C’è una cosa che ripeto da sempre riferita allo sport che pratico sin da bambino, il calcio.

Si sbaglia chi pensa che sia solo un gioco. Questa cosa, vorrei ribadirla più forte che mai dopo le due settimane di giochi olimpici appena terminate, si sbaglia chi pensa che sia solo un’olimpiade.

Non è un qualcosa che ho maturato osservando le gare da spettatore italiano interessato ai colori azzurri e sull’onda emotiva dei bellissimi risultati ottenuti o del record assoluto di medaglie raccolte, ben quaranta!

In questi giorni, guardando gare di alcuni sport dei quali non capisco assolutamente nulla, mi sono appassionato alle storie di uomini e donne che coltivano le loro passioni “in silenzio” fuori dal grande circo mediatico di TV e giornali, spesso in totale solitudine o con il solo seguito dell’esiguo staff a disposizione e con il supporto di parenti ed amici. E basta.

Soprattutto sulla TV pubblica certi sport non passano quasi mai, o forse sì, ma solo gli appassionati quelli veri vanno a caccia sui canali, come ad esempio Eurosport, di gare che la massa ritiene minori.

Ogni singolo sport ha, o dovrebbe avere, pari dignità rispetto agli altri. Sappiamo tutti che non sempre è così e allora è inevitabile che in Italia la stragrande maggioranza di chi segue uno sport guardi il calcio, negli USA si dividano tra basket, baseball e football (quello fatto in casa, con i caschi), in Inghilterra vadano per la maggiore calcio e rugby così come in Francia dove però ottengono ottimi risultati anche con il basket e così via, superfluo fare elenchi che posso assolutamente sbagliare.

Ognuna di queste aree geografiche segue principalmente la propria tradizione sportiva, il resto segue quasi ovunque a distanza siderale facendo molta fatica, alcune federazioni in diversi paesi arrancano proprio, è una questione di cultura ma anche di programmazione e di risorse economiche.

Ieri, per esempio, ho visto casualmente la premiazione del “giavellotto” maschile, sono rimasto colpito nel sentire il commentatore ricordare che un paese come l’India, con un miliardo e trecento milioni di abitanti, avesse ottenuto la sua prima medaglia d’oro solo nella penultima giornata di gare.

Un miliardo e trecentomila persone, un solo atleta capace di vincere una medaglia d’oro, sette medaglie complessive.

C’è da analizzare un dato come questo oppure basta fare uno sciocco paragone con la Cina che, a fronte di poche centinaia di migliaia di abitanti in più, ha raccolto ben trentotto medaglie d’oro, ottantotto in totale. Una fabbrica di atleti, in alcune discipline vere e proprie macchine, una fabbrica di…qualunque cosa, ma questo però non vuole essere un racconto politico.

Questo è un racconto sulle emozioni e sui valori dello sport, di qualunque sport. E allora mi perdoneranno tutti i meravigliosi atleti che si sono distinti, così come quelli che non hanno colto la loro occasione ma che hanno messo l’anima nella competizione di una vita se mi soffermerò su una giornata in particolare, su pochi minuti di questa meravigliosa olimpiade.

È un venerdì pomeriggio lento e caldo di inizio agosto nel belpaese, è il penultimo giorno dei giochi di Tokyo quelli iniziati con un anno di ritardo, un anno che è stato intenso per tutti.

Ho seguito le gare che potevo, non tutte anzi forse solo una minima parte sia per gli orari, a volte impossibili, sia perché la TV pubblica non ha ritenuto opportuno acquistare i diritti streaming e, con un solo canale a disposizione, ha dovuto optare per incredibili salti tra un’arena ed una pista perdendo qualche momento essenziale di alcune gare. In alternativa sarebbe stato necessario sapere come abbonarsi ad un altro servizio “plus” opportunità che ho scoperto solo qualche giorno fa ma che ovviamente mai avrebbe potuto raggiungere la massa. Peraltro, non mi sono mai alzato all’alba per seguire una competizione e per altri motivi, tra i quali gli orari lavorativi in cui si sono svolte molte gare o altri impegni di diversa natura, ne ho perse alcune che invece avrei voluto seguire, incluso qualche momento meraviglioso come i dieci minuti nei quali Gimbo Tamberi prima e Marcell Jacobs poi hanno ribaltato le gerarchie dell’atletica leggera.

Venerdì, come la domenica prima, ci sono stati dieci o quindici minuti di pura magia e, per mia fortuna, questa volta non li ho persi.

La staffetta 4 x 100 ha compiuto un’impresa incredibile, quattro ragazzi italiani completamente diversi tra di loro, quattro storie alcune delle quali ormai arcinote.

Marcell oro olimpico in quella che molti ritengono essere la gara regina delle Olimpiadi, i 100 metri. Su di lui in una settimana ormai si è detto tutto, il padre militare americano, la mamma che gestisce l’hotel sul lago di Garda dove lui è cresciuto, le bambine e la compagna che sposerà, gli americani e gli inglesi che pensano che un italiano possa vincere solo barando.

Filippo, altro nome piuttosto noto anche a chi non segue l’atletica, testimonial di una famosa azienda di telecomunicazioni che ha associato l’idea della sua velocità alla propria rete. Un nome che in Italia tanti già conoscevano, anche più di Marcell, almeno fino alla settimana scorsa.

E poi altri due ragazzi, Fausto o Eseosa come preferite, nato nel bel mezzo della pianura padana a Casalmaggiore vicino Cremona da una famiglia di origini nigeriane, lo senti parlare a raffica nel dopo gara, l’entusiasmo travolgente di un ragazzo italiano che ha appena vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi. E Lorenzo, sardo di Oristano alla sua prima olimpiade, corre solo dal 2016 prima giocava a calcio come tanti, riprendendo il ragionamento iniziale potremmo dire come quasi tutti. Poi è entrato in punta di piedi in una squadra che gli ha affidato l’onore e l’onere della prima frazione, come ha detto lui, si sono fidati di me.

Nomi che da oggi sono nella storia delle Olimpiadi, dell’atletica e dello sport italiano, per sempre.

Per alcuni di loro le olimpiadi saranno una svolta.

Chi non era già molto noto, come invece è ad esempio Federica Pellegrini la quale vanta sia grandi contratti di sponsorizzazione che molteplici apparizioni televisive, potrebbe veder cambiare la propria vita. Vale sicuramente per Marcell Jacobs che, a parte i centottantamila euro previsti come premio per la medaglia d’oro, vedrà certamente crescere la propria popolarità e conseguentemente i contratti di sponsorizzazione, vera gallina dalle uova d’oro per molti sportivi delle discipline meno note, di sicuro una prospettiva migliore dello stipendio previsto dalle Fiamme Oro.

Ci sono però due volti, due storie, che hanno colpito il sottoscritto in questo venerdì.

Del primo ho già accennato, ha corso la terza frazione della staffetta che ha vinto l’oro, non lo conoscevo, non lo avevo mai visto.

L’ho visto correre come un fulmine dopo aver raccolto il testimone dall’ormai già celebre Marcell Jacobs, approcciare una curva della pista rossa ad una velocità impensabile sottolineato dal “sta succedendo qualcosa” del buon Bragagna di mamma RAI e infine cedere il testimone a Filippo Tortu per l’ultima frazione. Prima di volgere lo sguardo sul miracolo di quest’ultimo sono rimasto incantato a guardare Faustino urlare tutto l’incoraggiamento possibile a Filippo, vaiii, vaiii…vola!!!

E Filippo ha messo le ali ai piedi ed io, come tantissimi altri italiani, mi sono ritrovato secondo dopo secondo a pochi centimetri dalla TV ad urlare ed esultare, stanco come se gli ultimi cento metri li avessi corsi davvero, felice ed incredulo con la voce di Franco Bragagna nelle orecchie a ricordarci che trentasette e mezzo non è solo febbre, non sempre è solo quel valore che da troppo tempo preclude a brutte cose, brutti pensieri.

Ma dicevamo di Faustino, oggi lo conoscono in tanti e di lui sappiamo che la mamma badante non è potuta andare in diretta al “circolo degli anelli” sul secondo canale perché occupata con il suo lavoro, che quando era piccolino non poteva avere le scarpe che portavano i compagni di scuola perché mamma non poteva permettersele, che per tanti anni ha corso e saltato senza che i suoi risultati, i suoi record, potessero essere registrati, perché Eseosa, come dobbiamo chiamarti…chiamatemi Fausto, mamma mi ha sempre chiamato così, non è diventato italiano fino al 2012 quando è diventato maggiorenne, benché fosse nato nella bassa padana e come altri giovani italiani si cambiasse i brutti voti sul diario, l’unico “errore” che un di bravo figlio è rimasto nei ricordi di una mamma buona ed onesta e che ora spera di vederlo sistemato per poter tornare nel suo paese di origine a riposarsi.

Ha fatto un gran lavoro Veronica, davvero. Fausto è un grande atleta ed una bella persona, ho sentito una sua intervista piena di lucidità, umiltà ed intelligenza, avete ha tutta la mia stima.

E infine Luigi, il bambino ciccione.

Qualche secondo prima della staffetta, in un incredibile parallelismo con i dieci minuti di Gimbo e Marcell, l’Italia ha conosciuto questo meraviglioso ragazzo siciliano, ha visto il suo orgoglio ha annusato la sua passione.

È apparso con tutta la sua grinta in kimono, e queste buffe moffole colorate a coprire mani e piedi, in un drammatico confronto con un suo rivale di sempre, un azero barbuto che, colpito al volto sul finire del confronto, ha reagito con la forza della disperazione per recuperare una vittoria che stava sfuggendo. Luigi ha resistito e quando l’arbitro lo ha dichiarato campione olimpico di questa sconosciuta specialità del Karate, il Kumite, ha dato sfogo ad una gioia trattenuta per tanti anni, allenandosi nella palestra di Avola con suo padre lontano dalle luci dei riflettori e dalla notorietà di altri sport ed altri interpreti. Luigi è letteralmente impazzito e ha conquistato tutti con la sua gioia e la sua spontaneità, iniziando dal “mamma ce l’ho fatta” urlato alla telecamera, balzando poi sul palco dove sedeva il suo staff per terminare con una delle più belle interpretazioni di sempre del “canto degli italiani”. Luigi, coperto dalla necessaria mascherina scivolata sempre più in basso, ha cantato con emozione, con gli occhi chiusi e le braccia aperte, se non fosse stato lì con la tuta del team azzurro indosso e senza audio, vedendolo avrei potuto pensare a Domenico Modugno che canta Volare, e invece lui cantava l’inno, con gioia e con passione come sicuramente ha fatto tante volte seduto davanti alla TV ad Avola guardando nello schermo la nazionale di calcio.

Grazie Luigi, questo è il livello di amore per lo sport e di passione che tutti dovrebbero prendere ad esempio, e grazie anche per esserti raccontato ricordando che solo tuo papà credeva in te quando eri “un bambino ciccione”, parole tue, dedicando al tuo orgoglioso genitore questo agognato successo.

Ho preso come esempio questi due ragazzi, orgoglio dello sport italiano, Fausto e Luigi, storie diverse tra di loro ma bellissime da conoscere e soprattutto da non dimenticare ma non vorrei assolutamente tralasciare tutti i meravigliosi protagonisti di questi giorni, Stano e Palmisano o Dell’Aquila la primissima medaglia d’oro. Però, e riprendo nuovamente le parole di Luigi Busà che si è ripromesso di ringraziare tutti di persona perché rischiava di dimenticare qualcuno, nemmeno io vorrei dimenticare qualcuno e ho già fatto torto a tantissimi atleti, soprattutto a quelli che tornano senza medaglia ma che hanno sacrificato, come chi ha vinto, anni alla propria passione.

Grazie a tutti voi, per la passione, per le emozioni, per le vostre storie.

Nota a margine.

Recentemente ho letto su questo blog parecchie cose che mi hanno lasciato perplesso, sia calcistiche che extra, ma ognuno scrive e pubblica ciò che gli pare, che siano articoli, storie o solo commenti, liberi tutti, bene così. Essendo questo un blog che tratta principalmente di calcio ed essendo io un praticante ed un appassionato di questo sport mi sono trovato a riflettere su alcune cose.

Il calcio di un certo livello, quello che per intenderci giocheranno il PSG, il City, il Real ed il Chelsea dimenticando magari un paio di club, quello non è sport, non lo è più. Quello è uno show per Sky, DAZN ed Amazon con relativo calciomercato di commentatori ed opinionisti.

Ho ancora negli occhi il successo della nostra nazionale agli europei, le bellissime sensazioni che i ragazzi di Mancini hanno regalato agli appassionati italiani, a quasi tutti. Ecco, quello è il calcio che mi piace perché rappresentare il tuo paese, come succede alle olimpiadi, senza il retrogusto dei contratti e degli ingaggi, il campanilismo spesso esasperato e le false rivalità tra colossi economici più che sportivi, quello davvero non ha prezzo, non ha limiti.  

Ho visto Sara Simeoni raccontare di aver ricevuto come premio per l’oro di Mosca una bella stretta di mano, ho visto un calciatore famoso in tutto il mondo piangere comunicando ai propri tifosi di doverli abbandonare dopo ventun anni perché purtroppo non gli sarebbe stato permesso di avere un contratto decine di milioni di euro l’anno.

Non sono molto interessato a capire le regole del mercato, i diritti TV e l’economia che è sempre più dentro il calcio e lo sport in generale (NBA, Eurolega, etc.) non venite a spiegarmeli, davvero non mi interessano. Seguo l’utopia dei valori fondanti dello sport e spero di vedere a lungo belle storie come quella del gruppo azzurro ad Euro 2020 o i quattro velocisti a Tokyo 2020 che hanno corso come fossero una persona sola, il resto lo lascio a quelli che ancora credono alle lacrime di Messi e al dispiacere di Lukaku che voleva restare nerazzurro.