È successo, si. È successo ad Abbiategrasso, nel milanese. È successo qualche giorno fa, è successo che un alunno ha accoltellato la sua insegnante. Lei voleva interrogarlo, lui l’ha apostrofata, l’ha minacciata, l’ha accoltellata; quindi, ha puntato contro i suoi compagni una pistola, che giocattolo non lo è mai. Dite voi, che c’entra col pallone tutto questo? C’entra, altroché se c’entra! 
Quello di Abbiategrasso è il fatto di un delinquente, certo. Non ci sono appelli da fare, né teorie da scomodare, quel ragazzo è sicuramente un delinquentello in erba che ha solo anticipato il suo personale appuntamento con la violenza e la giustizia; oppure, è un mezzo squilibrato che ha solo anticipato il suo personale appuntamento con le cure del caso. Chissà. Ma quante volte, negli ultimi anni, abbiamo assistito a fatti incresciosi di questo tipo! Quante volte abbiamo appreso di insegnanti fatti oggetto di atteggiamenti prevaricanti o strafottenti o dileggianti o prepotenti o violenti, anche! 

E tutte le volte noi lì, a condannare, prima, e a spiegare o addirittura a giustificare, dopo, scomodando le più svariate teorie pseudo pedagogiche o para psicologiche o anche semplicemente del tutto illogiche. Si chiama inquietudine? Sì, forse. Perché oggi i giovani vivono in un limbo senza fine d’un futuro che dev’essere a tutti i costi roseo e fulgido, sebbene le istituzioni, e politiche e sociali e familiari, non ne agevolino i percorsi, che al contrario spesso appaiono tortuosi. Si chiama disagio? Sì, forse. Perché oggi i giovani vivono, senza nemmeno rendersene conto, in una specie di bolla asettica dove tutto è relativo, dove tutto è sdoganato o sdoganabile, dove l’unico punto fermo è un IO rapportato solo a sé stesso. Si chiama solitudine? Sì, forse. Perché oggi i giovani sono soli, anime in pena che vagano su internet, s’incontrano su Facebook e amoreggiano su Whatsapp; e non fanno più domande, semmai interrogano Google, oracolo muto che non interloquisce, non si confronta, che non contesta e non ammette contestazioni; risponde e basta. E si chiama assuefazione all’inettitudine. Non voglio tirar fuori la solita menata sui modelli negativi, tuttavia è indubbio che assistere al successo stratosferico, per quanto effimero, di tiktoker ed influencer, che non sanno praticamente far nulla, sicuramente non li stimola alla fatica, al sudore, al sacrificio, tutte cose che temprano e formano. 

Ma c’è di più, c’è molto di più. Facile derubricare il tutto a delle sterili, per quanto conducenti, categorie e sottoclassi del mal di vivere. Facile prendersela “coi tempi che corrono”: sono l’alibi migliore, la lavata di mani più sbrigativa, sono il nascondiglio perfetto dalle responsabilità che si hanno verso questi nostri benedetti figli. Sto parlando dei genitori, claro que sí. Si ma, dite voi: che c’entra col pallone tutto questo? C’entra, altroché se c’entra! Dicevo dei genitori. In occasione dell’evento criminoso di Abbiategrasso, il ministro Valditara ha subito affermato la necessità dello psicologo nelle classi. Eh no, ministro. Lo psicologo ci vuole, è vero, ma per i genitori.

La verità, nuda e cruda, è che stiamo attraversando una crisi genitoriale senza precedenti. I figli sono una fatica immane: faticoso accudirli, faticoso sostentarli, faticosissimo educarli. Perché educarli significa dire dei No, molto più scomodi di un Sì che li metta a tacere. Educarli significa seguirli, anziché mettergli in mano un telefonino e … “lasciami 5 muniti in pace”. Educarli significa guardare la tv con loro e cambiare canale o direttamente evitare contenuti violenti o volgari … e pazienza se dobbiamo sorbirci una serie da teenager, magari vista e rivista. Educarli vuol dire parlare con loro, anche a costo di spegnere quel pc o staccarli da quella serie tv o prendere quel maledetto cellulare (sempre quello!) e romperlo in mille pezzi (devo ammettere che il sequestro sarebbe una misura economicamente più sostenibile). Educarli vuol dire non trattarli come cocchi di mamma e papà di fronte alle evidenze della vita e alle sue difficoltà. E per quanto strettamente concerne la loro esperienza scolastica, educarli vuol dire pensare che possano anche loro aver torto e, soprattutto, trasmettere loro che, torto o ragione, la maestra o il prof ha ragione di default e va rispettato, senza se e senza ma. Se prendevo una nota (e cavolo, se ne prendevo!), tornato a casa, mia madre mi dava il resto (a Palermo diciamo così); oggi, una nota o un brutto voto scatena proteste, indignazioni, offese verso “la scema di turno che non ne capisce niente” e difese strenue del povero figliolo maltrattato, mentre fiumi di disquisizioni inondano le devastanti chat delle mamme, aspettando il fatidico domani … “vado là e gliene dico quattro”. Educarli vuol dire proteggerli, prima di tutto da se stessi e, prima ancora, diciamolo, da noi stessi. Dalla nostra ego, dalle nostre frustrazioni, dalle nostre proiezioni.  E vuol dire essere presenti ma non invasivi; amarli, non possederli; star dentro le loro vite, non entrarvi a gamba tesa.

Esserci! Educarli vuol dire accompagnarli a scuola calcio piuttosto che all’allenamento di pallavolo piuttosto che alla lezione di Tennis, anche a costo di saltare il pilates o di lavorare qualche ora in meno … e si arrabbi pure il direttore, ho una partita a cui assistere e amen. E se il mister lo mette in panchina, educarli è dare comunque ragione al mister, insegnando che nello sport c’è il merito e che comunque le sue scelte vanno rispettate, senza se e senza ma. Ecco cosa c’entra il calcio e lo sport, più in generale. 

Praticarlo è la migliore cura di quella inquietudine, di quel disagio, di quella solitudine, di quell’assuefazione. Nel calcio, e nello sport in generale, non c’è posto per le scorciatoie e non c’è spazio per la maleducazione. Lì c’è la meritocrazia. Lì c’è il rispetto per l’avversario e per i compagni e per il coach. Altrimenti, sei un perdente e nessun bullo alleato, nessun codice, nessuna azione può assicurarti il contrario. Finisci fuori squadra o fuori dal campo e perdi. Nella testa marcia di questi bulletti il discrimine è tutto lì: essere dei vincenti o dei perdenti. Minacciare o ingiuriare o colpire il prof li fa sentire dei vincenti. Certo, la vita, presto o tardi, presenterà loro il conto, ma in quel momento si sentono dei vincenti. Nello sport vince chi prevale sull’avversario e questo può farlo solo sentro le regole. Chi lo fa con correttezza e sportività, vince due volte, perché nel contempo diventa esempio da seguire, da emulare, da provare a raggiungere, anche. Esempi lo sono certamente tutti i beniamini dello sport. 

Da piccolo volevo essere Platini: non ne avevo, ahimè, neppure un’unghia, ma mi piaceva da impazzire anche la sua eleganza, la sua signorilità, la sua sportività, il suo essere leader. Quando, finale di coppa Intercontinentale, gli viene negato uno dei più bei non - gol della storia del calcio, lui si distende per terra, bofonchia qualcosa, mette una mano sulla guancia e dedica un sorriso beffardo ma elegantemente riguardoso all’arbitro, che ha appena negato immortalità a quella sua prodezza. Ebbene, mi piace pensare che inconsciamente quell’immagine io me la sia portata dentro per sempre e ne abbia fatto tesoro in tante situazioni della mia vita. Ed è per questo che mi sento di fare un appello ai calciatori professionisti e agli sportivi in genere. Anch’essi c’entrano, nel senso che anch’essi possono, e devono, fare la loro parte: essere d’esempio. Esempio di sportività. Esempio di professionalità. Esempio di onestà. Esempio d’impegno massimo per massimi risultati. Esempio di rispetto, per l’avversario, per l’arbitro, per i tifosi avversi, per i critici più duri. Esserlo sempre, sempre, sempre. 

Non è la solita, scontata solfa parolaia. Serve. Serve davvero. Gli esempi servono davvero. Esempi devono esserlo loro ed esempi dobbiamo esserlo noi, genitori. Sì, ancora noi, sempre noi. Che guardiamo le partite e ci accaloriamo, tifiamo, ci appassioniamo, ci divertiamo, esultiamo o ci arrabbiamo. E ci mancherebbe! È questo il calcio, è questa la passione ed è bellissimo. Solo che … se imprecassimo un po’ di meno … se lasciassimo stare le bestemmie che ogni tanto fuoriescono come scarafaggi dalla più putrida delle fogne … se la smettessimo di dare del “cornuto” all’arbitro ad ogni sua decisione che non ci aggrada … se risparmiassimo le virtù della mamma del difensore quando entra duramente sul nostro attaccante … se imparassimo a non augurare la morte all’avversario a terra … se accettassimo la sconfitta della nostra squadra come il frutto della superiorità dell’altra e niente più … se cambiassimo canale ad ogni bu che ascoltiamo provenire dagli spalti e a prescindere da colui a cui sono indirizzati … se dicessimo qualche parolaccia in meno … 

Sì lo so, sono scaduto nel politically correct di maniera. E sarà pure, la mia, una visione eccessivamente razionale per un tifoso, qualcuno mi darà pure del bacchettone. Però, sono sicuro che se seguissimo questi accorgimenti daremmo una costante lezione di civiltà, a noi stessi e a chi eventualmente si piazza su quel divano al nostro fianco. E ci osserva. Spesso ce ne dimentichiamo, ma ci osserva. E assorbe. Il calcio è metafora di vita ed è lo sport più praticato e più seguito al mondo. Approfittiamone. C’è in gioco più che una partita. C’è in gioco una generazione.