Su richiesta di Jea, un racconto per Vxl

Marco si fermò in cima al sentiero che conduceva alla piccola baia nascosta. Fin da piccolo, ogni volta che la malinconia o cattivi pensieri avevano occupato la sua mente, si era sempre rifugiato lì, a poche centinaia di metri da casa sua, portando con sé un pallone.
E dopo decine di palleggi, tiri, azioni con tanto di telecronaca e corse da una parte e dall’altra della spiaggetta, ritrovava la serenità perduta. Eppure, per quante volte avesse già visto e vissuto quella piccola baia nascosta, non poteva non fermarsi, ogni volta, in cima a quel sentiero ad ammirare il mare.

Dopo qualche minuto, riprese il cammino.
Giunto in spiaggia, appoggiò lo zainetto sulla sabbia, lo aprì e tolse il pallone. Da quanto tempo non lo aveva più toccato! Da quanto tempo non lo aveva più nemmeno cercato!
Ma in quei giorni in cui il mondo sembrava essergli crollato addosso, si era ritrovato più volte a pensare a chi avrebbe potuto chiamare, chi avrebbe dovuto sentire per un consiglio, una parola di conforto. Aveva passato mentalmente in rassegna tutti i suoi cari e i suoi conoscenti e li aveva scartati ad uno, perché si sarebbero preoccupati troppo o perché non si sarebbero preoccupati affatto, perché avrebbero sofferto in silenzio con lui o perché avrebbero parlato inutilmente. Nessuno, non c’era nessuno che lo avrebbe potuto aiutare a togliere quel tarlo dalla testa.
Poi si era ritrovato a pensare come in passato si fosse ritrovato a cacciare i cattivi pensieri grazie ad una spiaggia e a un pallone, ed ora era lì, su quella spiaggia, con quel pallone. Era certo che questa volta il pensiero fosse troppo pesante per riuscire a cacciarlo, ma non sapeva cos’altro avrebbe potuto fare.

Destro, sinistro… il pallone gli scappò via. Sì, era passato decisamente tanto tempo, dall’ultima volta che ci aveva giocato. Lo riprese. Sinistro, sinistro, sinistro. Non male, stava migliorando. Destro, ginocchio, tacco, ginocchio. Sempre meglio. Sinistro, testa, testa.
No! Doveva smettere, la testa no! Erano passati ormai diversi giorni da quando quella impietosa sentenza gli aveva cancellato qualsiasi altro pensiero. Abbastanza giorni per informarsi, per prendere consapevolezza di quello che gli avevano detto, per studiare cosa comportasse quella diagnosi. Ma per quanto sapesse che la sua preoccupazione era totalmente irrazionale, l’idea di avere colpito la palla di testa lo aveva sconvolto. Tumore al cervello, gli avevano detto. Operabile, avevano aggiunto.
Un’unica, tenue fiammella di speranza nel buio totale che lo aveva assalito. Come aveva potuto minacciare quella fiammella colpendo il pallone di testa? E come aveva potuto pensare che due tiri in spiaggia avrebbero cancellato il buio? Prese il pallone in mano, poi lo calciò in mezzo al mare, con tutta la forza che la rabbia gli aveva dato. E pianse. Pianse sul bordo del mare, con gli schizzi delle onde che arrivavano fino al suo viso.

“Io, goccia,
sola nella pioggia,
affronto il vento che mi viene contro,
ma non ho voglia di lottare.
A me, povera lacrima,
anche il sole fa male”.

Si sedette sulla sabbia, le ginocchia raccolte sul petto. Osservò il pallone in mezzo alle onde, non sapeva nemmeno lui per quanto tempo.
Poi, avvertì una strana sensazione. Si girò alla sua destra. Lei era lì. Bellissima, anche lei con le ginocchia raccolte, anche lei guardando il mare, con quegli occhi che, del mare, avevano lo stesso colore. Era lì, in silenzio, accanto a lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Poi si girò verso Marco e gli sorrise. Un’altra fiammella.
“Ciao”, gli disse.
“Ciao”, rispose lui.
“Vieni spesso qui?”
“Ci venivo, ma era da un po’ che non lo facevo più”.
“Perché no?” gli chiese, senza smettere di sorridere.
“Forse non ne sentivo il bisogno”.
“Ed ora sì?”
“Sì, ora sì”, rispose Marco.
Lei non aggiunse altro, ma continuò a fissarlo e a sorridergli. Stranamente, lui non provava nessun senso di disagio, anzi. Capì che lei stava aspettando che lui le narrasse la sua storia, e così fece.
Seduti l’uno vicino all’altra, le raccontò di quando da bambino veniva in quella piccola baia e palleggiava, e tirava, e correva da una parte all’altra dalla spiaggia. Sdraiati l’uno di fronte all’altra, le parlò dei sogni che aveva realizzato e di quelli che erano rimasti chiusi in un cassetto, come un racconto mai pubblicato.
E poi, nuovamente seduti, le parlò di quegli ultimi giorni, della sentenza, del buio. Ma stavolta non riuscì a guardarla. Fissò invece il mare, il lento movimento del pallone che cercava di riguadagnare la riva. Non poteva vederla, ma sentì che anche lei stava guardando nella sua stessa direzione. Sentì che lo avrebbe sempre fatto. Poi, silenzio.

Fu lei a parlare. Il buio stava ormai scendendo e lei parlò. Con il tono più dolce che lui avesse mai sentito. “Non preoccuparti, non preoccuparti di nulla, tornerò”. Marco non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea che lei se ne sarebbe potuta andare.
Lei sembrò leggergli nel pensiero e continuò. “Tornerò, te lo prometto, ti troverò io. Non devi preoccuparti di nulla”, gli ripeté.
Lui le prese le mani, non voleva che se ne andasse.
Lei fissò il mare. “Guarda, anche il tuo pallone è tornato da te”, e gli sorrise, ricambiata.

Era la prima volta da giorni, che Marco sorrideva. La guardò divertito, poi le lasciò le mani, andò verso il pallone, lo raccolse e tornò verso di lei. Ma lei era scomparsa nel nulla, come dal nulla sembrava essere arrivata. Marco lasciò cadere il pallone e corse velocemente verso il sentiero. Cadde e da terra continuò a cercarla, ma non la trovò. Si mise in ginocchio, sulla sabbia. Gli aveva detto che sarebbe tornata e sentiva che sarebbe stato così, ma non poté fare a meno di incolparsi.
Se solo fosse rimasto con lei, se solo non fosse andato a riprendere il pallone, se solo avesse continuato a tenerle le mani.
Si guardò i pugni chiusi, incredulo per quanto era appena successo.
Aprì le mani, e la sabbia svanì con il vento.