Offuscate tutte le stelle perché non le vuole più nessuno; buttate via la luna, tirate giù il sole; svuotate gli oceani e abbattete gli alberi, perché da questo momento niente servirà più a niente 
Wystan Hugh Auden

O Rei se n’è andato. Dio è morto!

Sì, lo so: queste mie righe saranno sicuramente le ennesime ad essere scritte in queste ore; e, scrivendo di lui, certamente non strizzo l’occhio alla redazione di VXL e alla legittima Sua ricerca di originalità. Pazienza, prenderò un voto basso.
E sia, risulterò ridondante, ripetitivo, scontato. E certo, i quattro gatti che solitamente leggono le mie riflessioni si ridurranno a un paio di disperati internauti annoiati, che “apriranno” l’articolo e lo chiuderanno dopo averne letto meno della metà, magari sbuffando anche.
Lo so. Ma non posso farci niente, è più forte di me, non posso esimermi. Non posso. Sarebbe come tradire l’amore della mia vita sin da quando ero bambino, sarebbe disconoscere l’autentica mia passione verso il pallone e il suo interprete sublime, sarebbe sconfessare l’incrollabile mia fede verso la religione delle religioni. 
Lo scrittore statunitense Michael Connelly sostiene che è “meglio scrivere per se stessi, e non avere pubblico, che scrivere per il pubblico e non avere sé stessi”. E forse ha ragione, non lo so. So però che questo pezzo, e me ne scuso, lo scrivo per me stesso.

Scrivere di Pelé …
Scrivere di Pelé non vuol dire raccontarne solo le gesta, i numeri, le squadre, le mirabolanti azioni palla al piede. Almeno non per me. Vuol dire scrivere del calcio e di ciò che questo sport rappresenta per chi, come me, da sempre lo guarda, lo vive, lo respira, ne soffre, ne gioisce. Ne scrive.
Per Gianni Brera: "Il calcio è straordinario proprio perché non è mai fatto di sole pedate. Chi ne delira va compreso, non compatito; e va magari invidiato”. Come non scrivere di chi, quelle pedate, le ha rese più leggendarie d’una pennellata di Raffaello? Come non scrivere di chi, più d’ogni altra divinità del pallone, ci ha fatto delirare? Come non scrivere del profeta del calcio? 
La religione delle religioni, sì. E non vuol esserci nulla di blasfemo in questa mia definizione del calcio, così come non c’è violazione di alcun comandamento nel venerare il suo Dio più grande. Il miracolo delle emozioni, la liturgia della passione, la fede incondizionata in una squadra, le divinità d’un Olimpo che prodigiosamente rinnova sempre i suoi Dei e un Dio che rimane per sempre più potente degli altri.
Scrivere di Pelé vuol dire scrivere di veri miracoli, compiuti sul rettangolo verde (e non solo), sotto gli occhi di migliaia e migliaia di testimoni, estasiati al cospetto di chi sapeva prendere a “pedate” una sfera generando portenti.

Il miracolo di una rovesciata che, secondo l’ortodossia dell’industria hollywoodiana, avrebbe dovuto ripetersi innumerevoli volte fino all’esecuzione giusta, ma che venne eseguita una sola volta, raggiungendo subito quella perfezione che l’artifizio d'innumerevoli ciak ricercava.
Il miracolo dell’aria: un Dio travestito da uomo, che si leva da terra, resta sospeso nell’aria contro ogni logica di quella forza chiamata gravità, a cui Burgnich invece si arrende, mentre la nera creatura volante incorna e mette alle spalle di Albertosi.
"È fatto di carne ed ossa come tutti gli altri, mi dicevo prima di quella partita. Sbagliavo" (cit. Tarcisio Burgnich).
Il miracolo del tunnel, il gesto calcistico più irridente, lo sberleffo di un Dio che dall’alto dei suoi arti inferiori scherza con gli umani e li sottomette. 
Il miracolo del destino. Nomen omen, il suo vero nome è Edson. Lui nacque lo stesso anno in cui nella sua città natale arriva l’elettricità e i suoi genitori vollero così omaggiare l’inventore della lampadina, Edison: non sapevano, non potevano sapere, che proprio la lampadina sarebbe diventata simbolo nel mondo di genialità; non sapevano, non potevamo sapere, che loro figlio sarebbe diventato per il mondo intero il Genio del pallone.
Il miracolo della premonizione. Un bambino di nove anni non può neanche immaginare di diventare, un giorno, o Rei, il Dio del calcio chiamato col nome storpiato di un portiere. Eppure, quel bambino, per consolare il suo papà gemente, gli dice: “Vincerò un mondiale per te”. Era la sera del 16 luglio 1950, era la sera del Maracanazo.
Il miracolo del DNA, di un talento che si tramanda di padre in figlio. Il miracolo della ciclicità. João Ramos do Nascimento, detto Dondinho, è un forte attaccante e anche lui, padre del Dio dei gol, detiene un record: 5 gol di testa in una sola partita. La sua carriera però finisce anzitempo, quando il difensore Augusto lo azzoppa. Gli Dei del calcio assistono imperterriti, ma già sanno come castigare colui che ha rovinato la carriera al padre del loro prediletto: Augusto sarà il capitano della nazionale che visse il dramma del Maracanazo.
Il miracolo dell’unicità: non cercatene eredi, un Dio non è ha!
Il miracolo dell'essere “la regina d’Inghilterra”, cantava Venditti, in un mondiale, appunto quello inglese, nemmeno vinto ma giocato sotto luccicanti e ammaliati britisch ices.
Il miracolo dello specchio: lasciò tracce di memoria anche nel riflesso di ciò che non riuscì a fare. Giovanni Trapattoni è rimasto nella storia del calcio italiano (prima di diventare un grande allenatore) per aver fermato Pelé. Era il 12 maggio 1963 e allo stadio San Siro la nazionale di Edmondo Fabbri batte con un sonoro 3-0, in amichevole, i verdeoro campioni del mondo in carica. Il portiere inglese Gordon Banks eseguì la patata del secolo su colpo di testa di Pelé. Era il 7 giugno del 1970, erano i mondiali messicani.
Il miracolo di una maglia, venduta all’asta per circa 260mila euro (esattamente 157.750 sterline): è la maglia che Pelé indossò il 21 giugno del 1970 nella finale di coppa del mondo in Messico, finale vinta contro la nostra Italia; la maglia apparteneva al difensore azzurro “faccia d’angelo” Roberto Rosato, che la scambiò a fine partita con quella dell’asso brasiliano, difendendola, letteralmente a pugni, dalle mani avide dei tifosi che avevano invaso il campo. Fu venduta senza mai essere lavata, del resto un sudario non si lava. E il miracolo di Jimmy Mcalister, terzino del Seattle Sounders, a cui toccò l’ultima maglia di Pelé, quella verde dei Cosmos col numero 10 anche sul petto e l’allora avveniristico nome sulle spalle. Maglia che ancora oggi egli conserva, “intonsa” di sudore originale, in una cassetta di sicurezza d’una banca di Seattle e che ha rifiutato di vendere per 100mila dollari, sostenendo che “sarebbe un sacrilegio vendere un pezzo di storia, il simbolo dell’integrità del gioco”.
Il miracolo cosmico del Soccer, che negli Stati Uniti muove i primi passi, tra strani campi in sintetico con delle strane linee sulla trequarti, proprio grazie all’ingaggio di Pelé, fino all’affermazione del calcio americano odierno, che disputa mondiali senza sfigurare e ingaggia veri calciatori per l’MLS e l’NASL.
E il miracolo cosmico di vincere il titolo americano a 37 anni (che nello sport non sono i 37 anni di oggi).
Il miracolo dei 1281 gol in 1363 partite, 757 in 816 gare ufficiali (sono dati della FIFA). Il millesimo sigillo arrivò su rigore, la sera del 19 novembre del 1969, al Maracanà, in un Vasco De Gama-Santos, match della Taca de Prata (il torneo "Roberto Gomes Pedrosa"); ci vollero quasi 10 minuti prima di battere il penalty, tanti erano i fotografi e i tifosi che vollero appostarsi dietro la porta di Andrada, per non perdersi quel momento storico (a dire il vero, il millesimo gol era stato quello precedente, i calcoli erano sbagliati, ma non era affatto sbagliato il luogo e la maglia…quindi va bene così).

E il miracolo del gol mai visto, eppure tra i più belli della storia del calcio. La partita è del 2 agosto 1959, quando allo Stadio Rua Javari di San Paolo, campionato Paulista, il Santos affronta il Clube Atletico Juventus (squadra dalla “ossimorica” maglia granata). Il Santos sta già vincendo 3-0, quando Pelé riceve il pallone al limite dell'area di rigore; un primo dribbling con un tocco morbido, poi una serie di pallonetti, ben 4 chapeu sulle teste degli avversari, compreso il portiere, e infine l’insaccata di testa. Gol divino, miracolosamente ricostruito al computer con un'animazione, per volere del suo stesso autore.
E pure il miracolo del non gol più bello della storia, ricordato, raccontato, raffigurato, omaggiato come una prodezza calcistica sovrannaturale: o drible da vaca. Mexico ‘70, nella semifinale (già decisa) contro l’Uruguay, il Dio verdeoro aggira il portiere Mazurkiewicz senza nemmeno toccare il pallone e tira; la palla, calciata dal miope numero 10, rotola lentamente, sfiora il palo ed esce di poche “diottrie” (è proprio il caso di dirlo, visto che miope lo era per davvero). È la più grande azione di un giocatore sulla faccia della terra.
Il miracolo dei tre mondiali vinti (1958, 1962 e 1970). Miracolo!
Il miracolo delle lacrime, di un bambino di diciassette anni che prende per mano un intero popolo, le sue sofferenze, i suoi eccessi, i suoi colori, e lo porta per la prima volta sulla vetta del mondo. Le lacrime di un trentasettenne, che grida assieme a tutta l’America “Amore! Amore! Amore!”, mentre il suo grande, immenso amore svaniva tra le pieghe dell’anagrafe e due scarpini appesi a un chiodo.
Il miracolo del numero 10, che grazie a Pelé nel 1958 diventa il numero mistico del pallone (prima di allora un numero come gli altri). Proprio così. Edson Arantes do Nascimento arriva in Svezia che è un ragazzino noto in patria ma sconosciuto all’estero (allora non c’era You tube). Il caso volle che quel Brasile così ricco di talenti dimenticasse di comunicare i numeri ufficiali al momento dell’iscrizione al Mondiale. Un delegato uruguagio della FIFA, avvertito del disguido, buttò giù i numeri e poi andò a memoria, per compilare la lista nel più breve tempo possibile. Fu così che Gilmar, il portiere, si ritrovò la numero 3 sulle spalle, Garrincha l’11 e Didi, che con Pelè e Vava formò il favoloso tridente che asfaltò tutte le squadre, Svezia inclusa (in finale), giocò tutta la competizione con un anonimo numero 6 sulle spalle. Il giovane Pelè fu ricordato, e dunque “segnato”, per decimo e l’assegnazione della 10 avvenne in maniera automatica.
Il miracolo della povertà: fu scoperto quasi per caso da un ex calciatore del Santos e della nazionale brasiliana, Waldemar de Brito, mentre giocava una specie di torneo su un campo in terra battuta, nella squadra ribattezzata dei “senzascarpe”. Non avevano, lui e i suoi compagni, le scarpe, non avevano neanche gli occhi per piangere, non avevano niente, ma quel ragazzino smilzo e lercio, aveva un dono e, scalzo come il Santo che amava i poveri, predicò calcio allo stato puro. Così, de Brito lo convinse a fare un provino per il Santos.
Già, il Santos. Perché proprio il Santos? Perché scrivere di Pelé vuole dire scrivere del miracolo del mare. Il fenomeno poverissimo, proveniente dall’entroterra di Santos Três Corações, accettò quel provino, non tanto o non solo perché allettato dall’idea di giocare nell’importante squadra brasiliana, ma per vedere il mare per la prima volta nella sua stentatissima vita. Proprio così, il mare.
Il miracolo del Brasile dei neri. Il Brasile è l’ultimo paese ad abolire la schiavitù, nel 1888, ma non ha una società segregata (come negli States) e già nel 1933, quando il calcio brasiliano diventa professionistico, i neri ne sono parte integrante; anzi, è proprio grazie al calcio che si crea l’identità del mondo nero. È in questo particolare status, di “progressismo della povertà” (avrebbe detto Togliatti), che la figura di Pelé s’innesta come valvola di riscatto definitivo d’una intera razza.
Il miracolo della ginga, che riscatta le umili origini del calcio brasiliano, mostrando a tutti la sublimazione massima del gioco. Un calcio ‘bailado', tipico verdeoro, ma fino all'avvento di Pelè vissuto con un complesso di inferiorità, perché umile, povero. Non è un caso se la parola deriva dal gergo della capoeira, antica danza-lotta simulata, praticata dagli schiavi africani in Brasile, come forma di resistenza fisica e culturale al dominio dei portoghesi.
Il miracolo della pace, quando in Nigeria fermò per due giorni la guerra civile. Nel gennaio del 1969 Pelé e compagni intrapresero una tournee estiva nel Continente nero. L’itinerario comprese partite amichevoli in Congo, Nigeria, Mozambico, Ghana e Algeria. Pelé, all’epoca senza dubbio il miglior calciatore del globo, già due volte campione del mondo, è la vera attrazione per tutti coloro che affollano gli stadi africani. L’arrivo in Nigeria, a Lagos, è del 26 gennaio 1969; quello stesso pomeriggio Pelé e compagni hanno in programma un match contro le Aquile Verdi della nazionale nigeriana. La partita termina 2-2, doppietta di Pelé (neanche a dirlo). Lagos è pazza di lui. E si narra, appunto, che in quei due giorni di permanenza della squadra brasiliana, ci sia stato un “cessate il fuoco”, se non ufficiale, di fatto. Lo stesso calciatore anni dopo raccontò: “I nigeriani ci assicurarono che i Biafrans non avrebbero toccato Lagos mentre eravamo lì”.
Il miracolo dell’universalità: accolto in 88 nazioni e ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e tre Papi.

Ora è il cielo ad accoglierlo, quel cielo a cui il piccolo Dico alzava i suoi occhioni neri, sognando, immaginando, pregando.
“Un giorno giocheremo in Paradiso": lo disse alla morte di Diego Armando Maradona. Ora sì che gli angeli potranno scoprire se Maradona è meglio ‘e Pelé: discussioni infinite. Eterne! E sugli spalti, lo sguardo severo di mamma Celeste…

“Il più grande successo della mia vita non sono state le coppe o le medaglie, ma sapere di aver aiutato tanti ragazzi di strada che, guardandomi, hanno capito che lottando si può arrivare ovunque, perché nulla è impossibile se lo vuoi davvero”.
Pelé (1940-2022) …
il miracolo del dono...