Nella mia carriera scolastica, l’anno che più mi ha segnato è stato di sicuro quella in cui frequentai la terza liceo. L’anno della slandra, come lo chiamò mio padre al termine di quell’annata. L’anno del non aver voglia di fare nulla. Una definizione più che corretta, che descrive esattamente quanto in quell’anno il sottoscritto non ebbe mai la voglia di impegnarsi. Un anno fortunato, se vogliamo vederla così. Alla fine me la cavai con “solo" due debiti, latino e psicologia, gli unici della mia carriera scolastica fortunatamente. Un’esperienza che successivamente evitai, forse spronato dal fatto di non voler più passare un’altra estate a studiare per gli esami di recupero, ma soprattutto motivato da un altro fattore. Se infatti quell’anno fu assai faticoso dal punto di vista scolastico, non lo fu per nulla da quello sportivo. E non lo fu perché a insegnarmi ci fu non solo un grande allenatore, ma quello che considero un umile maestro di vita. Al termine di quella stagione vincemmo il titolo provinciale, ma prima di salutarci per l’inizio dell’estate, coach Daniele mi volle parlare in privato. “Quali sono le partite più importanti?” mi chiese. Una domanda che spesso rivolgeva all’intero gruppo e di cui conoscevo benissimo la risposta. “Tutte e nessuna!”. Così gli risposi sorridente. “E allora perché hai deciso di impegnarti solo alla fine dell’anno, testa vuota?!”. Ancora oggi non so come venne a sapere dei miei debiti scolastici, ma sta di fatto che compresi immediatamente la lezione.  

Ogni partita è una finale. E’ una frase che si sente spesso al giorno d’oggi, all’interno delle sale stampa. Il sottoscritto la imparò a memoria ai tempi del basket adolescenziale, sotto l’egida di un coach burbero e irritabile. Un allenatore che non permetteva i cali di concentrazione, che accettava la sconfitta solo quando era l’avversario a conquistarla, perché più forte. Ma soprattutto, uno che non faceva distinguo tra partite facili o partite semplici, scontri diretti o confronti inutili. Ogni partita era una partita, per lui. E sebbene queste possano sembrare mere parole retoriche, in realtà furono di grande ispirazione, dentro e fuori dal campo. Parole che come minimo contribuirono a farci crescere come giocatori e, sì, anche a farci portare a casa qualche titolo provinciale giovanile. A ripensarci, mi viene male nel vedere come il Milan degli ultimi anni non abbia seguito una simile logica sportiva. Preparare al meglio gli scontri di cartello, dimenticandosi che oltre i tre quarti di campionato è segnato da partite con club provinciali, pur sempre pericolosi, ma decisamente più alla portata. Un morbo, più che una semplice mala gestione, che l’hanno scorso portò il club rossonero a mettere in difficoltà più o meno tutte le grandi, per poi perdere punti su campi cosiddetti semplici. Affezione ripetutasi anche quest’anno, con l’aggravante però di non aver fatto risultato nemmeno contro le dirette concorrenti. Ed ecco dunque il Milan avvicinarsi alla partita di cartello per antonomasia, il Derby della Madonnina, in una situazione a dir poco difficile. Scontro arduo già per definizione, quello di stasera sarà gravato dal fatto che sarà decisivo in tutti i sensi. Se si vince, il sogno di stare aggrappati al sogno Champions a passo di lumaca continuerà a permanere. Se si perde, molto probabilmente, sarà la fine di questa impensabile rincorsa, nata proprio con l’arrivo del tiranno svedese, l’esperto che l’anno scorso un certo Gattuso aveva tanto richiesto, senza mai essere ascoltato. 

Una partita che potrà insomma essere immensa delizia o devastante croce di questo campionato, già travagliato per altro da un’illogica preparazione. Per questo il Milan non può essere considerato legittima pretendente alle posizioni che contano, non ancora almeno. Non ancora. Non può perché è ancora una squadra che vive alla giornata, ma soprattutto che non accetta di essere oramai decaduta da diversi anni. Gattuso l’anno scorso lo aveva capito, arrivando al punto di sostenere come il Milan, questo Milan, potesse solamente giocare da provinciale. Un’affermazione che offese i ben pensanti di sponda rossonera, ma che per sommi capi era pura verità. E lo è ancora. No, per tornare grandi non si può concepire il campionato come una serie di fiammate, rappresentante dalle sfide che attirano le grandi masse, e nel mezzo poco o nulla. Per tornare grandi bisogna programmare, valutare le priorità, porsi degli obiettivi seri e quantificabili. “Il Milan ha come obiettivo la Champions per tornare grandi”. Questo non è un obiettivo, cari amici che condividete con me la passione rossonera. Non lo è, come non lo sono quelle aziende che, ogni tanto, si rivolgono al mio studio dicendo “nostro obiettivo è diventare leader nel nostro settore”. Queste sono aspirazioni, sono desideri, sono sogni. Un obiettivo per definizione è qualcosa di quantificabile, misurabile, prevedibile, scadenziabile. Qualcosa che può essere tradotto in azioni, al fine di raggiungerlo. Il Milan si era posto di arrivare in Champions quest’anno? E allora, avrebbe dovuto porsi il problema sul come raggiungere tale risultato. Avrebbe dovuto dare per esempio un’occhiata alle ultime stagioni, da cui avrebbe compreso come, per raggiungere il quarto posto, erano serviti in media 70 punti. Tanti, forse. Sicuramente troppi, se molti di essi vengono persi nelle partite sulla carta più abbordabili. 

Forse Gattuso aveva ragione. O, almeno, ne aveva in parte. Forse il Milan non era costretta a giocare da provinciale, come diceva lui. Forse, il Milan doveva pensare come una provinciale. Doveva pensare e vivere le partite, in particolare quelle di cartello, come fanno le piccole squadre quando giungono a San Siro per affrontarla. Squadre che, da anni, mettono in difficoltà la compagine rossonera, andando persino a vincere, a volte. Ma soprattutto squadre che giungono a San Siro per nulla impaurite, anzi pronte a giocarsela sino alla fine. E questo perché quella per loro non è la partita da vincere, ma solamente da giocare. Il loro reale obiettivo si trova in ben altri lidi. Che si vinca, che si pareggi, che si perda, poco cambia. Se solo il Milan si approcciasse alla partita di stasera con questo piglio. Ma non può. È questo il problema reale del Milan. Un po’ come lo studente svogliato che, dopo una notte passati a studiarsi l’intero libro per la prima volta, la cosiddetta secchiata come si dice dalle mie parti, spera che il professore gli chiederà giusto quelle poche cose che si ricorda. Uno che avrebbe potuto giocarsela senza troppi patemi, se avesse fatto il suo dovere con costanza, in precedenza. La situazione del Milan è esattamente questa. La medesima situazione che vissi io tanti anni fa, quando mi accorsi che stavo per mandare all’aria un intero anno scolastico. Con l’aggravante però che il derby non sarà una semplice interrogazione, ma probabilmente quella decisiva. Quella che potrebbe lasciare spiragli di speranza riguardo la promozione, oppure potrebbe certificarne definitivamente la bocciatura. Vanificare quanto fatto di bene nell’ultimo periodo, e solo in quello appunto. 

In conclusione, il Milan ha qualche possibilità di battere l’Inter? Ovviamente, ma dovrà affidarsi a una buona dose di fortuna. E anche se ciò dovesse accadere, sarebbe solo l’inizio di un lungo percorso in cui ogni partita, anche la più insignificante, dovrà essere vissuta come una finale. Nella speranza che una vittoria, soprattutto se sofferta, possa insegnare che per vincere una guerra, di battaglie da combattere ce ne sono molte e forse nessuna di essa è più importante delle altre.

“Colui che sa essere costante, che sa perseverare, che ha misura nelle parole e autocontrollo, che mai alza la voce, ebbene, costui si avvicina all’elevazione.” - Confucio



Un abbraccio

Novak