afflizione che conoscevo bene; io stavo di qua, a pochi metri da lei, intento a costruire una stupida nave. La cosa buona era che per farlo mi ci sarebbe voluto almeno un paio d’ore, forse l’avrei rivista, forse avremmo potuto parlare, forse avrei potuto aiutarla. Ma no - mi dicevo - fatti i cazzi tuoi, sei solo il tato di suo figlio. Sì, mi sarei fatto gli affaracci miei. Solo che quando Adele sbucò dal corridoio, disadorna e bellissima, non ne fui più tanto sicuro, forse le avrei detto qualcosa. Arrivò in cucina, noi eravamo sul tavolo, coi mattoncini sparpagliati sotto i nostri occhi. Cristin le fece il caffè. “Fanne uno pure per Giuseppe, per favore”. “No, grazie Adele. Dopo le 5 niente caffè, sennò non dormo più”. Abbozzai una smorfia simpatica. “In effetti, motivi d’insonnia non ce ne mancano”, ironizzò lei, avvicinandosi verso di noi con la tazza di caffè tra le mani, nero e amaro come il suo sorriso. Si sedette, facendo finta di concentrarsi sul gioco del figlio. Appena un paio di minuti e squillò il suo cellulare. Tanto per cambiare non lo aveva con sé, quantomeno aveva tolto il silenzioso e non era un caso. “Cristin, per favore”. La colf le portò il cellulare stornellante, lasciato distrattamente sul top della cucina. Lei lesse sul display, sbuffò, lo mise sul tavolo cosparso di mattoncini e buffi omini, facendolo sbattere come se fosse il suo peggior nemico, e lasciò che la musichetta si tacesse da sola. Poi lo riprese, con fare compulsivo. Io capii al volo: stava richiamando quel numero. “Aspetta, non richiamare!”, le suggerii, tenendo la testa bassa e le mani sul mattoncino. Lei riposò il telefono sul tavolo. “Che vuoi dire? Aspetta cosa?”. Mi sembrò stizzita, ma forse era solo la proiezione del suo disagio interiore. Io mi rintanai nelle mie comode insicurezze, quelle che negli ultimi mesi mi avevano reso un uomo mediocre, sì, ma al riparo da sfide perse e grandi obiettivi mai raggiunti. Mi rintanai: “Non fa niente, scusa”. “No no, di’ pure”. Forse mi sfidò, pensai in quel momento, o forse era semplicemente una donna sola con un gran bisogno di parlare con qualcuno, di confrontarsi, di avere un suggerimento, di sfogarsi. Non lo sapevo e, quasi balbettando sottovoce, scelsi ancora la tana: “No, è che quando non sai cosa fare è meglio non fare niente”. “Questo cos’è, un proverbio cinese o cosa?”. Era stizzita. “Scusami, hai ragione, non dovevo intromettermi”. “Ecco, bravo, non intrometterti!”. Si alzò dal tavolo, andò di là, telefono in mano e un bollore sul viso che sembrava stesse per prendere fuoco. Io continuai a giocare con Alfredo, sconquassato dalla mortificazione. Riuscii però a farlo solo per alcuni secondi, dopo di che mi alzai, carezzai la testa del piccolo, dicendogli “Continuiamo domani”; e feci per andarmene, mentre da qualche parte della casa si sentiva la voce di Adele. Presi il giubbotto, Adele continuava ad emettere urla intermittenti, probabilmente all’indirizzo della persona che aveva richiamato. Chiunque questa fosse, Adele stava peggiorando la sua situazione, stava sbagliando tutto. Aprii la porta di casa, titubante. Non la varcai, trassi un respiro intenso, la richiusi. Non potevo andarmene così, cos’ero diventato? Un pavido? Un miserabile? Un ingrato? Mio padre mi aveva insegnato che la vera gratitudine non risiede nel banalissimo grazie che diciamo centinaia di volte al giorno, bensì nelle azioni; e che se una cosa va fatta, si deve fare. Andai di là, invadendo, ardimentoso oltre misura, la restricted area di casa Pirrone, sotto lo sguardo, menefreghista ma sorpreso, di Cristin, la quale ebbe, almeno in quell’occasione, l’intelligenza di non dire una parola. Mi spinsi fino alla stanza da letto, aprii la porta, consapevole che poteva essere il mio ultimo giorno di lavoro in quella casa, l’ultima scena di un film mai iniziato. Nella stanza da letto lei non c’era, eppure la sua voce, agitata, proveniva da lì: “Devi scrivere esattamente quello che ti dico io, non è possibile …”, urlava. Sospirai. Misi la mano sulla maniglia di un’altra porta, che dalla camera da letto portava probabilmente a un bagno o a uno spogliatoio o a che diavolo potevo saperne. Che cazzo sto facendo?, mi domandai, mentre già avevo aperto quella porta, che non era chiusa a chiave (e perché avrebbe dovuto esserlo?). Avevo appena varcato le soglie d’un tempio inviolabile, il luogo più privato dell’inarrivabile dottoressa Dragotto. Lei era lì, per fortuna ancora vestita, io non avevo neppure bussato, dovevo proprio essermi ammattito. Adele faceva avanti e indietro per i tre\quattro metri di stanza antibagno, io mi ci piazzai davanti, imponendomi fermezza. Lei spalancò la bocca, arcuò le sopracciglia, sgranò gli occhi, rimase stupefatta. Io letteralmente le scippai il cellulare dalle mani e chiusi la telefonata. “Oh, ma che diamine fai? Fuori da qui, subito!”, ringhiò. “Ascoltami, Adele! …”. La perentorietà della mia azione era tutta disegnata nei miei occhi vitrei, tutta contenuta nella mia voce stentorea. Lei s’ammutolì, rimase dritta davanti a me, immobile, ancora sorpresa, ancora irosa. Io a quel punto non potevo che andare fino in fondo: “… Chiudi questa cazzo di telefonata, chiuditi la bocca per le prossime due settimane e aspetta che passi la tempesta. Hai già fatto abbastanza minchiate!”. Adele guardava me, ma vedeva uno sconosciuto, anzi un marziano, perché nessuno aveva mai osato parlarle così e da tutti avrebbe potuto aspettarselo fuorché da me. E nessun estraneo avrebbe mai osato invadere quello spazio di assoluta intimità. Trasecolata. Catturata. Imbambolata. Sembrò contare fino a dieci, prima di dirmi, con voce ancora sostenuta seppur meno ruvida: “Ma se nemmeno sai con chi ero al telefono!”. I miei occhi erano ormai incollati ai suoi: “Lo so, invece. Era un giornalista o quell’inetto del tuo addetto stampa”. “Eh …”: emise un sibilo indefinito, che racchiudeva tutto il senso di nulla che avvertiva dentro. Andò nella camera attigua, la stanza da letto. Io la seguii, a quel punto innaturalmente disinvolto nel calcare le orme della sua privacy. Mi chiesi solo cosa avrebbe pensato suo marito, se fosse rincasato in quel momento e ci avesse visto lì, ma fu un pensiero tanto fugace quanto superfluo. Adele si sedette sul bordo del letto matrimoniale, una mano sulla bocca, gli occhi fissi su di me, le tensioni del corpo che cominciavano ad allentarsi. Non sapeva che dire, cosa pensare. Non sapeva chi avesse davanti. “Ma tu…”. Io mi sedetti accanto a lei, come sulla panchina d’un parco fatto di parquet, pareti, specchi, il settimino, il capezzale e tutto il resto. Lasciai che qualche momento di silenzio rigenerasse la sintonia perduta tra di noi, trassi un profondo respiro e le spiegai: “L’attacco di Mulè aveva solo un obiettivo: farti reagire, affinché la polemica montasse, le opposizioni la cavalcassero, le associazioni di categoria la sfruttassero e nascesse il caso. E c’è riuscito, proprio perché tu hai reagito”. “Ecco qua un altro che sa tutto!”, resistette, ma sembrava stesse abbandonando l’idea ch’era assurdo parlarne con me. Scossi la testa, senza arretrare di un millimetro. “Lui ti ha attaccato su un campo dal quale tu usciresti comunque sconfitta. È inutile che replichi, snocciolando dati e numeri. Puoi pure dimostrare che il suicidio di quel tizio non è colpa tua, e di certo non lo è, e che hai dimezzato i tempi dei tuoi uffici, per l’opinione pubblica rimarranno sempre farraginosi, lenti, odiosi … Per la gente è colpa tua, Adele”. Non se n’era ancora convinta, perciò insistetti, resoluto: “Fai così: scendi in strada, adesso, ferma dieci persone a caso e chiedi loro cosa pensano della Sovrintendenza ai beni culturali. Cinque ti risponderanno che non sanno nemmeno cosa sia e te lo diranno comunque dietro una smorfia che non ti piacerà; degli altri cinque, tre ti diranno “Guai ad averci a che fare, per un’autorizzazione passano anni” e gli altri due t’insulteranno se intuiranno che tu ne sei il capo … l’opinione pubblica, Adele, è quella che conta davvero. Mulè questo lo sa e ti attacca su questo piano, perché non puoi difenderti. La tua replica non l’ha letta nessuno, il titolone del presidente dell’assemblea regionale, che tuona contro un super burocrate, l’hanno letto tutti”. “Ma io non faccio politica”. “Ne sei proprio convinta?”. No, non ne era convinta: me lo disse mordicchiandosi il labro inferiore. Ma non me lo concesse: “Io non faccio politica”. “C’è chi la fa per mestiere e in questo momento tu ne sei l’attrezzo”. “Ma che …” “… Non ci sono ma, Adele. Qualunque cosa in questo momento tu dica o faccia, il messaggio che passa è sempre lo stesso: tu sei il burocrate strapagato, dall’altra parte stanno i cittadini arrabbiati e, in mezzo, l’ennesimo imprenditore che fallisce e si toglie la vita”. “Non potevamo dargli nessuna autorizzazione, non c’erano i requisiti”. Sorrisi, sardonico. “Vedi? Continui a commettere lo stesso errore”. “E cioè?”. S’accigliò, interessata. “Entri nel merito della questione e tralasci il messaggio che passa. La politica è cavalcare quel messaggio”. “Ma io non faccio politica”, insistette ancora. “Tu dipendi dalla politica!”. Sbuffò, rassegnata all’insindacabilità di quella mia ultima affermazione. “Politica per politica - riprese - il governatore, però, dovrà pur dirla qualcosa, no?”. Adesso parlava con me, riconoscendomi pieni titoli per quella discussione, era come se avesse dimenticato che stava parlando col tato di Sussulto, ex aspirante uomo delle pulizie; e forse per un momento fu così. “Il governatore non dirà niente. Mulè è suo alleato ed è forte dell’opinione pubblica e del rimpallo dell’opposizione. E poi, quale politico scelerato s’immischierebbe in una vicenda così delicata? C’è un suicidio di mezzo … No, non lo farebbe mai. Finché potrà, starà zitto. Ti ricordo che tra un anno e mezzo si vota, non può rischiare di rompere l’alleanza. E Mulè questo lo sa, è un animale politico”. “E’ un animale e basta, altro che animale politico!”. Su questo eravamo d’accordo, ma preferii non dirlo. “Ed è un visionario! -proseguì lei - Vorrebbe un sistema di autorizzazione alla maniera anglosassone, che qui è impossibile da attuare. Qualcuno deve pur …”. La interruppi nuovamente: “… Vuole la tua testa, Adele. Solo quella”. Lei mi sguardò, tra mille interrogativi che ero certo potere interpretare tutti, ad uno ad uno. E così feci, senza più i freni inibitori che in quegli ultimi mesi della mia vita avevo io stesso frapposto alla mia personalità, un tempo strabordante. “Non ce l’ha con te. Semplicemente non sei sua, non può gestirti. O più semplicemente ha bisogno di piazzare un suo uomo lì, forse per una vecchia promessa elettorale, forse per un preciso disegno politico, forse perché ha preso degli impegni su qualcosa che riguarda il tuo ente e che sa di non potere rispettare finché ci sarai tu alla guida … chi lo sa? La cosa certa è che vuole la tua testa e se continuerai a gestire la cosa così, sarai tu stessa a consegnargliela, su di un piatto d’argento”. “E allora che devo fare?”, mi chiese, dandomi quasi la sensazione che si fosse totalmente abbandonata a me. Eravamo seduti uno di fianco all’altro, la mia gamba toccava la sua, il mio braccio quasi. Eravamo di nuovo vicinissimi. Sospirai, fissando il pavimento, concentratissimo. “Te l’ho già detto, devi stare in silenzio. Non devi più dichiarare nulla, tanto la tua replica l’hai già fatta, no? Ebbene, io non avrei neanche fatto quella, o non l’avrei fatta in quei toni, ma una volta che c’è, basta e avanza per il momento”. “Per il momento?”. “Dobbiamo augurarci che la polemica si plachi e che tutto torni gradualmente alla normalità. Se non succederà, studieremo qualcosa” Adesso sorrise stancamente, inarcando un sopracciglio, ed era un’espressione che mi era sempre piaciuta: “Studieremo?”. Ammiccò, ondulando dolcemente la testa, ancora dietro quell’espressione: “Ma tu chi sei?”. Io mi alzai dal letto, andando verso la porta, d’improvviso a disagio. L’aprii, mi voltai verso di lei, ma non riuscivo più a sostenerne lo sguardo: “Sono solo un fallito, che fa fare i compiti a tuo figlio. E sono l’unica persona di cui puoi fidarti”. Me ne andai, lasciandola lì, senza possibilità di dirmi altro. La risposta a quella domanda l’avrebbe facilmente trovata altrove.

Continua ...