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Martedì - il cubo di Rubik
L’allenamento del martedì al campo del Buon pastore, con mio padre al timone, era una miscellanea di tattica, atletica e tanta filosofia. Non che a mister Fifo mancasse il pragmatismo, intendiamoci, anzi; tuttavia, amava condire tutto ciò che faceva di riflessioni introspettive ed esistenziali, che (diciamoci la verità) annoiavano i più. Io lo so perché non me ne perdevo uno, di allenamento, e la parte che preferivo era il discorsetto iniziale. 
Una volta, per esempio, per spiegare l’efficacia di una punizione diretta, calciata non in porta, ma forte e un po’ alla cieca sul groviglio di gambe che s’addensano nell’area di rigore, aveva scomodato un vecchio detto dell’infinita saggezza palermitana. “Si ghiacchi un pugn’ i canigghia nta llaria ….”, che, tradotto, vuol dire: se butti in aria un pugno di bucce di grano, queste si disperdono e non si sa dove vanno a finire…
L’accostamento era chiaro: calciare forte tra tante gambe davanti al portiere ti dà più probabilità di far gol che cercare la precisione di un tiro pizzato (verso l’incrocio piuttosto che all’angolo basso opposto al palo del portiere). 
Mio padre era una persona estremamente intelligente e sapeva benissimo che il valore di quella massima popolana lì dipendesse anche dalla cifra tecnica della categoria. Non c’era nessun Platini tra quei ragazzi, meglio perciò calciare forte e affidarsi al caso di una deviazione beffarda.
Intelligente e pragmatico.

Lo fu anche con Tony, quel pomeriggio. Un pomeriggio come tanti altri di un mite autunno palermitano. Un cielo imbrunito carico di cirri che presagivano una pioggia notturna, il venticello traditore e l’umidità del mare che, chissà chi l’abbia mai stabilito, a noi palermitani entra sempre nelle ossa. 
Finito l’allenamento, il ragazzino della Mediatrice rimase a parlare con mister Fifo. Li vedevo in piedi, l’uno davanti all’altro, dentro il cerchio di centrocampo, la concitazione nel gesticolare di Tony, l’aria corrucciata disegnata sul viso di papà; il quale, alla infine d’un conciliabolo, durato sì e no dieci minuti, gli metteva una mano sulla spalla e gli diceva qualcosa. 
Dentro quel cerchio, sacro a suo modo, sembravano un sacerdote e un penitente tra le pietre di Stonehenge.
Nessuno seppe mai cosa si dissero, pur intuendosi che si trattasse di una cosa seria. 

Dopo gli allenamenti, tornammo a casa in macchina, come sempre. Quella volta il tragitto fu particolarmente silenzioso. L’autoradio emetteva strofe di Renato Zero incise su una cassetta TDK 90, dal finestrino i palazzi e le luci di città erano “l’inutile richiamo” per i nostri pigri pensieri. Avevo sperato che in auto mio padre mi dicesse qualcosa e invece niente. Speravo almeno che quella sera, a casa, dicesse qualcosa e invece niente. Mutismo assoluto! E la faccia di Tony, il peso invisibile che quel pomeriggio si portava addosso, l'insolita svogliatezza nell'allenarsi s'erano stampate nella mia mente, generandomi un certo turbamento. 
Ad ogni modo, ebbi la conferma che si trattava di una questione delicata dopo cena, quando mio padre si mise ad armeggiare col suo cubo multicolore (in realtà il cubo era mio), cercando di omologarne le facciate: lo faceva sempre quando era particolarmente pensieroso, era come se in quel roteare convulso di quadrati multicolor cercasse quello giusto in cui farci entrare il cerchio delle sue afflizioni. 

Che strano arnese che era quel cubo! Proprio non mi ci raccapezzavo e stranamente mi faceva pensare alla mia classe, che era un caleidoscopio di persone e personalità ancora non del tutto formate, eppure già cosi diverse, così variegate. Il mio compagno del cuore si chiamava Gianfranco, gli volevo bene, nonostante le telefonate di primo pomeriggio a disturbar la mia siesta. La mia professoressa di Italiano, a pensarci adesso, era una signorotta tarchiata e abbastanza insignificante, eppure su di noi torreggiava. E poi c’era Flora, la mia fidanzatina, anche se lei non lo sapeva. Mingherlina, capelli lunghi neri, occhiali a boccino, era la creatura più bella del mondo. Avevamo gli stessi gusti: ci piaceva la pasta al forno, i telefilm di Italia 1, la grammatica, l’azzurro e i Duran Duran. Ecco, Flora era la facciata azzurra del cubo di Rubik, lei era tutto l’azzurro del mondo e io non gliel’ho mai detto. 
Neanche mio padre ci avrebbe mai detto di cosa gli aveva parlato Tony, quel pomeriggio. Lo avremmo saputo tutti solo alla fine di quella lunga, indimenticabile settimana.
Mancavano ancora cinque giorni alla partita di campionato, il sentitissimo derby di quartiere. Cinque giorni e tutti avremmo saputo. 

Continua ...