Paaaaaa ra ppa para pa ppa, parappa pa pa parappa … Paaaaaaaaa ra ppa para pa ppa, parappa pa pa parappa …pa

Marinetti l’avrebbe raccontata pressappoco così, la musichetta magica della domenica pomeriggio, quando le partite, tutte le partite, erano finite da circa un’ora e per la prima volta guardavamo ciò che indimenticabili voci narranti ci avevano trasmesso via radio. Era il Novantesimo minuto. Erano le campane del mezzogiorno di un paesino di campagna, era la sigla di Bim Bum Bam per i bambini degli anni Ottanta, era il nostro acerbo riposo (prima di ricominciare la settimana, lunga) affidato alla poltrona, a una tazza di the e al plaid della nonna.

Quel paesino di campagna si chiamava Viale Maria Santissima Mediatrice. Non era un paese e non era nemmeno in campagna, era un quartiere della periferia palermitana.
E sì, assomiglia tanto ad un paesino di campagna. Due strade dritte di senso opposto separate da un marciapiede centrale interamente alberato e arredato, qua e là, da panche in marmo su cui siedono parole e pensieri di un‘intera comunità da intere generazioni. Quella è via Mediatrice. Ai lati delle due strade altrettanti marciapiedi, tutti occupati da negozi e negozietti, al pianterreno di palazzi verdognoli che si guardano specularmente e costeggiano la lunga via, intersecata da stradine interne, slarghi e piazzuole. Quasi a metà del viale alberato, su uno dei due lati, sorge la chiesa di Maria Santissima Mediatrice, coi suoi campanili racchiusi in due alte torri parallele; alle spalle della chiesa, e di sua pertinenza, c’è un centro ricreativo con un campetto di calcio, originariamente in terra battuta e senza reti alle porte, che da quelle parti han sempre chiamato il campo della chiesa. Quel quartiere di periferia è per tutti il Viale.
A quel tempo, la vita lì scorreva lenta e zuccherosa. Tutti si conoscevano, tutti sparlavano di tutti, tutti si volevano un gran bene. Pallone e politica erano le uniche due metacampo su cui ci si schierava, nei weekend e durante le campagne elettorali. Per il resto, a parte il sorgere di una qualche forma di rivalità tra negozianti dello stesso settore, c’era nell’aria quella scomposta armonia del quieto vivere che scandiva la vita nei quartieri. Quando il quartiere era tutto il mondo: era il doposcuola e la scuola calcio, era la strada, era il centro commerciale, era la passeggiata, era la comitiva, era il primo amore, era il lavoro, era il tempo libero, era il sogno, di ognuno di noi, di tornare un giorno ricco e affermato. Il quartiere era la casa a cielo aperto, era il microcosmo perfetto, era l’ecosistema dove vite ed esperienze di fondevano e si mescolavano fino alle otto di sera, quando era ora di rientrare.

La domenica pomeriggio, però, io e mio fratello rientravamo prima: le partite ascoltate alla radio sotto il portico esterno del centro ricreativo della parrocchia e poi a casa, giusto in tempo per guardare Novantesimo minuto.
Quella domenica erano appena passate le 19 di uno di quei pomeriggi accidiosi delle domeniche del pallone. Paolo Valenti stava dando la linea al mitico Tonino Carino da Ascoli, mancava ancora un po' per i servizi sull’Inter e la Juve, lasciati sapientemente per ultimi, in un crescendo di attenzione e audience che in effetti ci teneva incollati alla tv fino alla conclusione della trasmissione; ma in casa nostra era il momento di cambiare canale. L’Inter aveva pareggiato 0 a 0, in casa con l’Avellino, i bianconeri avevano perso per tre reti a zero contro la Roma, all’Olimpico. Me ne ricordo ancora oggi, perché quella fu una giornata particolare, era il debutto di mio papà in televisione e mi annotai tutto sul diario di scuola, (per quell’anno avevo scelto il modello musicale, attratto dalla copertina su cui campava una foto dei Duran Duran). Conservo ancora quel diario (e tutti gli altri): anno scolastico 1986-1987 - II C - scuola Cavour. E di tanto in tanto, quando mi pervade un fremito di nostalgia, lo riprendo, lo sfoglio, rivivo quell’età e quella domenica.
Domenica 30 novembre: quel foglio è il più consumato dalla manipolazione della memoria. Un foglio bianco, senza compiti annotati, su cui avevo scritto il risultato della mia Inter e quello della Juve (la squadra di mio fratello), giocando anche in quella occasione l’infinito derby d’Italia di casa Mendola. E sotto, ben evidenziato col Tratto Video giallo, il risultato della domenica mattina.
Ogni domenica non aspettavamo altro che Novantesimo minuto, per guardare i gol (si fa per dire) delle nostre squadre preferite, ma quel giorno avremmo ovviato con la Domenica Sprint o direttamente con la Domenica sportiva, altro immancabile appuntamento che accompagnava la chiusa dei nostri occhi e il loro abbandono al sonno. Adesso era arrivato il momento di cambiare canale e sintonizzarsi su CTS, un canale locale nato dal boom delle tivù locali.

Lì, seduto su un sedile color cachi, c’era nostro padre, ospite d’onore della puntata numero (boh, chi se lo ricorda?) della trasmissione “A tutto campo”. Mio padre allenava in seconda categoria, ma con quel microfono in mano e l’abito delle grandi occasioni, sembrava Nils Liedholm (il suo idolo). E poi era raggiante, quel pomeriggio: la sua squadra, la FC Mediatrice, aveva battuto per 2 reti a uno la Cephaledium, i temutissimi primi in classifica proventi dalla lontana Cefalú. “Due punti importanti per la salvezza - allora i punti erano due - e una iniezione di fiducia per il prosieguo del campionato”. Sì, mio padre ci sapeva proprio fare!

Non c’erano immagini dei due gol con cui i nostri avevano asfaltato la forte squadra ospite (e non esistevano i cellulari con cui eventualmente immortalerli alla buona); ma in fondo che bisogno c’era? Quella partita io e mio fratello l’avevamo stampata in testa, minuto per minuto, nonostante fosse già terminata da diverse ore.
S’era giocato, come da consuetudine in seconda categoria, alle 11 di mattina. Il campo era quello del Buon Pastore, a un paio di chilometri dal quartiere, dov'era pure la sede della società sportiva. La terra battuta generava polvere e cavalcate sulle fasce che sembravano frammenti di corrida; fasce presidiate da guardalinee forniti dalla società ospitante, i quali dovevano far finta di coadiuvare arbitri spaesati e intimoriti dalla possibile zuffa sopra le righe. Gli spettatori erano le solite poche decine affezionate, gente del quartiere, i parenti e i ragazzi del settore giovanile, (le cui squadre erano allenate per diletto dai calciatori della prima squadra). Alcuni di questi si piazzavano invece dietro le porte, scelti, a turno, per fare i raccattapalle. Quella domenica era toccato a me e a mio fratello. Indossavamo le tute della squadra, fornutura per gentile concessione di Napoli-Market, un mini market di proprietà di Enzo Napoli, che vendeva un po’ di tutto, dalla salumeria ai detersivi. Quel posto lo conoscevo a menadito, mamma mi ci mandava sempre a fare la spesa, con un mezzo foglio di quaderno, su cui era scritto ciò che dovevo prendere e le bottiglie vuote di Coca-Cola e aranciata per il reso del vuoto a perdere. La spesa per quella sera era stata già fatta, la domenica si cenava con ciò che rimaneva della pasta al forno cucinata per il pranzo e, per secondo, cotoletta di manzo alla palermitana (cioè con una fetta di prosciutto e una sottiletta sopra) e contorno di patatine fritte fresche. Che intendo dire con la parola “fresche”? Semplice: quand’ero ragazzino le patate fritte dalle mie parti erano il frutto del lavoro di una donna, che si metteva lì, sul tavolo, coltello in una mano e patata nell’altra, e sbucciava e poi tagliava a listelli sghimbesci, fino a quando la zuppiera, posizionata tra lei e quel tavolo, non si riempiva di strane forme gialle, che la da lì a poco la padella avrebbe dorato. Una poesia!
Era tutto pronto per la cena, ma quella sera ci saremmo messi a tavola un po’ più tardi del solito, perché dovevano aspettare papà, che finisse la trasmissione e arrivasse a casa.
E vabbè, domani c’era la scuola, il lavoro di papà, il negozio di mamma.
Che tragedia il lunedì!

Segue...