Monica
C’è questo vento che solleva la sabbia e ci costringe a restare sempre con naso e bocca coperti, Farah è la capitale di una piccola provincia dell’Afghanistan al confine con l’Iran, cinquantaquattromila anime, la piccola cittadella costruita da Alessandro il Grande.
È la mia seconda missione qui, dentro questo groviglio di filo spinato che delimita quella che gli americani chiamano FOB, Forward Operating Base. Ormai è piantata qui da quasi dieci anni, sono arrivati e se ne sono andati in tanti, gli US Navy, l’Air Force, l’US Army e anche i Marines, molti di loro hanno perso di vista l’obiettivo e creato più danno che aiuto. Qui è diverso dalla mia prima destinazione, Shindand, lì mi aveva colpito il cielo. Mi aspettavo solo sabbia e deserto ma non è stato così, era bellissimo e saranno tutti questi bambini che quando usciamo la mattina ti aspettano e ti riempiono il cuore di gioia che non vedevo l’ora di tornare, questa terra mi ha stregato. La sera l’assenza di luci mi ha riempito gli occhi di stelle, mi è arrivata la luna così vicina che la sentivo sulla faccia.
Oggi è il 24 marzo del 2012, adesso ci siamo noi qui a Farah, gli afgani sanno che noi italiani siamo gente simpatica e cordiale, difficile che qualcuno di noi esca e spari sulla folla a caso come ha fatto quell’americano dieci giorni fa a Kandahar… ne ha uccisi diciassette, tutti civili. Qualcuno qui ci guarda male, dice che siamo qui per aiutare ma siamo armati come quelli di prima, noi ci proviamo, speriamo di riuscire ad aiutarli ma sarà difficile, stamattina hanno sparato sulla FOB con un mortaio, i colpi sono finiti tutti fuori dal perimetro. Adesso però stanno sparando di nuovo… dannazione, questo è arrivato troppo vicino, anche questo… e… Bum!
Buio.
Sono le sei di sera, a Gela saranno le due e mezza del pomeriggio, mi fa male la testa, mi fischiano ancora le orecchie, corrono tutti. Adesso mi hanno messo sull’elicottero con Nicola e Salvatore, ci portano all’ospedale da campo di Delaram, penso che sia arrivata davvero troppo vicina stavolta, mi fa male la gamba, sento bruciare la pancia e anche questa mano non è messa benissimo… a quest’ora mamma e papà avranno già sentito le notizie, speriamo che qualcuno li abbia chiamati, speriamo gli dicano che sto bene, anche se non sto veramente bene.
Speranza.
Woman, age thirty-one
, sono le ultime cose che ho sentito.
Sono passati dei giorni, adesso sono in Germania in un altro ospedale militare, mi hanno chiesto cosa ricordassi, adesso so che Michele è morto, me lo hanno detto poco fa. Mi hanno anche detto che non ho più una gamba, a breve mi trasferiranno all’ospedale militare del Celio a Roma, credo che dovrò restarci a lungo. Però ci sono ancora.
Oggi è il 5 settembre, sono passati poco più di cinque mesi, in TV stanno trasmettendo i XIV Giochi paralimpici estivi di Londra, c’è questa ragazza italiana in corsia quattro nella finale T42 dei 100 metri, si chiama Martina, è la campionessa europea in carica e ha delle possibilità di vincere, pare.
Quindici secondi e ottantasette centesimi, record mondiale, medaglia d’oro, che bomba ragazza!!
Hey… “Avete visto questa ragazza? Un giorno la batterò”.
Il 10 aprile del 2013 mi hanno insignito della Croce d’Onore alle vittime di atti di terrorismo o di atti ostili impegnate in operazioni militari e civili all’estero, e il 4 maggio del 2015, con cerimonia solenne, della Medaglia al valore dell’esercito per “il comportamento tenuto durante un attacco subito da forze avverse”. Sono onorata ma adesso inizia un’altra vita, non ho finito di combattere.
Scusatemi, non mi sono presentata: mi chiamo Monica Contrafatto, ho quarant’anni.


Martina
Com’ero “prima”? La “Marti” era una ragazza come tante, esuberante e curiosa.
Una grandissima passione per lo sport, corsa a ostacoli, salto in lungo, staffetta e velocità, pallavolo, pattinaggio a rotelle. Se vi capita di vedere il docufilm “L’Aria sul Viso” c’è la mia mamma che dice che ho persino vinto delle gare di nuoto della scuola, eppure io non avevo mai nuotato…
La pallavolo però era la mia passione, quell’anno avrei giocato in un nuovo ruolo, da libero.
Quella sera poi siamo andati ad una festa, mezzanotte era passata da un po’ quindi era già il 2 di novembre del 2007, mio fratello guidava il motorino.
Ricordo questi fari che si sono accesi, questi abbaglianti che si sono accesi poco prima dell’impatto, e che mi hanno anche perseguitato per un po’ di anni […]. E poi ricordo, sì, di aver chiamato i miei genitori, mio papà, e di aver subito sentito un gran dolore alla gamba, mio fratello mi rassicurava dicendomi: «È una frattura scomposta», che in effetti poi non era, era qualcosa di più grave.”
Buio.
Il coma indotto, due settimane.
Speranza.
E invece al risveglio mi hanno detto che non avevo più la gamba, metà della mia gamba sinistra amputata sopra il ginocchio, niente più articolazione, niente più pallavolo, niente più nuovo ruolo, ma nemmeno più le feste con i tacchi alti. Non ero totalmente lucida quando me lo hanno detto, non è stato semplice assorbire la notizia e fino al 2010 è stata davvero dura, è stato difficile sia superare gli ostacoli fisici, tipo fare le scale con le stampelle, che tutto il resto. Accettare, per esempio, che non avrei mai più giocato a pallavolo, accettare il corpo di una ragazza di diciotto anni senza una gamba, rivedere una nuova me nella mia immaginazione, imparare ad affrontare gli sguardi delle persone, ci sono voluti tre anni.
Ma non sono diventata subito un’atleta, non fino ai giochi di Londra, quelli dove mi ha visto Monica. Il salto in lungo non è andato benissimo, ho fatto salti inferiori alle mie capacità e poi, quella gara, quella che stava guardando lei. Sì, lei non lo sa e pensa che avermi visto correre quel giorno sia stato l’inizio della sua nuova vita, eppure, quel giorno era anche l’inizio della mia, lo ricordo in maniera ovviamente positiva come il “punto di non ritorno”.
La medaglia d’oro ha cambiato tutto, per gli altri, per me stessa, quel giorno ho iniziato a sentirmi campionessa, quel giorno hanno iniziato a vedere la campionessa.
Oggi posso vantare un palmares impressionante, dicono.
Oro nei cento metri T42 a Londra e Rio, Argento nel salto in lungo T42 a Rio, Oro nei cento ai mondiali di Doha e Londra, argento nel salto in lungo sempre a Doha, altre tre medaglie d’oro nei cento agli europei più due argenti ed un bronzo nel salto in lungo, un mare di medaglie, è vero.
Ah, già. Chi sono? Sono Martina Caironi e oggi ho trentun anni.


Ambra
Babbo domenica c’è la “Scarpinata dei quattro forti” di Porto Ercole, devo allenarmi, mi accompagni?
C’è da chiederlo piccina...? Salta su che andiamo.
E invece, niente corsa per me domenica, anzi. Niente corsa per nessuno perché l’Atletica Costa d’Argento, la mia società sportiva, e l’UISP hanno deciso di cancellarla dopo quello che è successo quel giorno, mercoledì.
Già, mercoledì. Sono saltata sullo scooter del babbo e andavo ad allenarmi, scendevamo da Terrarossa verso Porto Ercole, quando siamo arrivati al bivio per la Feniglia è arrivata questa Opel, aveva fretta, non ci passava, ma ha sorpassato lo stesso, ha invaso la nostra corsia, ci ha preso in pieno.
Buio.
C’è questo pompiere che è piegato su di me, passavano per caso… mi ha stretto il laccio emostatico sulla gamba dicono che mi abbia salvato la vita. Senza, probabilmente, sarei morta per emorragia, l’impatto mi ha praticamente tranciato la gamba all’altezza del ginocchio, adesso l’elicottero mi porta a Firenze all’ospedale di Careggi.
Speranza.
A me piaceva tutto, la pallavolo, il pattinaggio, però il mezzofondo era la mia passione. Adesso devo ricominciare tutto da zero, quando sono arrivata all’ospedale di Careggi non hanno potuto far altro che amputare.
Sì, adesso c’è davvero da tirarsi su le maniche, mica posso piangermi addosso e visto che son qui, bloccata in questo letto e ci devo restare vediamo se riesco a fare gli addominali.
Uno, due, tre…ventisette, ventotto…
E intanto che arriva la mia protesi potrei nuotare, e magari anche andare sulla handbike, ma dopo mi devo rimettere a correre, è la mia passione, speriamo che arrivi presto.
Poi però a Iesolo sono caduta sia alla partenza che all’arrivo, ma con questa nuova protesi fatta dall’Inail sembra andare molto meglio. C’è poco altro da dire, sono molto giovane ed ho perso la gamba solo due anni fa e anche io, come Monica, ho visto le gare di Martina.
Mi chiamo Ambra Sabatini ed ho diciannove anni.


Volare
Non lo sapevamo, ma in quelle tre giornate di buio che hanno segnato le nostre vite c’era scritta la data di oggi, un appuntamento.
In quelle giornate saremmo potute volare in cielo, tutte e tre, due di noi in realtà lo hanno anche fatto… su un elicottero che invece le ha riportate alla vita e oggi alla premiazione cantiamo "Volare" perché in questa nostra nuova vita voliamo sul serio spinte dal nostro coraggio, dalla nostra grandissima forza interiore, una protesi, e tanta, tanta voglia di vita.

Ambra, quattordici secondi ed undici centesimi, medaglia d’oro, record del mondo. Martina, quattordici secondi e quarantasei centesimi, medaglia d’argento, Monica, quattordici secondi e settantatré centesimi, medaglia di bronzo, tre storie in poco più di sessanta centesimi di secondo di differenza, centesimi di secondo che nei giorni di buio avrebbero potuto salvarle, o ucciderle, centesimi di secondo che le hanno portate fino a Tokyo, oggi, a vivere momenti di indicibile felicità.

"Immagino che vi sarete emozionati quanto noi", dice Martina. "Dedico la vittoria alla mia famiglia, al mio babbo e all'Italia", dice invece Ambra nella notte di Tokyo. "Voglio dedicare la mia medaglia all'Afghanistan. È il motivo per il quale alla fine mi trovo qui e non da un'altra parte. È il Paese che mi ha tolto una parte di me, ma in realtà mi ha regalato tante emozioni e una nuova vita, che è fighissima", ha detto Monica.

Riflessioni
Questo è il secondo scritto che riservo alle paralimpiadi in pochi giorni, dopo averlo riletto ho ritrovato la forma e lo stile che avevo utilizzato per il racconto su Christian Eriksen.
Non era voluto, evidentemente mi piace immedesimarmi inconsciamente nelle storie forti, cercare di capire in prima persona e provare, probabilmente senza riuscirci, a trasmetterle. Adesso le paralimpiadi sono terminate ed ora di queste ragazze, ragazzi, uomini e donne coraggiosi ci dimenticheremo tutti fino alla prossima volta, alla prossima competizione. Io però ho imparato delle cose che non potrò dimenticare, per esempio da questo “messaggio” che Martina ha trasmesso durante una bellissima intervista per “l’Ultimo uomo” a Giorgia Bernardini (che invito tutti a leggere)

D. Una persona con disabilità provoca imbarazzo in una che non ne ha. A volte può spingere l’osservatore a spostare lo sguardo altrove, a squadrare dall’alto in basso, a provare una compassione mal riposta e richiesta da nessuno. Se potessi dare uno strumento cognitivo per approcciarsi alla vita di un uomo o una donna con disabilità, quale strumento forniresti?

R. Bisogna trovare subito una connessione, un comune denominatore. Se poni l’attenzione sulla diversità ti perdi tutto il resto. La diversità è una caratteristica che ho ma non è tutto. La risposta a questa domanda è soggettiva. Quando mi sento osservata io cerco di creare uno shock, cerco di spaventare chi mi fissa con un «bu!» perché il mio viso sta più su e non lì giù (si indica la gamba, nda). Invito a guardare la persona. E in questo c’è forse un senso anche di fastidio perché devi iniziare a considerare che non tutti sono come te. Quindi guardare all’altro come fonte di crescita e non come qualcosa che ti spaventa. È utopico ma un approccio di questo tipo può portare alla scoperta di cose molto interessanti.

Ho guardato le persone e ho letto le storie, come ho già scritto nella lettera a Bebe probabilmente mi sbaglio, ma queste storie, queste medaglie, valgono di più.