Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluk...
Cantava così Adriano Celentano proprio ai tempi in cui si svolgeva la storia della mia infanzia, avente molte analogie con quella raccontata nella canzone, che adesso vi narrerò.

Quell’inverno del millenovecentotrentanove fu presagio di brutti e pericolosi tempi per tutti. Spiravano impetuosi venti di guerra che allarmavano non poco l’intera popolazione.
In quei giorni mio nonno paterno di circa quarant’anni, reduce della I Guerra Mondiale e attivista dei moti del 1921, molto previdente grazie alla sua esperienza, era molto preoccupato per la situazione. Dopo una lunga riflessione decise, dopo essersi consultato con la nonna, nel gennaio 1939, ad investire una modica somma, comunque per lui importante, per l’acquisto di un piccolo appezzamento di terreno agricolo, nell’ aperta campagna del circondario di Torino, verso sud-ovest. Accorto come sempre, lo acquistò con l’intenzione di organizzare un orto in cui coltivare verdure in tempo di guerra, un cosiddetto “orto di guerra”, e così fece. Quell’orto era irrigato da un canale, pertanto diede una buona produzione di ortaggi che contribuì a sfamare la mia famiglia per tutto il periodo bellico e i difficili anni della ripresa.

Quando finalmente il conflitto mondiale passò, vennero gli anni della ricostruzione e con questi la possibilità di edificare proprio sugli orti di guerra, cosa che nel 1956 mio nonno puntualmente fece, costruendo una casetta ancora in mezzo alla profonda campagna nelle vicinanze di alcune cascine, fra cui la cascina Belarde, attuale Cascina Roccafranca, la Tenuta  Ceresole, con le Cascine Anselmetti e del Conte di Roccafranca, poste lungo la Strada Antica di Grugliasco. Ai tempi questo sentiero costituiva un tratto della strada del sale che partiva dal mare della Liguria per percorrere tutto il Piemonte ed arrivare in Francia, permettendo il trasporto del sale utile per la conservazione dei cibi. Che la Strada antica di Grugliasco fosse in realtà la strada del sale, lo appresi tempo dopo da un contadino, di nome Giovanni, che conosceva tutte le storie popolari della zona, fra cui, appunto quella della strada del sale.
Dopo solo un anno dalla costruzione della casetta, nel 1957 nacqui io, e là fui portato in fasce fra le feste dei miei famigliari.
Il mio lettino fu posto nella stanza dei miei genitori sul lato della strada del sale, così che fin da piccolo potevo ascoltare i rumori del quartiere. Uno in particolare mi faceva paura: gli ululati dei cani da pastore che salutavano la luna nelle notti di plenilunio in primavera. Quei suoni, un po' lugubri, mi terrorizzavano: mi immaginavo circondato dai lupi, al punto da tremare tutto senza nessuno se ne accorgesse e venisse in mio aiuto.
In pieno inverno udii i cavalli trascinare gli spartineve dopo abbondanti nevicate, in un frastuono di catene; l’estate successiva mia madre mi fece osservare quelle rudimentali attrezzature al fondo della via, vicino ad una cascina che anni dopo fu demolita.
Nelle notti silenziose spesso mi svegliava il fischio dei treni alla stazione del Lingotto che salutavano Torino per mettersi  in viaggio verso la Liguria. Quel suono era piacevole, un vero e proprio saluto di chi partiva.

Quando crebbi incominciai ad andare a scuola. Le mattine d’inverno mia madre mi imbacuccava bene, perché assieme dovevamo coprire al freddo di allora una notevole distanza dalla mia casetta alla scuola che si trovava a circa un chilometro di distanza, attraversando una campagna ricoperta di brina tanto da sembrare fosse nevicato. Ma il percorso non era del tutto negativo perché durante il tragitto potevo assaporare l’aroma del latte appena munto e il profumo del formaggio fresco, preparato dai contadini, che qualche volta a mezzogiorno ritrovavo sulla nostra tavola.
La vita nella casetta in campagna era semplice, in particolare d’estate quando io tenevo compagnia alla nonna al mattino, mentre lei accudiva il giardino dove fiorivano moltissimi fiori dai mille colori, di cui lei era molto fiera.

Un giorno, però, la sfortuna ci mise lo zampino e ci fu l’invasione di una mandria di maiali nel giardino ben curato di mia nonna, la quale, uscita sul balcone, vide una scrofa far colazione con una sua magnifica bocca di leone, provocando urla di raccapriccio della povera nonna che, ricordo ancora adesso, si mise subito alla ricerca dell’autore della dimenticanza del cancello carraio in apertura, varco in cui si erano infilati i maiali.
Un altro episodio per me divertente, erano le scorribande dei ragazzi della zona del frutteto di cui mio nonno andava fiero, posto nel giardino della casetta. Di notte si sentivano le voci dei ragazzi, ma i miei nonni non scesero mai a sgridarli, comprendendo la ragazzata, condotta a suo tempo anche dal loro figlio, mio padre, al paese d’origine.

In primavera accadeva il primo grande avvenimento dell’anno. La mia casetta era vicino al Gerbido, frazione di Grugliasco. Le diverse borgate di Grugliasco si ritrovavano alla sera presso la piazza del Gerbido a lato della Chiesa dello Spirito Santo e da lì iniziava la processione notturna in onore di San Rocco per le vie del "Gerbo": la strada del sale, anche se nessuno la chiamava così, e quelle vicine. Per l’occasione  tutte le facciate delle case venivano ripulite ed abbellite o con candide lenzuola ricamate o tappeti appesi ai balconi o con lumini colorati posti sui davanzali per onorare il passaggio del Santo portato a spalle dagli uomini del quartiere.
In quei giorni si svolgeva anche la festa patronale del Gerbido, per la quale veniva installata una pesca di beneficienza organizzata dal Parroco che, avendo a disposizione pochi fondi, per attirare la gente a comperare i biglietti della lotteria, metteva in palio come primo premio un bellissimo frigorifero. “Destino” voleva che il numero corrispondente al frigorifero non venisse mai estratto, ma si trovasse sempre tra i numeri invenduti. La “Provvidenza”, invocata dal Parroco, funzionò per parecchi anni finché il prelato dovette osservare dei segni di vecchiaia sul frigo e si rassegnò a farlo vincere a qualche parrocchiano meritevole.

Ma lo spettacolo grandioso di ogni anno era la transumanza, quando tutte le fattorie della zona invadevano nottetempo le strade con i loro animali, pecore o mucche, per intraprendere la via che li avrebbe portati ai pascoli alpini. Era un trambusto incredibile con mucche che muggivano, cani che abbaiavano per condurre il gregge. Una notte incuriosito e un po' spaventato chiamai mia madre che mi spiegò cosa stava succedendo, ma pose il divieto ad uscire per vedere da vicino, con la promessa che il giorno dopo mio padre mi avrebbe accompagnato in una zona circostante alla mandria in movimento.
Ricordo la mattina seguente: mi svegliai piu presto del solito destato dal suono dei campanacci delle mucche e dall’abbaiare dei cani. Mio padre accondiscese la mia richiesta di fare presto e poco dopo ci trovammo in strada in una confusione indescrivibile e in un polverone che ci spinse a proteggerci il volto con un fazzoletto come un cow-boy. L’atmosfera era caotica, ma festosa, tutto sembrava quasi una giostra ma non lo era. C’erano persino dei pastori a cavallo che incitavano le bestie ad avanzare con urla e schiocchi di fruste sopra le loro groppe. Io, bambino curioso, riempivo di domande mio padre spesso mettendolo in difficoltà.
Quando vidi due piccole mucche esclamai: “Guarda papà, due mucche-pony come quelli del circo!” Mio padre rise di gusto, poi mi spiegò: “Non sono pony, sono cuccioli di mucca e si chiamano vitelli!”.
Nel nostro girovagare incontrammo un pastore che vicino ad un muro stava mungendo una magnifica mucca Frisona. Questi, ascoltate le mie domande incalzanti, si intromise  sicuro rivolgendosi a mio padre: “Se permettete potrò rispondere io alle domande del piccolo. Datemi solo il tempo per finire di mungere". Mio padre acconsentì con evidente sollievo e ci sedemmo su due pietre aspettando che il pastore finisse il suo lavoro.
Quando il mandriano terminò la mungitura, tolse il secchio da sotto la pancia della Frisona, le diede una gran pacca su una coscia e questa se ne andò nel gregge. Io fissavo il secchiello con il latte, ed il pastore mi chiese: “Vuoi assaggiarlo? E’ buono sai?” Prese un mestolo, lo intinse nel secchio e me lo offrì, dicendo: “L’hai già bevuto il latte appena munto? E' ancora caldo!”.
Il latte era ancora tiepido, dolcissimo e buonissimo, bevvi il mestolo di un fiato per la prima volta in vita mia. Il pastore me ne diede un altro e uno più grosso a mio padre e tutti e due ci dissetammo con il buon latte appena munto.
“Devi sapere, piccolo – incominciò l’uomo appena si liberò dei finimenti della mucca -  che quello che stai vedendo è la transumanza (dal latino “trans” , al di là e “humus” , terra): un lavoro necessario a trasportare gli animali dalla pianura, dove d’estate fa caldo e si alimentano di frumento, cioè fieno secco, alla montagna dove il clima è piu fresco, e le mucche possono alimentarsi meglio con l’erba fresca di montagna e producono un latte migliore.
Questo è anche un momento di festa per celebrare le antiche usanze e tradizioni dei pastori piemontesi. Nessuno può contare gli anni da quando viene fatta la transumanza, alcuni dicono fino al Medioevo, cioè più di mille anni fa, altri dicono addirittura dalla preistoria".
“Ma dove le portate?” chiese mio padre incuriosito anche lui.
Il pastore ci spiegò che la loro meta erano pascoli in montagna distanti circa 140Km; per arrivarci avrebbero impiegato parecchi giorni, considerando tutte le difficoltà del viaggio.
“E poi - aggiunse mio padre - chissà che mulattiere dovrete affrontare per salire”.
“In questo vi sbagliate, signore, le vie naturali che seguiremo si chiamano tratturi, sentieri erbosi, pietrosi o in terra battuta di grande ampiezza, ricavati nei secoli dal passaggio delle greggi. Lungo queste vie, immerse nel paesaggio, si trovano i simboli delle nostre tradizioni, manufatti religiosi e scaramantici come le strutture di sosta e i luoghi di culto, costruiti nel tempo da noi pastori".
“Chissà che fatica, a piedi, su per quei sentieri,” interloquii.
“Oh no! Non del tutto a piedi: per lunghi tratti, ove possibile, caricheremo le vacche sui carri trainati dai trattori. Solo noi pastori andremo a piedi o a cavallo".
A quel punto si era fatto mezzogiorno, così mio padre decise di tornare per il pranzo, il mandriano montò sul suo cavallo ed andò a dare una mano ai suoi amici che da tempo sudavano a condurre le mucche e le pecore.
A pranzo raccontammo tutto alla mamma che si incuriosì molto, ma quando, con l’ultimo boccone in gola feci per alzarmi e uscire, mia madre me lo vietò e mi disse dolcemente:
“Quegli uomini là fuori stanno lavorando, non puoi fargli perdere tempo, adesso sai già quasi tutto.”
“Ascolta - aggiunse mio padre – quando le ultime mucche se ne andranno, andremo a salutarli”.
Nel pomeriggio però, mi fu concesso di aiutare la mamma a distribuire delle bevande  a quegli uomini, assetati dalla povere, ma non mi fu permesso di fare domande.
Le ore passarono lente, il sole continuava ad essere alto nel cielo e le mucche a passare davanti alla mia finestra  da cui non mi muovevo. Verso sera notai che le mucche si diradavano ed io e mio padre uscimmo anche per vedere un meraviglioso tramonto. Il sole stava calando dietro le montagne infuocando delle nubi all’orizzonte. Tutto il cielo divenne rosso porpora e la luce si abbassò fino al crepuscolo quando arrivò su un carro il mandriano di quella mattina, che mi chiese: “Allora giovanotto, hai visto quante mucche? Le hai contate?”
Mi vergognai un po' dicendo di no.
“Non importa, le ho contate io per te – sono 647 piu 9 vitelli”. Non vedevo piu il suo volto, ma udivo la sua voce, stupito per quello che mi aveva appena detto.
Rivolgendosi a mio padre: “Prenda qualche bottiglia di latte fresco, a colazione è ottimo!”
“Ma no, perché si è disturbato?”
“Bevete alla nostra salute come noi abbiamo bevuto alla vostra. Adesso arrivederci a ottobre, fai buone vacanze giovanotto. Ciao!”
E con quel saluto fece scoccare le redini ed il carro scattò in avanti.
“Adesso dove le portate a dormire?” chiesi quasi urlando.
“Non ti preoccupare tra non molto ci fermeremo! Ci sono i carri che ci aspettano. Ciao!”
Rimasi a fissare il carro con un puntino luminoso in coda, la lanterna di segnalazione, che aveva preso una leggera oscillazione. Sentivo un groppo in gola vedendo il lumino farsi sempre più piccolo, quando il mandriano si alzò in piedi sul carro per un ultimo saluto con la mano prima di scomparire ad una svolta. Da quel momento scese la notte con il suo silenzio e la mamma asciugò i miei lacrimoni dell’addio.
“Non ti preoccupare – disse la mamma – a settembre li rivedremo tutti, mucche e mandriani”. Lo disse guardando mio padre negli occhi con uno strano sguardo.
Poi tutti e tre recitammo una preghiera per i pastori affinché la loro estate trascorresse senza incidenti.
Il giorno dopo il papà andò al lavoro ed io restai a casa ad aiutare la mamma ed a fare i compiti per le vacanze.

Giorni dopo mia madre ed io percorrevamo un sentiero che conduceva alla borgata del Gerbido, e notammo in lontananza un gruppo di uomini indaffarati a prendere delle misure molto ampie con una attrezzatura che mia madre mi disse chiamarsi teodolite e stadia.
La mamma, figlia di un capomastro, mi guardò e sospirò, poi mi disse: “Credo che questo pezzo di paradiso stia per cambiare. Presto qui costruiranno delle case”.

Non si sbagliava, dopo gli uomini vennero le ruspe a scavare enormi fossati nel terreno dove poi, a poco a poco sorsero le fondamenta di grosse case. L’enorme quartiere si allargava sui bellissimi prati su cui correvo felice da bambino, perfino scalzo.
Per costruire le case furono installati dei ponteggi metallici che facevano da schermo alle onde televisive, così che noi, nella nostra casetta non potevamo più vedere la TV che un Natale i miei genitori acquistarono. Fu una grande seccatura non vedere più la TV, fino a quando mesi dopo non furono smontate le impalcature, una volta finite le case.
Nel giro di un paio d’anni il quartiere si trasformò completamente, mettendoci a disposizione molte comodità: strade, negozi, servizi, ma inevitabilmente scomparvero prati, alberi e canali di irrigazione, tutto il nostro, come l’aveva chiamato mia madre, piccolo paradiso.
Ormai a scuola andavo da solo, anche perché ne avevano costruita una nuova non molto distante, e così la mia infanzia, legata a quei prati, al freddo e alla rugiada invernali, finì per sempre fagocitata dalla città che aveva avanzato a spese della campagna.
La strada del sale? Finalmente nota e abbastanza conosciuta come tale, ma accuratamente asfaltata.