Avevo quindici anni, era il 1971, e quella volta fu la prima volta che vidi Genova. L'autobus della mia squadra, categoria allievi del circondario di Torino, attraversava il porto della città, e la famosa sopraelevata ci permetteva una vista unica sui palazzi e sul mare. Gli altoparlanti trasmettevano quasi sempre una canzone, bellissima e che non ci stufava mai, una canzone dei Dik Dik: Il primo giorno di primavera. Ed era primavera inoltrata, il sole splendeva e noi sapevamo che stavamo per fare una cosa unica nella vita.
Arrivammo nei pressi di una costruzione, che sembrava fatiscente e non si capiva cosa rappresentasse: era lo stadio di Marassi. Da fuori, sembrava tutto meno che uno stadio, ma poi scendemmo e ci dirigemmo negli spogliatoi, per poi entrare dal tunnel nel campo con gli spalti ancora vuoti. Era un'emozione. Eravamo stati invitati dalla Sampdoria a giocare una partita, proprio nello stadio, contro i pari età sampdoriani, un'amichevole con la quale volevano ringraziarci per avere organizzato tornei a Torino ed avere spesso invitato le loro squadre. La partita dopo avrebbero giocato Sampdoria e Internazionale, partita di serie A, con tanti campioni che noi vedevamo solo in televisione, mentre potevamo incrociarli li, nel campo, mentre si scaldavano ai bordi dello stesso, e noi giocavamo con un  sguardo alla partita, e tanti sguardi fuori campo. 

Allora nell'Inter giocavano i Corso, Mazzola, Boninsegna, Facchetti; mentre nella Sampdoria c'erano Boni, Sabadini, Marcello Lippi (proprio lui) ed un grande campione: Luisito Suarez.  
Quando lo vidi giocare mi lustrai gli occhi, pensavo, "no, è fantascienza", perché aveva un tale tocco di palla ed una visione di gioco che erano straordinari, insieme ad una capacità di giocare di prima sia con il piede destro che con il sinistro. 

La partita la perdemmo 1 a 0, e fu un buon risultato, considerando che noi eravamo una squadretta di Torino, mentre loro giocavano il campionato allievi nazionale.
E tra le loro fila c'era anche un ragazzo insignito del titolo di giocatore allievo più forte d'Italia. L'errore che costò il gol fu proprio il mio. Giocavo da libero, e per intercettare un filtrante avversario, calcolai male il campo, abituato ai terreni paludosi e pieni di sassi, mi scivolò la palla sotto il piede e l'attaccante blucerchiato ebbe l'opportunità di colpire da solo davanti al nostro portiere. Il quale pochi minuti prima si era preso l'applauso dei giocatori interisti e sampdoriani, che si stavano scaldando, ed ammirarono una bella parata su di un tiro angolato.
Il terreno di gioco era bellissimo, erba tutta uguale, e si doveva giocare come su di un biliardo, perché se i tocchi non erano precisi, la palla schizzava via. Oggi il campo, purtroppo, non è più così. Allora, c'era la buona abitudine di formare i campi a "schiena d'asino", ovvero con la parte centrale più alta, e una leggera pendenza sulle fasce. Questo permetteva il buon reflusso dell'acqua, che così bagnava il campo e non stagnava, danneggiando l'erba.
Quando fu rifatto il campo per i mondiali del 1990, lo stadio prese finalmente la forma di una costruzione adibita ad essere un complesso sportivo, ma si rovinò il campo di gioco, rendendolo piatto, per esigenze televisive. La spinta venne da Blatter, che così rovinò molti campi di gioco. 

Dopo la partita, fatta la doccia, fummo invitati in una zona laterale, ma comoda dello stadio e potemmo vedere la partita. Finì 0 a 0! Ma quello che non immaginavo, fu che in futuro incontrai tre di quei giocatori in circostanze diverse. 

Il primo antefatto avvenne a Torino. L'anno dopo, in una domenica all'oratorio, eravamo annoiati perchè eravamo troppo pochi per giocare una partita di calcio e troppo scarsi per farne una di basket. Era l'oratorio Agnelli, distante appena un chilometro dallo stadio Comunale di Torino. Vedemmo arrivare un sacerdote, che non avevamo mai visto prima.
Ci guardò, ci contò e poi disse: "Aspettatemi qui, torno subito!" Non sapevamo cosa dovevamo aspettare, ma lo predemmo in parola. Arrivò poco dopo, e con fare deciso ci disse: "Andiamo allo stadio!" Non ce lo facemmo ripetere due volte, lo seguimmo e non vedevamo l'ora di arrivare a destinazione e vedere cosa succedeva. Arrivati all'ingresso della tribuna laterale, il don alzò una mano e disse: "Oratorio Agnelli!". Le porte si spalancarono ed entrammo a vedere la partita. Manco a dirlo c'era Juventus-Sampdoria.
Nella Juventus mi ricordo bene Anastasi, che segnò una doppietta, come un funambolico Savoldi II, fratello del più famoso Savoldi I, noto per un passaggio miliardario alla corte del Napoli (due miliardi di lire) che fece molto scalpore. Nella Sampdoria c'era di nuovo "lui" Suarez, ed un piccolo furetto che giocava in attacco, tale Rocco Fotia. Entrambi ebbi l'occasione di rivederli in situazioni differenti. Mi ricordo che durante la partita, Suarez prese palla, e dopo un "elastico" tra le gambe, fece un lancio di sessanta metri sul piede dello stesso Fotia.
In quell'istante, lo stadio, pieno di tifosi juventini e pochi sparuti sampdoriani, si alzò in piedi ed applaudì con un'ovazione la giocata del campione. Fu una cosa emozionante, il rispetto per un tale fenomeno non aveva confini di tifo e di religione calcistica.
Alla fine la Juventus vinse 3 a 1, e ritornammo a casa soddisfatti e felici, e non mancammo di ringraziare il nostro amico sacerdote, che riuscì a trasformare una brutta domenica in un ricordo bellissimo. 

Però la mia felicità non durò molto. A giugno di quello stesso anno, per motivi famigliari, mi trasferii in Liguria, dove ripresi gli studi e trovai una squadra di calcio nel ponente ligure savonese. La prima squadra giocava in serie D, erano semiprofessionisti, poiché allora c'erano serie A e B, professionisti e serie C e D, semiprofessionisti, dopo c'erano solo dilettanti, dalla promozione alla terza categoria. All'età di diciotto anni, la nostra squadra partecipò al campionato Berretti, uno dei più stimolanti campionati calcistici giovanili. Nel nostro stesso girone c'erano: Torino, Genoa, Sampdoria, Imperia, Astimacobì, Albese, Acqui, Savona ecc.
La prima partita, in un acquitrino, giocammo contro il Genoa, e chi ci fece due gol era uno che quell'anno stesso esordì in serie B. Quasi alla fine del girone di ritorno, ospitammo la Sampdoria, che all'andata ci aveva castigato con un secco 3 a 0, partita giocata a Rapallo. E di quella partita mi ricordo che chi mi marcava, era un terzino che giocò quell'anno diverse partite in serie A. Infatti non era lui a marcare me, ma io a rincorrerlo senza prendere nè lui nè la palla.
Ma quando ci ritrovammo ad Albenga, le cose cambiarono e ci batterono lo stesso 2 a 1, ma stavolta avremmo meritato di più noi, e la differenza tra me e lui si era accorciata parecchio, frutto di esperienza e allenamento. 

E quando imboccai il sottopassaggio che immetteva negli spogliatoi, ebbi la visione. Era proprio lui! Si, Luisito Suarez era al seguito della squadra, e gli passai di fianco, ma non ebbi il coraggio di parlargli, perché a quei tempi, non ci era permesso parlare ad allenatori e dirigenti delle altre squadre. Mi rimase però il piacevole ricordo di averlo rivisto, seppure egli non mi avesse nemmeno degnato di uno sguardo, ma aveva ragione, ero un nessuno.

Quell'anno la prima squadra retrocedette nel campionato di promozione, giocai un paio di spezzoni di partite, ma non ebbi maggior fortuna. L'anno dopo entrai in prima squadra, con la voglia di riscattarci e di tornare nei semiprofessionisti. E durante l'estate, ospitammo in una partita amichevole serale il Genoa, che schierava Lonardi, Maggioni (ex Roma), Bergamaschi, noto per la tripletta rifilata al Milan in un Verona Milan 5 a 3 che costò lo scudetto ai rossoneri a vantaggio della Juventus.
Poi c'era Gregori, ex Bologna, ed infine un altro che vidi in quella partita di Marassi: Mario Corso. Fece anche lui parte della grande Inter che vinse le Coppe Campioni nel !964 e 1965, ed era finito al Genoa, a fine carriera. Fu l'ultima partita che giocò, dopodiché la partita dopo si infortunò e appese le scarpe al chiodo. Di quella partita ricordo che fino al quarantesimo del primo tempo vincevamo 1 a 0. E tutto nacque da un unico corner, che io ero specialista nel batterli. Non sapevo cosa fare, in mezzo erano alti, dietro erano ben messi, davanti al portiere, ben coperti. Mi venne un'idea, cercai di fregarli e tirari forte in mezzo ai due centrali. Ci cascarono, infatti si scontrarono e la palla rimase lì, davanti al portiere. Il nostro centravani se la trovò sul piede e scaricò sotto l'incrocio. Ed era anche tifoso genoano, per lui fu un'apoteosi.
Verso fine primo tempo, ci fecero gol e andammo al riposo sul pareggio.
Nel secondo tempo ci fecero altri tre gol, ma la serata fu lo stesso magnifca e l'allenatore genoano, Vincenzi, a fine partita mi fece i complimenti.  In promozione rimanemmo tre anni, ed al terzo anno giocammo lo spareggio per accedere in serie D.
E la partita decisiva la giocammo a Marassi. L'altra squadra era la Levante Assicurazioni di Genova, e tra le file, guarda caso ritrovai il terzo soggetto che incontravo dopo anni: Fotia. Era a fine carriera, e passò direttamente dalla Srie A ai dilettanti, scontando un periodo sabbatico di un anno, come da regolamento (barbaro) in questi casi.
Era nella stessa fascia di mia competenza, ma lo marcava un mio compagno che giocava terzino, e in quanto ad esperienza non era da meno di Fotia. Io transitavo più avanti, ed ebbi l'onore di procurarmi la punizione che portò al definitivo 3 a 2, a pochi minuti dal termine, regalandoci la promozione agognata. 

Avevo chiuso il cerchio, avevo rivisto giocatori importanti, campioni e non, probabilmente chiusi anche il mio cerchio con il calcio importante. L'anno dopo fui mandato in prestito  in una squadra di promozione, poi il lavoro, la vita, la famiglia che cresceva, mi ridussero in campetti di seconda e prima categoria, dove facevo la differenza, ma non raccoglievo le stesse soddisfazioni. Mi rimane il bellissimo ricordo di grandi giocatori che avevo incontrato e visto giocare da vicino, come Chico Locatelli, centrocampista ex Genoa, Paolone Barison, nazionale azzurro, morto poi nella nostra autostrada in un incidente d'auto con alla guida Radice, allenatore del Torino, salvo per miracolo. Tutti costoro mi hanno fatto capire cosa c'è dietro al calcio dei campioni, la tecnica, il fisico, ma soprattutto una mentalità difficile da acquisire senza la giusta predisposizione e la frequentazione di ambienti tecnici di grande livello.

Negli anni successivi, ho provato a trasmettere queste conoscenze ai giovani, ma non ero nelle strutture adatte per avere giovani di qualità tale da comprendere queste regole basilari.
Se non hai i purosangue, anche gli asini corrono, ma sono sempre asini!