Nel calcio, così come nella vita, ci sono parole che non assumono soltanto un significato di natura letterale, ma trascinano con sé anche particolari stati d’animo, mix di sensazioni ricorrenti, poiché ad esse si collegano indissolubilmente, non banali implicazioni consequenziali. Una delle più temute in assoluto da parte dei tifosi, i quali spesso e volentieri fingono addirittura la sua totale sconoscenza, è la famigerata definizione di bilancio; si tratta di un termine legato all’epoca moderna del pallone, nonché il prodotto principe del processo di aziendalizzazione, che ha investito tutto il sistema calcio negli ultimi decenni.

Il bilancio di un’azienda, documento complesso che ne contiene diversi al proprio interno, si realizza banalmente nel conteggio finale che pone la somma algebrica tra le attività e le passività registrate, in un risultato che tecnicamente si definisce reddito. Quest’ultimo può presentarsi in una doppia natura contabile: una dal segno positivo, ovvero quella dell’utile, ed un’altra di categoria negativa, cioè la tanto agognata perdita. In entrambi i casi l’azienda in questione, dovrà comportarsi di conseguenza, ma quando bisogna fare i conti con le perdite, che comportano l’erosione del capitale investito nell’attività, l’attenzione deve essere sicuramente raddoppiata.

Quando si discute del concetto di sostenibilità economica, l’obiettivo principe si trova proprio in questo ideale ciclo di investimenti, che non deve autodistruggersi, bensì alimentarsi e crescere nel tempo. Per molti anni, nonostante in economia la suddetta idea non sia mai stata un’astrazione, il sistema calcio non è quasi mai stato in grado di omologarsi a tale nozione, registrando spesse volte entrate al di sotto delle uscite. Una delle cause principali di questo fenomeno è l’evidente crescita dei salari dei calciatori, nonché le faraoniche richieste da parte dei loro agenti, spesso e volentieri accontentati a suon di milioni da parte delle proprietà. Un rapporto di forza destinato a divenire sempre più squilibrato con il passare delle stagioni, e così per le società sportive non rimane che una soluzione: ridimensionarsi, e ripartire dalle idee.

Terminati dunque i tempi d’oro della Serie A targata splendore anni ‘90, inizia l’era dell’austerity, che anche se scandita ad intervalli, viene vissuta dai tifosi come un vero e proprio smacco nei riguardi dei loro club di appartenenza, idonei a vantare una gloriosa storia di successi. Ma di fronte all’impellente esigenza di rientrare all’interno della naturale barriera costituita dai costi di esercizio, persino le più radicate ambizioni devono lasciare spazio al sacrificio, divenuto uno sforzo necessario, onde evitare la concreta possibilità di scomparire. Nient’altro che un’ovvietà, verrebbe da aggiungere, eppure accade non di rado che la gente dimentichi questi elementi fondamentali su cui si regge il mondo in cui viviamo. Anche il calcio è soggetto alla natura ciclica dell’economia, ed è per tale ragione, che bisogna far leva sulle idee, ancora prima che sulla prepotenza del denaro, soprattutto quando di quest’ultimo se ne possiede davvero poco.

Nella fattispecie particolare, il calciomercato estivo appena concluso, ha raccontato di un vero e proprio esodo da parte dei volti più noti della nostra Serie A, che hanno deciso di regalarsi una sorta di “fuga organizzata” dal Belpaese, per accasarsi alla corti delle più facoltose società europee. A pagarne le spese in modo più evidente è stata l’Inter neo campione d’Italia, spogliata di due fuoriclasse assoluti come Romelu Lukaku e Achraf Hakimi, ceduti ancor prima di poter esibire in campo, lo scudetto appena cucito sul petto. Nella mente di un tifoso nerazzurro, tali malinconici eventi non possono che riesumare il triste ricordo dell’era post triplete, sublimata nel più totale ridimensionamento, una volta salutato il talento di Samuel Eto’o, trasferitosi in Russia, per l’insostenibilità del suo ingaggio faraonico.

Al suo posto arrivò un certo Diego Forlan, esperto centravanti ex Atletico Madrid, che solo un anno prima, aveva incantato il mondo intero ai Mondiali sudafricani, rivestendo il ruolo di perno in una straordinaria nazionale uruguaiana. Con la maglia della celeste, el Cacha, così soprannominato per la sua somiglianza ad un noto personaggio di fantasia sudamericano, realizzò ben 5 reti e 3 assist nel corso di quella competizione, raggiungendo a sorpresa la semifinale, e candidandosi addirittura per l’assegnazione del pallone d’oro in quell’annata. Un mix di classe e personalità, abbinato ad una specialità particolare, quella del tiro da fuori, esibita in più di un’occasione nel corso di quella Coppa del Mondo; un vero e proprio leader in campo, un regista offensivo con la maglia numero 10 sulle spalle, una meraviglia da stropicciarsi gli occhi.

Quando si presentò in Italia per prendere il posto del collega camerunense, il suo biglietto da visita si raccontava quasi tutto in quello strepitoso calciatore ammirato un anno prima, capace di incantare il pubblico globale, fino alla semifinale di Città del Capo, vissuta da protagonista con l’ennesima prestazione superlativa. Eppure il suo impatto con l’emisfero nerazzurro fu davvero disastroso, al di sotto di qualunque aspettativa, addirittura oltre l’immaginazione dei catastrofisti più convinti: soltanto 2 le reti segnate in sole 18 presenze collezionate, in una sfilza clamorosa di gare poco convincenti ed errori madornali, che dipinsero l’immagine del Forlan nerazzurro, nel quadro che lo ritraeva come un lontano parente del centravanti ammirato in passato. Per lui non vi fu nemmeno il tempo per un eventuale riscatto da esibire sul campo, poiché venne ceduto all’Internacional di Porto Alegre nel successivo mercato estivo, quando correvano i tempi della stagione 2012/13.

Archiviato il capitolo legato alla sfortunata avventura del Cacha all’ombra della Madonnina, nel corso di questa stagione all’insegna delle esigenze di bilancio e del sacrificio, l’Inter si trova nuovamente di fronte alla necessità di fare i conti con una realtà orfana del suo centravanti di maggiore impatto. Un pittoresco deja vu, potrebbe dirsi per certi versi, ma stavolta la dirigenza nerazzurra sembra aver lavorato di maggiore fantasia, tamponando il vuoto lasciato da Big Rom attraverso l’arrivo di due attaccanti dalle caratteristiche complementari: Edin Dzeko e Joaquin Correa, entrambi sbarcati a Milano dalla capitale.

Come accaduto nel caso di Diego Forlan, anche il bosniaco ha timbrato il cartellino dei marcatori nel corso del suo esordio milanese, ma la speranza dei tifosi interisti è che le analogie con la storia di una decade fa possano interrompersi fin dalle prossime partite. Una strana coincidenza che sembra rigettare l’ombra del passato all’interno del presente nerazzurro, in una cronaca sportiva, che per alcuni, potrebbe divenire addirittura tragica, se solo volgesse alla medesima conclusione.

Ma l'epilogo è ancora tutto da scrivere, e quindi non resta che raggiungere le proprie postazioni e mettersi comodi, poiché il bello deve ancora arrivare.