Nascere in una grande città è un privilegio. Se la città è Torino, se ne osserva l'eleganza dei palazzi e delle strutture regali che ne dipingono la storia e la crescita sociale e politica che l'ha attraversata, rincorrendo atti eroici e risvolti mistici, con sguardi nelle zone popolari impresse  nel tessuto sociale dell'agglomerato urbano.

Le mie zone, sono il centro, nella fattispecie Porta Palazzo, e la periferia, Mirafiori. Porta Palazzo è una parte molto caotica della città, con il suo mercato immenso, uno dei più grandi d'Europa. Pensate, ci sono alcuni edifici adibiti unicamente ad un tipo di mercato alimentare o di altre merci. Ad esempio c'è quello  della carne, e dentro ci sono almeno cinquanta stands di macelleria, uno accanto all'altro. Oppure del pesce, ed anche qui una moltitudine di negozi con la stessa mercanzia in esposizione: pesci e molluschi! Ma ci sono anche i padiglioni dell'abbigliamento, con tessuti ed abiti in vendita. E tutto attorno, ci sono i banchi del mercato, e qui si possono contare centinaia di banchi che vendono frutta e verdura, ed altri tipi di alimentari come salumi e formaggi, non mancando pelletterie, utensili, ecc. E' una distesa veramente ampia di banchi in fila uno dietro l'altro ed anche opposti per centinaia di metri occupando un'area di oltre 50.000 metri quadrati. La sua caratteristica è sempre stata la facilità di comprare a buon prezzo ed anche avere merci di buona qualità. Mi ricordo che da bambino non mangiai mai un pezzo di carne che non fosse ottimo. Oltretutto il Fassone piemontese è un vanto della cucina regionale, al pari della Chianina in Toscana. Mia madre quando avevo già cinque anni, mi trascinava tra i banchi del mercato e nei padiglioni alimentari facendomi percorrere dei  kilometri tutti i giorni, caricandomi anche di spesa, con quelle reti allungabili che tenevano un mucchio di cose buone da mangiare, ma pesanti. Mi ricordo che quando andavamo nei banchi della frutta e della verdura, non ci fermavamo mai al primo banco, ma giravamo alla ricerca del prezzo che soddisfava le esigenze di mia madre, cresciuta in campagna e che aveva un buona conoscenza dei prodotti agricoli e soprattutto, un badget limitato con sette persone da sfamare. Tornavo a casa che avevo male alle braccia, perchè la "sporta" pesava, ma non mi lamentavo mai e tenevo duro fino alla soglia della nostra abitazione, su di un ballatoio al terzo piano di una casa isolata al limitare del "Balùn", altra zona particolare della città, più nota come il mercato delle pulci. Il Balùn viveva una sua dimensione diversa, molto più ovattata, e lo scorrere del tempo più lento, che spesso si fermava nella contemplazione dei mobili e delle anticaglie che venivano esibite da venditori ed antiquari di professione, che approfittavano dello spazio disponibile per uscire dai loro negozi e trovare clienti appositamente convenuti per fiutare affari e possibili colpi di fortuna, cercando oggetti probabilmente di valore, oppure accaparrarsi solo degli oggetti che potevano essere utili o di bella presenza nel salotto di casa. Mi trovai anche ad assistere ad aste improvvisate, dove venivano "battuti" dei pezzi in esposizione, con tanto di elogi sulla qualità, la storia e la ricchezza dell'oggetto all'incanto. 

Ed era in quel luogo così particolare e pieno di culture diverse che passai la mia infanzia, avendo anche la fortuna di vivere a cento metri dalla riva della Dora Riparea, fiume affluente del Po, con prati attorno e alberi secolari. Vicino passava anche la ferrovia, con la tratta Cirè- Lanzo. Vicino alla ferrovia c'era uno spiazzo, e lì ci riunivamo con compagni di scuola e altri ragazzi per giocare partite di calcio. Le porte erano o dei mattoni o le nostre giacche, che arrivavano a casa in condizioni penose, sporche e naturalmente oggetto di sgridate e punizioni da parte dei nostri genitori. Allora per placare gli animi, andavamo a catechismo, poichè dovevamo prepararci alla Prima Comunione e la Cresima, che allora si ricevevano nel medesimo giorno. E l'oratorio era l'altra scusa per giocare a calcio. Qui il campetto era piccolino, si giocava cinque contro cinque, ma siccome eravamo in tanti, il prete buttava dentro il pallone e decine di ragazzi si tuffavano nel mezzo di partite nelle quali non si sapeva chi giocava con chi e perchè si tirasse in quella porta. Poi squillava la campanella e tutti dentro, riuniti nei   saloni della parrocchia, dove il sacerdote ci educava ai rudimenti della religione. Tra di noi stinchi di santo non ce n'erano, e qualche volta, durante la partita,  scoppiava qualche zuffa, ma si ricomponeva tutto velocemente, e dopo ci si voleva bene più di prima. Ma oltre alle squadre di calcio si era formata un'altra squadra: quella dei chierichetti. E funzionava bene! pensate che la Domenica a messa eravamo almeno una ventina attorno all'altare, mentre ci prendevamo anche l'impegno di servire a turno  ad una messa settimanale, alle sei e trenta del mattino, ma che nessuno saltava,  seppure qualche volta ci addormentavamo sull'altare, rispondendo alle preghiere del sacerdote con gli occhi chiusi e la testa penzolante. Poi si correva a casa, e si partiva per la scuola. La squadra dei chierichetti era anche la squadra di calcio della parrocchia. Infatti partecipavamo a delle gite dove andavamo a trovare altri ragazzi di oratori di chiese e parrocchie di paesi limitrofi alla cintura torinese. Naturalmente, dopo la messa e le istruzioni religiose che ci impartivano, ci sfidavamo a calcio e vincevamo sempre. Eravamo forti, o forse gli altri troppo deboli. 

Quando arrivai in quinta elementare, la circoscrizione scolastica della mia zona decise di trasferirmi in un'altra scuola. La decisione era nata dalla costruzione di un nuovo edificio, situato a un chilometro e mezzo da casa mia, mentre la mia solita scuola era a trecento metri. La decisione fu presa considerando che io abitavo dall'altra parte della riva del fiume, e quindi di competenza della nuova scuola, che avremmo riempito di scolari per la prima volta. Fu molto spiacevole per me, perché perdevo in un colpo solo tutti i miei compagni di scuola e perdevo anche il mio maestro, al quale ero affezionato, e seppi che anche lui fu dispiaciuto della nostra separazione. Io non sapevo neanche dov'era la scuola, ed allora la prima mattina, mia sorella che aveva undici anni più di me, prima di andare a lavorare, mi prese per mano e mi portò fino alla scuola nuova, dopodiché mi salutò e mi disse. "Ora la strada la conosci, ci vediamo a casa". Naturalmente tutto a piedi, e nessuno che mi veniva a prendere, così arrivavo a casa più tardi ed affamato, perché la merenda non me la comprava nessuno, soldi non ce n'erano!  Ma il destino si era accanito ulteriormente contro di me. Leggevo spesso di libri dove bambini formavano squadre con la loro scuola e vivevano campionati dove vincevano, anche se tutto condito da situazioni avventurose e piene di fantasia creativa. La notte sognavo questi tornei, con me che segnavo tanti gol, come facevo con la squadra dell'oratorio. Ed alcuni di questi ragazzi erano anche miei compagni di scuola, in quella precedente. E così dopo qualche mese, seppi che avevano formato la squadra della scuola da dove provenivo, con una selezione da parte di un maestro molto impegnato nella competizione e che avevano incominciato a fare amichevoli. Me lo disse un mio ex compagno durante una partita all'oratorio. Ci rimasi molto male, e chiesi se potevo essere considerato in una eventuale convocazione nella squadra, tenendo presente che la nuova scuola era una succursale della vecchia, e quindi ne potevo fare parte di diritto. Non ebbi risposta, ed anzi avevo la sensazione che nessuno avesse parlato di me al maestro allenatore. Forse c'era qualche invidia, ed avevano formato il loro gruppo. Eppure di me non si parlava come di un "brocco" , tanto che nelle partite che volevano vincere all'oratorio mi chiamavano; e di corsa! Le notizie mi arrivavano, la squadra andava bene, ed erano alle finali. Alla fine arrivarono secondi. Almeno la soddisfazione di vincere non l'avevano avuta. Ben gli stava! Ma io ebbi altre soddisfazioni, e fu quella di ricevere il premio di migliore alunno della scuola, ma per proftto scolastico, e non per meriti sportivi! Visto che non c'era molta competizione, non era neanche un gran risultato. Io volevo vincere a calcio!

Qualche anno dopo mi trasferii a Mirafiori, una zona nota per la presenza dello stabilimento Mirafiori della Fiat. Avevo quattrodici anni, giocavo in una squadra di un paese vicino, e la mia fortuna fu che per raggiungere il luogo del ritrovo non dovevo più fare mezz'ora di tram, ma recarmici a piedi perchè era a solo duecento metri dalla nuova abitazione. Avevo lasciato il centro, ma non mi sentii dispiaciuto. La zona era più signorile, ed avevo davanti a me un grande campo di calcio, dove giocava la società appartenente all'oratorio Agnelli, molto vicino a casa mia. Il nuovo oratorio era più grande, con tre campi di calcio da nove giocatori, alcuni campi da basket, e persino un campetto da tennis in cemento. Nella via dove abitavo, formammo una piccoa squadra per partecipare ai tornei dell'oratorio. Non eravamo male, ma io ero il più forte, perché ero l'unico che giocava nei campionati FIGC giovanili della mia squadra di appartenenza, mentre alcuni dei miei amici non avevano le basi che si hanno giocando del calcio vero, dove ti misuri contro le migliori squadre della città, compreso le giovanili di Torino e Juventus.  Qualche torneo lo vincevamo, ma quando l'oratorio presentava la squadra dei giocatori dell'Agnelli, squadra che partecipava ai campionati FIGC, e con ragazzi abituati al calcio che praticavo io, non si vinceva. Eppure gli rendevamo lo stesso la vita difficile, tanto che a volte si appellavano sulla regolarità o meno della mia presenza nel torneo. Sportività di bassa lega! Ma qui vissi una delle più belle situazioni calcistiche della mia gioventù. Durante la settimana, si radunavano nel campetto di cemento dei ragazzi, i quali avevano una caratteristica comune: giocavano tutti in diverse squadre giovanili della città, compreso Juve e Toro. Non vi dico la qualità del gioco che si esprimeva. Ed io riuscii ad entrare nel gruppo, dove mi districai bene, ma dove non potevo eccellere, essendo gli altri molto più forti di me. Le partite erano giocate bene, con fair play, e grande sviluppo tecnico e tattico. Fu una scuola calcio improvvisata che mi sarebbe servita. E se anni prima avevo perso un torneo da ragazzi di fantasia, tra scolari, ora mi divertivo a giocare delle amichevoli con ragazzi veramente forti. Con alcuni di loro strinsi pure amicizia, e tra questi il capitano della squadra giovanissimi della Juventus, un gran bravo ragazzo, che si comportava con umiltà e simpatia. Avevo sedici anni, e mi sentivo forte e sicuro, ma a scuola non andai bene e, dopo qualche mese me ne andai dalla mia città per finire in un'altra regione, ma questa è una storia che racconterò in seguito. Ma un'ultima storia la voglio raccontare. Una domenica eravamo all'oratorio, ed eravamo  circa una mezza dozzina di ragazzi, non sapevamo che fare. Allora venne verso di noi un sacerdote, ci contò e ci disse: "Venite  con me!" Lo seguimmo, uscendo dall'oratorio e dirigendoci allo stadio Comunale, distante poco più di un chilometro. Arrivammo all'ingresso della tribuna laterale, e lui con fare distinto disse:"Oratorio Agnelli!" Ed entrammo tutti a vedere la partita. Si giocava Juventus Sampdoria e vidi all'opera dei giocatori straordinari, tra i quali Luisito Suarez, grande centrocampista dell'Inter delle due coppe dei Campioni. Giocava nella Sampdoria, e in uno stadio senza tifosi blucerchiati, fece un lancio capolavoro di sessanta metri. Ci alzammo tutti ad applaudire, perché i campioni sono di un'altra razza, e vanno osannati! Quel lancio arrivò ad un certo Fotìa, giocatore piccolo ma scattante, e mai avrei immaginato di giocarci contro qualche anno dopo, ma anche questa è un'altra storia che vi racconterò in seguito! Saluti.