La pioggia batteva sul balcone, mi affacciai, a dispetto dell’aria rarefatta e delle algide gocce che mi pizzicavano il viso. In un cielo color vaniglia, carovane di strane forme si muovevano verso l’ignoto, offuscando a intermittenza il sole scialbo che irraggiava verso l’orizzonte.
Laggiù, in un punto imprecisato tra l’azzurro sbiadito e il pezzetto di mare che tra i palazzi intravedevo, si stagliava, argenteo, un perfetto rettangolo. Segnato da familiari linee bianche, ero certo trattarsi di un campo di calcio, le quattro bandierine agli angoli color arcobaleno, le porte bianche dalle reti azzurrognole, una sfera. Una sfera che pareva di cristallo luccicante, ma forse era semplicemente l’ultimo pallone d’ultimissima generazione. Chissà! Era comunque un pallone, era tutto pronto, una partita stava per cominciare.
Da una parte del campo, tra i pali scorgevo i guantoni di Lev Jašin, la sua inconfondibile mise da ragno nero, la torreggiante fisicità del miglior portiere della storia. 
Aveva davanti a sé un tale, capelli mossi, un ghigno stampato in faccia e un sinistro micidiale che ci tirava certi calci piazzati…
Si vedeva che era nuovo da quelle parti, si voltava spesso verso la panchina e in un italiano un po’ sgraziato chiedeva al suo allenatore: “In Sandoria io giocava qui, va bene qui?”. E il mister, con un’inflessione simile e la punta d’ironia che gli biforcava la lingua, gli rispondeva di “Gioca dove vuoi, Sinisa, qua no giocatori vincono allenatori perdono”. "Va bene, mister, ma se mister sono io mi faccio giocare a difesa”.                                                 E il mister: “Gioca a difesa, ma ricorda che rigore qua non è quando arbitro fischia, qua no arbitro”.

Mentre i due proseguivano in quel siparietto in salsa serba, Bobby Moore ridacchiava, ma era concentratissimo nel posizionarsi al centro della difesa e non perdeva mai, neppure per un secondo, una certa compostezza british. Portava la fascia di capitano, nessuno gliel’aveva conferita, quella fascia era sua e basta, lo era da quel mondiale del ‘66 vinto con la sua nazionale. 
Accanto a lui Carlos Alberto, che scalpitava per catapultarsi nell’area avversaria, dall’altra parte del campo, e “scannonare” di destro alle spalle dell’arquero avversario, magari su passaggio di… “Rei, Rei!” e faceva l’occhiolino, cercando complicità nel suo vecchio compagno d’avventura messicana (pure lui, però, nuovo da quelle parti e perciò un po’ spaesato).
E poi, siccome evidentemente anche a quella "altura” la difesa era a 4, c’era Andrés Escobar. Sì, era lui! Giovane, capelluto, faccia brunastra, la numero 2 sulle spalle e una garra da cartello di Medellín. Sì, era proprio lui! Povero ragazzo, quanto lo avevo pianto! Adesso però sembrava contento. Del resto, un eventuale suo autogol non gli avrebbe creato alcun problema e proiettili lassù non avrebbe dovuto schivarne; anzi, avrebbe dovuto mettercisi davanti. 
Davanti alla difesa, scorgevo una barbuta figura alta e magra, non riuscivo a capire se quel bianco fosse il colore della maglia oppure della sua pelle, fatto sta che portava stampata, o tatuata, una scritta: Democracia Corinthiana. Eccetto il nome, di socratico aveva ben poco, anche se incitava i suoi compagni dispensando filosofia alla stato puro: “Ganhar ou perder, mas semper com democracia”. Diceva così e io ne intuivo il significato. 
Il più sensibile al richiamo del centrocampista dall’intelletto fine e i piedi ancor di più, sembrava un ragazzone di colore, che s’era messo accanto a lui, quasi sentisse il bisogno di un dottore, casomai avesse avuto un malore in campo. “E no, Marc-Vivien Foe, lì non può succederti nulla”: glielo gridavo, volevo tranquillizzarlo, ma lui non mi sentiva. 
E poi c’era Johan Cruijff, vertice alto di quel centrocampo altissimo, purissimo, fortissimo; aveva la 14 e da quelle parti predicava calcio totale come un santone tra infedeli e conservatori. 
Gli unici ad andargli dietro, perché totali lo eran sempre stati, erano i tre lì davanti: Pelé, Maradona e George Best. Sembravano gli avatar all star di un videogioco. O’rei e il Pibe de oro indossavano entrambi la 10 (Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole), il quinto Beatle giocava con la maglia numero 7. I due figli prediletti del Sudamerica facevano riscaldamento, palleggiando insieme senza mai far cadere il pallone. E sarebbero potuti andare avanti un’eternità, se quel capellone dalle folte basette di un nord-irlandese non avesse detto loro di smetterla, promettendo in cambio un racconto dei suoi a fine partita, magari davanti a un goccetto. 
Era un dream team! Ma anche l’altro lo era. Era tutto un dream. 
Gli altri avevano le maglie azzurre che quasi si confondevano col cielo, se non fosse che il loro era un azzurro acceso e merlato di tricolore. 
In porta scorgevo chiaramente Garella: Claudione aveva le ali ai piedi. Forse anche per questo da quelle parti si sentiva più a suo agio di tanti altri illustri suoi colleghi, forse anche per questo il cielo quel giorno gli aveva dato quella maglia azzurra che il calcio terreno sempre gli avea negata. 
In difesa, Astori faceva coppia con Gaetano Scirea, e sì che lì eran tutti uguali, ma una certa deferenza di Davide verso il Golia che aveva accanto si coglieva. 
La numero 3 di Giacinto Facchetti era lì, non poteva mancare. Così come la numero 2 del buon Tarcisio, perché “Burgnich - Facchetti” è il verso più poetico della letteratura calcistica, un passo della Bibbia nerazzurra, è la strofa immortale d’uno stornello senza tempo, che da Sarti a Corso si cantilena tutto d’un fiato. 
Davanti a loro, ombroso e lucente, Agostino Di Bartolomei canticchiava “Grazie Roma” (a proposito di canzoni), mentre scuoteva le gambe a mo’ di riscaldamento. 
Ma un tale, che era di fianco a lui, maglia numero 8, mediano all’antica, gli ricordava che aveva giocato anche nel Milan. Il suo Milan. Io non lo riconoscevo. Omero, lo chiamavano tutti Omero e dal modello degli scarpini si vedeva lontano un miglio che era un calciatore anni 50/60, quando il suo Milan vinceva scudetti e coppe dei campioni e lui ne era il capitano. 
E siccome l’italia è sempre l’Italia e anche lassù si faceva catenaccio, il vecio Bearzot aveva piazzato accanto ai due un altro mediano. Che volete? Mica poteva giocarsela a viso aperto, con quei mostri sacri! Quel mediano era Giacomo Bulgarelli. Io me lo ricordavo nelle vesti di commentatore televisivo, bonaccione e grassottello che sembrava un meraviglioso tortellino; adesso era un calciatore, tecnico, atletico, forte.
E avanti, Paolo Rossi era ancora un ragazzo come noi, Gianluca Vialli era l’ultimo arrivato ed entrambi facevano la riverenza e la scappellenza al signor Valentino Mazzola, in un girotondo di campioni per sempre.

Tutto era pronto, ma prima del calcio d’inizio i ventidue in campo osservavano un minuto di silenzio: per le anime in pena di quei tifosi fasulli, che all’autogrill si ammazzavano come cani… e Gabriele Sandri lì, sugli spalti invisibili d’una curva tutta sua, a dannarsi per una lezione che in molti, troppi non hanno ancora imparato. E questo non era un sogno, era un incubo. 
Non saprò mai il risultato dell’incontro, la maledetta, insensibile sveglia stamane mi ha richiamato ai doveri d’ogni giorno.
Oggi è stato un giorno come tanti altri, scandito da ore lente e passi veloci, tra ordinarie faccende e questioni da risolvere. Eppure, sono stato  costantemente solleticato come da flash ipnagogici, che s’intromettevano nella banalità del quotidiano e da questa mi distoglievano. 
Mentre consumavo il caffè del bar sotto casa mia, appena uscito, ho letto l’ennesimo articolo sull’assalto dei dissidenti brasiliani alle sedi istituzionali. Campeggiava una foto che li ritraeva vestiti con la maglia verdeoro, armati di spranghe e quant’altro: ho pensato a Sandri, agli autogrill e all'assurda violenza che si genera attorno allo sport più romantico del mondo.
Ho chiuso il giornale, ho finito il mio caffè, sapeva di eccessiva tostatura; o forse era solo un’istantanea del mio umore. Ho deciso di non pensarci più, di godermi la poesia del mio sogno, quand’esso avrebbe piacevolmente bussato alle porte della mia percezione, distogliendomi ancora dalla routine. 
E così è stato, per diversi momenti della giornata. In uno di quei momenti, ho pure cercato su Google: quel mediano anni 50/60 era Omero Tognon. Ma  una domanda, sempre la stessa, per quanto futile e senza alcuna possibilità di risposta, mi è più volte frullata in testa: chissà com’è finita quella partita? 

È sera. Il divano e la tv raccolgono gli ultimi scampoli di energie. E ancora quella domanda, ancora quel sogno.
Me la immagino come una specie di “Italia contro Resto dell’altro mondo”. E sì, a giudicare dalle forze in campo, l’Italia partiva sfavorita, ma nel calcio non si sa mai.
Lassù poi…
Torno a dormire, va’ ...