Di certo vi sarà capitato di domandarvi, almeno una volta nella vita, quanto tempo impiega la vostra mente per creare una nuova abitudine. 

In fin dei conti, riflettendoci bene anche il calcio è una specie di "routine" per ogni appassionato, poiché come in una sorta di automatismo mentale, il nostro cervello associa il tempo ad una serie di partite, oppure ad una competizione particolare, attribuendo un significato alle stagioni, come l’estate, che storicamente significa "aria di calciomercato".

Ma come si formano le abitudini? Quando si può affermare che siano definitivamente diventate nostre?

Secondo un celebre medico, (chirurgo plastico per l’esattezza), l’essere umano impiega circa 21 giorni per trasformare un cambiamento in abitudine: il dottor Maxwell Maltz, intorno alla metà dello scorso secolo, iniziò a studiare tale fenomeno in seguito a strani comportamenti nei suoi pazienti, giungendo poi a tale conclusione.

Egli osservò la sindrome del cosiddetto “arto fantasma”, tipica in quelle persone a cui nonostante fosse stato amputato un braccio o una gamba, continuavano ugualmente a sentirne la presenza.

E questo accadeva, secondo Maltz, fino a quando, trascorsi i famosi 21 giorni, il paziente non si abituasse del tutto alla nuova situazione reale in cui si trovava, smettendo quindi di comportarsi come se nulla gli fosse accaduto.

In qualche occasione sarà capitato anche a qualcuno di noi di accendere la TV con la concreta convinzione di guardare una partita, oppure un film, aspettando però invano un fischio d’inizio che poi realmente non ci sarebbe stato.

Ma per rendersi conto maggiormente di quanto questo fenomeno sia diffuso tra gli esseri umani, basti pensare agli eventi sportivi che abitualmente osserviamo davanti alla televisione: un dribbling, una rovesciata, tutto ciò che richiama in modo più marcato l’attenzione di fronte allo schermo, viene quasi sempre catturato e collegato a qualcuno o qualcosa, che abbiamo già visto in passato.

Un esempio della straordinaria potenza dell’abitudine nei confronti della mente umana è il celebre colpo di tacco di Roberto Mancini in Lazio - Parma della stagione 1998/99: dieci anni più tardi, Zlatan Ibrahimovic ne fece uno altrettanto spettacolare al Bologna, e tutti collegarono quel gesto tecnico dello svedese, alla rete realizzata dall’attuale CT della nazionale.

Così come nell’occasione dello strepitoso coast to coast messo in atto da Lionel Messi, quando all’età di soli 19 anni, seminò il panico tra le fila della formazione del Getafe, ricordando nella mente di molti spettatori, quanto realizzato da Diego Armando Maradona al Mondiale del 1986 contro l’Inghilterra.

Questo significa che nel calcio soprattutto, l’abitudine di associare eventi diversi tra loro, ricercandone magari un’analogia, evidenzia in modo ancora più importante come il nostro cervello si abitui, nel giro di poco tempo, a descrivere quella tipologia di giocata come fosse appartenente ad un calciatore in particolare.

Oltre a quelli già citati, gli esempi esistenti sembrano raggiungere un’innumerevole quantità: dalla tipica posizione con cui Cristiano Ronaldo si appresta a calciare una punizione dalla distanza, al movimento serpentino tramite cui Arjen Robben lasciava sul posto gli avversari per piazzare il suo sinistro nell’angolino alla destra del portiere.

Significa forse questo scrivere la storia, e farne dunque parte?

Oppure si tratta soltanto di attimi fugaci di gloria, che spariscono velocemente, di fronte all’imponenza dei successi rappresentati dai trofei, le medaglie e chi più ne ha, più ne metta?

Per trovare una risposta basterebbe chiedersi quello che resta di un uomo, di un protagonista, quando questi smette di esibirsi con virtù nel teatro della vita.

Di certo non saranno il suo denaro accumulato, e neppure il potere ad attraversare le generazioni, viaggiando di bocca in bocca come le antiche favole prima dell’avvento della scrittura: sarà invece lo stupore a sopravvivere, quella capacità di rimanere folgorati di fronte a qualcosa di cui, in verità non ci si abituerà mai.

Perché in fondo anche se il nostro cervello associa immagini simili a uomini diversi, nella memoria di un bambino non c’è traccia di quello che noi ricordiamo gloriosamente come il passato: per lui sarà del tutto nuovo scoprire la magia e la spettacolarità del calcio, e forse anche noi dovremmo “abituarci” a vivere ogni esperienza come fosse la prima, nonché unica nel suo genere.

Soltanto così riusciremo ad apprezzare nel profondo il vero valore del sacrificio, che sboccia sul terreno di gioco come un fiore dalla colorazione variopinta, apparentemente uguale a tutti gli altri intorno, ma così profondamente insostituibile nella sua temporanea bellezza.

A questo punto confrontarsi numericamente con il passato lascia ormai il tempo che trova, e potrebbe significare soltanto diventare miopi di fronte al presente: le situazioni non sono mai le stesse, ed anche se tutto sembra ripetersi, in fin dei conti nulla è mai davvero così scontato.