Luis dixit: “Ho detto ai miei calciatori di arrivare al Mondiale con 1000 rigori calciati in allenamento. Non sono una lotteria, si tratta di bravura“. 
L’ormai ex allenatore della Spagna li ha fotografati così, i maledetti calci di rigore. Lui è un hombre vertical, non prende scuse, non tergiversa. Luis Henrique non fa sconti a nessuno, neppure a se stesso. 
Chapeau! 
Ma ha ragione? A rivivere la sequenza dei penalty calciati dalla Roja, nell’ultima partita contro il Marocco, parrebbe avere ragione: se ne sbagli 3 di fila, difficile imprecare solo alla sfortuna e non pensare che qualcosa nella testa dei tuoi calciatori si sia inceppato, producendo un leggerissimo, impercettibile quanto dannoso, tremolio alle gambe. Sì però, il palo di Sarabia…
Ed ecco che la dicotomia bravura-lotteria riemerge e, con essa, il dubbio che le parole dell’allenatore spagnolo siano state dettate più da un atteggiamento voluto che da una verità teorizzata.
E allora, i calci di rigore sono una questione di bravura o sono una lotteria? O sono un po’ l’una e un po’ l’altra cosa? Dove inizia il merito, dove finisce la fortuna? Qual è il confine? C’è un confine? E a volerli considerare alla Enriqueana maniera, cos’è il merito in quel duello tra chi calcia e chi para? È tecnico? È psicologico? È sia l’uno che l’altro? Più l’uno, che l’altro? E quando la palla va in rete, è più fortuna o bravura di chi calcia oppure più sfortuna o scarsezza di chi para? E quando la palla non entra? Se è fuori è fuori, ma se è il portiere a parare? Rigore parato, rigore sbagliato? O rigore parato è un colpo di reni? O è solo un colpo di… avete capito. Il dilemma è caleidoscopico ed è talmente amletico, da non poter trovare una risposta compiuta e universalmente riconosciuta (a dire il vero, tutto il calcio funziona così). Proviamo allora a dare alla vexata questio un approccio scientifico, sebbene il pallone di scientifico non abbia proprio nulla, e menomale. 

Sembrerà strano, ma diversi fisici, matematici, economisti e psicologi hanno tentato di rispondere al quesito, non solo passando al vaglio metodi quantitativi, dati, algoritmi e statistiche, ma facendo anche esperimenti sul campo e in laboratorio. Il tutto alla ricerca del rigore perfetto. Gli studi si sono concentrati soprattutto sulla situazione dei calci di rigore finali, che decidono un incontro, se non addirittura una competizione. Preliminarmente, è bene rilevare come, ancor prima che inizi la sequenza dei calci di rigore, esistano alcuni fattori che incidono sull’esito finale.
Innanzitutto, il fatidico lancio della monetina: la squadra che può scegliere di tirare per prima pare abbia un sostanziale vantaggio. I ricercatori Jose Apesteguia e Ignacio Palacios Huerta, infatti, analizzando 129 sfide decise ai rigori, hanno rilevato che le squadre che iniziano la serie e segnano il primo rigore vedono le possibilità di vittoria salire subito al 60%.
La spiegazione è di carattere psicologico: se si inizia per primi, man mano che si trasformano i tiri (cosa probabile, dato che circa il 75% dei rigori viene trasformato), si mette pressione agli avversari, aumentando le loro possibilità di errore. Sfortunatamente per noi italiani, i calciatori non sempre conoscono a fondo queste statistiche, sicuramente non le conosceva il capitano della nazionale azzurra, Gigi Buffon, il quale durante gli Europei del 2008, nei rigori finali contro la Spagna, non scelse d’iniziare e l’Italia, guarda caso, venne eliminata. 
In generale, comunque, le probabilità di segantura scendono al 44% nei casi in cui il possibile errore comporta l’eliminazione della propria squadra, mentre salgono al 91% nei casi in cui la realizzazione può dare la vittoria (insomma, la paura di perdere fa tremare le gambe più della paura di vincere).
Già, il fattore psicologico!
È indubbio, questo sì che lo è, che nei calci di rigore la pressione psicologica giochi un ruolo assolutamente determinante. Naturalmente, la sua capacità di provocare un inceppo a livello mentale e il conseguente riverbero sugli arti inferiori (passando prima  per il cuore, che va a mille, per lo stomaco, che va in subbuglio, e per i genitali, che qualcuno di sottecchi si tocca alla faccia della scienza) è inversamente proporzionale al livello del calciatore, la cui bravura si misura non solo sul piano tecnico e atletico, ma anche su quello della personalità.
Tuttavia, la pressione psicologica può essere forte anche nei confronti dei più forti. È stato infatti rilevato che calciatori che hanno vinto un riconoscimento personale, per esempio il pallone d’oro, una volta conseguito il premio, tendono a peggiorare le proprie prestazioni dal dischetto, rispetto ai giocatori di pari livello. E non c’è nessuna “maledizione del vincitore”, la superstizione lasciamola al medioevo; qui è tutta una questione di mente, qui la quesitone (banalizzo, ma non troppo) è che spesso dimentichiamo che dentro quei corpi statuari di quei super atleti, che ci appaiono quasi sovrannaturali, ci sono uomini, ci sono ragazzi. 
Se i ragazzi, poi, sono mancini, hanno un’arma in più. I dati rivelano che chi calcia di sinistro ha maggiori probabilità di segnare rispetto ai destri: il 76% di realizzazioni contro il 72%. Questa tendenza potrebbe dipendere dalla scarsa familiarità che i portieri hanno con i mancini, che rappresentano solo il 15% del panorama calcistico, e quindi dalla minore capacità di prevederne i tiri.
Un dato davvero curioso è legato al colore della maglia: si è scoperto che, negli ultimi cinquant’anni, le squadre che giocano in casa con le magliette di colore rosso vincono più spesso degli altri, anche ai rigori… mah! 

Fatte queste premesse, analizziamo l’esecuzione vera e propria, a cominciare dal posizionamento della sfera: qui per la scienza vige la teoria del gambero. Nel posizionare il pallone, sarebbe infatti più efficace camminare a ritroso, a mo’ di gambero, appunto, guardando il portiere e il punto dove si vuol calciare; spesso, invece, si vede il giocatore mettere la palla sul dischetto e camminare dando le  spalle alla porta, magari a capo chino. 
Una volta presa la rincorsa, bisogna decidere dove mirare.
La distanza tra il dischetto e la porta è di 11 metri, la porta è larga 7,32 metri e alta 2,44 metri. Le statistiche dicono che c’è una possibilità su quattro di fallire, con il margine d’errore che scende al 10% se il portiere non indovina la direzione. Secondo una ricerca dell’Università di Liverpool, è meglio calciare a sinistra o a destra (e buonanotte al cucchiaio). Il rigore perfetto, secondo gli studiosi inglesi, è questo: prendere una rincorsa di 5/6 passi, mirare a uno dei due angoli in alto della porta e scagliare la palla con una velocità di circa 100 km/h. Tirato così, il penalty risulterebbe imparabile, come confermato dal  fisico Stephen Hawking. Sarebbe il rigore perfetto! 
E guarda caso, anche se i calciatori non hanno neppure idea di cosa stiamo parlando, la maggior parte di loro fa proprio così: nell’83% dei casi tira angolato; i destri propendono a tirare a sinistra, i mancini a destra; i portieri lo sanno e per questo nel 57% dei casi si buttano alla loro destra, nel 41% a sinistra.
C’è però un economista (sì, un economista), tale Steven Levitt, che confuta la teoria “fisica” del rigore perfetto e i calcoli matematici che la supportano. Secondo l’economista, il rigore migliore non è quello angolato, bensì quello tirato dove il portiere non se lo aspetta, cioè al centro della porta (evviva i cucchiaiomani come me). Ma solo il 17% dei rigori finisce lì, al centro, sebbene solamente 7 volte su 100 i portieri restano fermi (addirittura 2 volte su 100 nelle partite tra nazionali). Tirare al centro darebbe l’81% di chance di segnare, contro il 70% dei tiri a destra e il 77% di quelli a sinistra. Nei Mondiali, da Spagna ’82 a Sud Africa 2010, ben 22 gare si sono decise ai rigori e, dei 204 tiri, addirittura nessuna palla centrale è stata parata. Forse proprio perché quasi mai nessuno tira lì? Forse se si cominciasse a tirare di più al centro, queste percentuali muterebbero? Forse il pallone non ha nulla di scientifico ed è tutta una forzatura (compreso questo mio pezzo)? Mah …

E l’istinto? Dove lo mettiamo? Immaginate se ogni calciatore tirasse dopo aver fatto i compiti a casa e aver studiato tutte ste cose? 
Ne sarebbero senz’altro felici gli psicoterapeuti, questo sì. E forse anche i portieri, che, studiando parimenti, aumenterebbero sensibilmente la percentuale di parate. Insomma, si incasinerebbe il tutto, ancora più di quanto già non lo sia col Var e il fuorigioco per un’unghia e il tempo di gioco effettivo e … 
Già, l’istinto. Cosa c’è di meno scientifico (e perciò affascinante) dell’istinto? Eppure, lo scienziato cognitivo Gerd Gigerenzer sostiene che deve essere proprio l’istinto a guidare i rigoristi, non la riflessione consapevole: più tempo si aspetta, più si pensa prima di tirare e più aumenta il rischio di sbagliare. Ragion per cui, per i portieri il discorso è in parte diverso. Ovvio, anche il portiere deve ricorrere all’istinto, ma è fondamentale cercare di rallentare l’esecuzione del rigore, distraendo l’avversario e, appunto, costringendolo a pensare. Se il tiratore cambia in corsa la propria decisione, infatti, aumenta le proprie possibilità d'errore. Se il portiere si muove sulla linea di porta e allarga ripetutamente le braccia, diminuisce la grandezza percepita della porta e distrae il tiratore (o almeno ci prova), inducendolo a calciare verso di lui e riducendo l’angolatura del tiro di circa 32 cm. Inoltre, se il portiere si posiziona non perfettamente al centro, ma si distanzia poco poco (anche solo di circa 9 cm) più a destra o a sinistra, aumenta le possibilità di errore del tiratore, che tende a tirare all’angolo “indotto” e maggiormente sguarnito.
E poi c’è l’esultanza (eventuale, per carità). Anche l’esultanza ha il suo perché: se il giocatore che segna esulta (e se ne frega della solita superstizione), la vittoria finale della sua squadra è più probabile; dopo un’esultanza, il tiratore avversario successivo tende a sbagliare di più, mentre il compagno successivo ha più probabilità di fare gol. 

Adesso però lasciatemi dire la mia, del resto siamo o no tutti scienziati del pallone? 
Rappresentato il rigore perfetto, almeno secondo i dati e le teorie dei veri scienziati (che poi magari vai a scoprire che di calcio non capiscono una mazza), lasciatemi dire qual è il mio rigore perfetto. 
Ve lo racconto. 

Amsterdam Arena, 29 giugno del 2000, semifinale del campionato europeo. Italia e Olanda vanno ai calci di rigore, dopo un epico 0-0 (è la famosa partita de rigori parati dal grande Francesco Toldo). 
Di Biagio: "A Francè, io c'ho 'na paura".
Totti: "Eh, a chi lo dici, ma hai visto quant'è grosso quello?” (quello è Van der Sar).              
Di Biagio: "Ah, così m'incoraggi?".
Totti: "Nun te preoccupà, mo' je faccio er cucchiaio".
E Maldini: "Ma che sei pazzo? Siamo a una semifinale degli europei!".
Totti: "Se, se, je faccio er cucchiaio".


No, non è uno spot, è quanto si dicono Di Biagio,Totti e Maldini al centro del campo dell’allora Amsterdam Arena (oggi Johan Cruijff Arena"), prima che inizino i rigori. 
Totti va sul dischetto, ciò che Di Biagio e Maldini stanno pensando in quegli istanti nessuno lo sa, ma è facile immaginarlo
Sistemata la sfera, Totti prende la rincorsa, rallenta, arriva sulla palla, inchioda il corpo sulla gamba d’appoggio, la colpisce sotto, la palla compie un arco nell’aria, morbido, lento, inesorabile.
Gol! 

A Bruno Pizzul quasi viene una sincope, Zoff ha solo voglia di prenderlo a schiaffi, Di Biagio e Maldini non sanno se ridere o piangere.
Piange di sicuro il portierone olandese, irriso dallo sberleffo del giovane fuoriclasse romano.
Grazie, Panenka: la tua invenzione mi ha regalato il mio rigore perfetto… perfetto perché è finito in porta, ovviamente.
E comunque no, qui non c’è merito e non c’è fortuna e non c’è pressione psicologica.
Qui c’è la follia. La lucida (ma non troppo) follia d’un fuoriclasse puro, un diamante. 

Perciò, al diavolo le statistiche, le dissertazioni, i numeri, le scaramanzie, le teorie e le lotterie.
“Continuate a splendere, pazzi diamanti”, continuate a regalarci cucchiai e parate impossibili, ché il calcio ci piace per questo.
Ci piace da impazzire.