Caro Gesù, mi chiamo Lorenzo, ho nove anni e gioco a pallone.
Faccio l’attaccante, anche se il mister dice che non ci sono ruoli alla nostra età. Io però ai miei cugini dico lo stesso che sono attaccante.
Ti volevo chiedere se per  favore puoi fare finire questa cosa brutta del virus, perché mi mancano tanto la mia squadra, le partite, il nonno che viene a guardarmi, il campetto.
Il mio campetto tu lo conosci bene, non è di quelli con l’erba finta, tipo dove gioca il mio compagno di banco: mi racconta sempre che hanno due allenatori, un sacco di palloni e che vanno a giocare tutti col completino, la tuta, la borsa. Come i calciatori veri. Il mio campetto è quello vicino a casa tua: a terra c’è il cemento, le linee sono segnate con la vernice e fino a poco tempo fa le porte erano senza reti.
A vederlo, non è bello come il campo dove Andrea fa scuola calcio, però quando ci entriamo dentro e padre Piero ci dà il pallone per cominciare l’allenamento siamo così felici che pensiamo che non ci possono essere bambini più felici di noi.
Quest’anno poi ci siamo pure iscritti al campionato e finalmente abbiamo trovato chi ci ha regalato le reti per le porte e le magliette anche: è un tale che ha un negozio di vestiti, il suo nome è scritto sulle nostre fantastiche magliette giallo-blu, ma io non lo conosco. Che bella che è la mia maglietta! E’ senza numero e nome, ma è molto bella.
E che emozione il campionato, Gesù
!
Fino all’interruzione avevamo vinto quasi tutte le partite. Quando andavamo a giocare dagli altri ci chiamavano quelli dell’oratorio, lo facevano per prenderci un po’ in giro, ma noi non ci badavamo granché... certo il mister è un po’ buffo, nel suo abito nero non sembra proprio Guardiola, ma a noi va bene così, è un bravo allenatore e gli vogliamo tutti bene... e comunque, appena l’arbitro fischiava noi pensavamo solo a giocare e a fare tanti gol, cosa che onestamente su quel manto morbido e verde ci veniva anche più facile. Però preferivamo sempre giocare da noi, al campo della chiesa, perché veniva tutto il quartiere a guardarci e ci sentivamo importanti.
Sai Gesù, eravamo primi in classifica e sicuramente vinceremo il campionato appena riprenderemo. Ma questo tu fai finta che io non te l’ho detto, quando parlerai col mister (lo so che con  lui ci parli tanto).
Il mister di classifica non vuol proprio sentir parlare. Ci dice sempre che questo è un campionato speciale, dove non c’è la classifica dei punti, che a vincerlo sarà la squadra che si sarà comportata meglio. Io e gli altri sappiamo che non è così, ma facciamo finta di niente, perché lui ci tiene troppo a questa storia della classifica del comportamento. A noi basta che lui è contento di noi e che ci fa fare il campionato. Ci ha persino svelato dei trucchi per arrivare in cima alla sua classifica.
Padre Piero li chiama regole del buon campione, ci dice sempre che l’importante è essere campioni nella vita e che tutti possiamo diventarlo, senza bisogno di particolare talento; non capiamo esattamente cosa vuole dire, ma lo stiamo ad ascoltare lo stesso. Noi comunque le chiamiamo diversamente, per noi sono le regole del quando. Quanto mi manca, Padre Piero! Non faceva che ripeterle e ripeterle, le regole del quando, fino a stufarci e invece adesso, pensa un po’, non vedo l’ora di riascoltarle, di riascoltare la sua voce roca e gentile... 

“Quando facciamo un fallo, subito la mano all’avversario”. 
“Quando il signor arbitro fischia, testa bassa e mai protestare, se il fischio ci sembra sbagliato, o applaudire, se il fischio ci è favorevole”. 
“Quando finisce la partita, tutti dal mister dell’altra squadra a dargli il 5, poi dagli altri bambini e poi dal signor arbitro” ... vuole che lo chiamiamo in questo modo. 
“Quando un vostro compagno sbaglia incoraggiatelo, se a sbagliare è l’avversario non irridetelo”.
“Quando venite sostituiti, niente lamentele e musi lunghi: questo è fare squadra”. 
Quando non giocate dall’inizio, niente lamentele e musi lunghi: tutti giocherete comunque gli stessi minuti” .
Quando subiamo gol ci abbracciamo lo stesso”... Sì, lo so, questa è proprio una strana regola, ma ci tiene e noi dobbiamo fare quello che lui dice. 

Ma non è tutto, perché anche i genitori che ci accompagnano hanno una regola da seguire. Non è del quando, lui la chiama regola del silenzio e noi pure. Con mio nonno non ha problemi a farla rispettare, perché lui è uno che già parla poco di suo, ma vedo che con gli altri fa un po’ di fatica.
Mio papà invece era bravissimo. Stava lì, dietro la porta dell’altra squadra, in silenzio, e alla fine della partita, qualunque era il risultato, mi faceva solo una domanda, una sola, sempre la stessa: “Ti sei divertito?”.  Io rispondevo di sì, in realtà con poco entusiasmo se avevamo perso. Lui mi scombinava i capelli sudaticci, mi sorrideva e mi diceva: “Adesso i compiti”.
Sempre così, tutte le volte così.
Prima di venire da te (era Natale, ti ricordi?) mi ha detto una cosa che io mi ricorderò per sempre: “Anche se non mi vedrai più dietro la porta, sappi che io sarò là a fare il tifo per te”.  
Salutamelo tanto e digli che lo penso sempre.