Lo sport, per definizione, è l’attività che impegna, sul piano dell'agonismo oppure dell'esercizio individuale o collettivo, le capacità fisico-psichiche.
La bellezza di alcune discipline sportive, che nel tempo hanno trovato maggiore diffusione, sta nella varietà, nonché nella complessità dei gesti tecnici ad esse associate. Competizione, “campanilismo” e scommesse (purtroppo) hanno fatto il resto, rendendo lo sport parte integrante della società, innestando intorno alle manifestazioni sportive logiche di spettacolo. E il calcio è lo sport più diffuso al mondo, un fenomeno in costante espansione e continua evoluzione.

L’Italia, nella storia del calcio mondiale, ha rappresentato per decenni un modello di riferimento. Tuttavia, non fa più scuola da tempo. L’eccessivo tatticismo, il famigerato catenaccio, il calcio lento e stitico hanno segnato epoche importanti, ma fanno parte del passato. È vero, il made in Italy è ancora ricercato all’estero, soprattutto nei tecnici. Ma dura il tempo di una stagione o poco più. Poi si cerca altro. Oggi si predilige l’intensità, il fraseggio, la giocata, il gol, anzi, la goleada. La “manita” è il compimento del calcio perfetto, da noi ci si esalta per gli uno a zero, o giù di lì.
Sono cresciuto ammirando il calcio iberico bollato dai nostri “luminari” come bello, ma poco concreto. Poi hanno vinto tutto, hanno cambiato il calcio e i suoi assiomi. Ma noi rifiutiamo anche solo di metterci in discussione, e poco importa se in campo internazionale raccogliamo solo scoppole mondiali. In fondo, chi vince in Italia da anni predica la difesa meno battuta come presupposto fondamentale per vincere. Per vincere in Italia, appunto.
Chi colleziona trofei come migliore tecnico considera i concetti di bel gioco “puttanate”, lo spettacolo come prerogativa del circo, che si può “dominare l’avversario difendendosi”. Chi vuol fare calcio da noi è un eretico. Sarri, con il suo calcio blasfemo, è un perdente perché in panchina aveva profili del calibro di Ounas e Rog mentre la Juve, anche sbagliando formazione, poteva attingere ad un top player dalla panchina con gli occhi bendati in modalità cuccagna, e risolvere la partita.
Invece Gasperini e il suo calcio sono buoni solo in provincia, e poco importa se la sua unica occasione in un grande club è durata appena cinque partite. Eppure la Juve - è il suo calcio diversamente giocato – è considerata tra le favorite per la Champions. Ci può stare, è una teoria che trova conferma nella legge dei grandi numeri. Nove volte su dieci in Europa si vince giocando a calcio, ma capita anche di spuntarla parcheggiando un pullman sulla linea di porta e indovinando un contropiede. Parliamo comunque di eccezioni ma, dopo sette finali perse, il numero tre sulla ruota di Madrid potrebbe essere finalmente estratto a giugno, con ventidue anni di ritardo.

Spiace comunque che una società come la Juventus, solida ed estremamente competente, che anno dopo anno è cresciuta fino ad occupare, con merito, un posto nell’olimpo dei top club, debba perseverare con un progetto tecnico lontano dagli standard europei. Probabilmente, la gestione “aziendale” della squadra mira alla sacralità del risultato più di qualsiasi fronzolo estetico, ma la Juventus resta comunque una società sportiva.
In fabbrica poco importa se gli operai fanno la rabona con gli attrezzi in catena di montaggio, conta il prodotto. Ma nel calcio lo spettacolo conta eccome e, con i giusti equilibri, aiuta anche a vincere. Con buona pace di Allegri. In fondo, se la sua concezione di calcio fosse un pilastro di questa disciplina, guarderemmo tutti un altro sport. E poi magari gli toccava pure lavorare...