Italiani popolo di santi, poeti, artisti, eroi, navigatori e furbetti. Forse, col tempo, si è perso talune abilità ma restiamo avanti in tante cose, specie nell’ultima, dove la maestria è arcinota in tutto il mondo.
E poi lo facciamo meglio.
Sembrerà partigianeria spicciola eppure c’è molto di vero nella capacità tutta nostrana di migliorare con la passione, la fantasia e l’arte, ciò che nasce come ordinario o essenziale, riuscendo perfino a donare l’estasi a qualcosa che altrove viene percepito al massimo come un brivido lungo la schiena, e catalogato alla voce godereccio ma nulla più.
È così che una chiesa o un palazzo di governo diventa monumento, che la letteratura diviene opera, che la cucina regala emozioni e dipendenza più di qualsiasi gioia sintetica, che l’abbigliamento genera moda e tendenze in tutto il mondo, che una sportiva diventa icona e un’auto da sogno, che la politica diventa inciucio (ma a godere sono solo loro), che ai dirigenti, pur senza decidere, vengono riconosciuti gli stessi poteri di un padrino, che gli invalidi giocano a calcetto, che da disoccupati ci si può costruire un impero e molto ma molto altro ancora. Naturalmente non dimentico le indiscusse qualità da latin lover.
Tuttavia, secondo un recente sondaggio, siamo sul podio dietro sudamericani e spagnoli. Chissà, probabilmente ci si è un tantino sopravvalutati. Guarda caso come nel calcio, dove, peraltro, negli anni si è perso tante posizioni in nome di un prodotto artigianale, buono solo per festanti sagre paesane, francamente poco esportabile. Sfortunatamente tutt’altro che godibile.

Eh già, proprio il calcio, ovvero “la cosa più importante delle cose meno importanti” come lo definì un esteta ormai esiliato (Arrigo Sacchi), è una delle poche cose che nasce come godibile e la si trasforma mestamente in ordinario ed essenziale. Dove l’essere pragmatico prevale sul genio e sul teorico. Che smacco nella terra che ha devoluto all’umanità artisti come Leonardo e Michelangelo. Molto probabile che oggi la Gioconda sarebbe imbronciata, che l’Uomo Vitruviano rappresenterebbe il tuttocampista (o De Ligt) e che la Pietà sarebbe raffigurata con Allegri che tiene in braccio Mandzukic.
Ma lungi da me bestemmiare con questi accostamenti sacrileghi, aggiungo solo che i massimi esponenti del calcio tricolore come i ragionieri Allegri e Conte, a cui evidentemente difetta la fantasia, sarebbero capaci di preferire, sulla trequarti, rispettivamente Matuidi e Barella ad artisti come Del Piero e Baggio. Da noi il calcio è una cosa terribilmente seria, al contrario della politica. Non a caso Salvini diventa credibile solo quando parla del Milan.

Eppure il campionato di Serie A è tornato interessante nella sua incertezza, in testa come in coda. Ma entusiasmante proprio no, anche se circa quattro di milioni di interisti potrebbero pensarla diversamente e farmi passare per un eretico. Proprio loro che fino a ieri schifavano il made in bianconero e l’anticalcio juventino. E che oggi non disdegnano di rovistare tra la pattumiera dei rivali giurati, puntando forte su un progetto vecchio di quasi dieci anni. In fondo, se gli italiani sono abili nel creare, i cinesi sono maestri nel copiare. Una sorta di Jnter insomma. In ogni caso, il giubilo dei tifosi neroazzurri è del tutto comprensibile, quasi fisiologico dopo anni di oblio all’ombra dei successi bianconeri. Peccato solo che lo scudo decennale del triplete sbattuto in faccia a chi collezionava trofei nazionali ora, d’un tratto, abbia perso efficacia. All’improvviso il campionato diventa essenziale, e le competizioni europee accessorie. Di conseguenza ci si sbronza col vino della casa, con la speranza che lo champagne mandi fuori giri la vecchia signora.

Ciò nonostante, questo girone d’andata non può aver sorpreso più di tanto chi guarda a questo sport da appassionato, e quindi più con la testa che con la pancia (leggasi tifoso). Fin troppo facile immaginare le difficoltà della Juve che, forse perfino con colpevole ritardo, abbandona il progetto della difesa meno battuta come unico mantra sostenibile per raggiungere gli obiettivi stagionali, passando di fatto il testimone all’Inter che coglie l’opportunità a piene mani. I bianconeri, finalmente, pensano da top club e provano a dar battaglia alla champions con un cambio di mentalità, quindi con un progetto tecnico idoneo ad imporsi anche in Europa, dove spesso il giocare fino al minimo vantaggio (da difendere in trincea) viene spazzato via come i pronostici del sig. Padovan.
Certo, del bel gioco finora solo poche decine di minuti in campionato. Chiaramente troppo poco, ma in Europa, non a caso, va già meglio. Purtroppo le idee chiare di Paratici si sono poi rivelate un tantino confuse e il mercato estivo condiziona il tecnico bianconero che, già di suo, risulta poco flessibile a particolari varianti tattiche. Sarri predilige la difesa a quattro, il play e giocare col tridente; eventualmente anche col trequartista. Eppure la Juve ha pochi esterni d’attacco, nessun trequartista e Paratici che a gennaio si dichiara a posto così. La rosa, inizialmente, sembrava adatta ad un 3421 modello (spettacolo) Atalanta, ma gli infortuni di Chiellini prima e Demiral poi, di fatto, limitano numericamente l’impiego della difesa a tre. Anche il 4231 sembrava un vestito adatto alla vecchia signora, magari con Bentancur ed Emre Can davanti alla difesa. Tuttavia Sarri non abbandonerà mai né la difesa a quattro né tantomeno Pjanic. Ergo, difficilmente vedremo il bel gioco alla Juve. Almeno per quest’anno.

Al tempo stesso, si poteva scommettere che Conte all’Inter - fin da subito - avrebbe cancellato anni di mediocrità neroazzurra, dove ogni stagione ci si esaltava sotto l’ombrellone per poi ritrovarsi a natale col cappotto a -10/15 dalla vetta. Dove le uniche soddisfazioni erano, in ordine di importanza, gli eurofallimenti della Juve e il quarto posto. Il tecnico salentino, dopo un paio di anni in Premier (comunque da protagonista), ha preferito far rientro in Italia. Perché in Europa sono fin troppo esigenti e la stampa impunemente libera. Ad un certo punto, c’è stata anche la possibilità che andasse a Madrid, ma proprio non se l’è sentita di provare a fare calcio in Spagna, dove peraltro non si hanno risparmiato critiche nemmeno a mostri sacri come Capello e Mourinho. E poi, al Real, c’erano troppe aspettative e fin troppi fighetti da gestire. Da noi, invece, si può ancora giocare con il 532 e in contropiede. Non bisogna inventarsi nulla. E la stampa la si può addirittura minacciare se solo osa pubblicare la lettera di un tifoso poco gradita. Figuriamoci se in conferenza gli faranno mai notare che la Lazio ha praticamente gli stessi punti dell’Inter con metà del suo monte ingaggi e che l’Atalanta, pur non vantando una panchina infinita, va avanti in champions con le idee e con il gioco.

Conte è un ottimo tecnico, un fenomeno solo a particolari condizioni. Difficile credere che possa far meglio di Gasp all’Atalanta o di Inzaghi con Lotito. Ma nemmeno capace di misurarsi tra i più grandi. I migliori tecnici ambiscono ai top club per vincere tutto e consacrarsi, e gestiscono senza particolari timori pressioni e spogliatoi di fuoriclasse. Di conseguenza, scartati i progetti rischiosi di Pallotta e Elliott, accettare l’Inter è stata una scelta piuttosto comoda, non occorre prendersi in giro. Intanto i nerazzurri non hanno ambizioni da top club ma bisogna semplicemente migliorare un paio di quarti posti, e fare meglio dei predecessori con più di 160 milioni (per ora) sul mercato non deve valere chissà quale impresa. E poi non è che i neroazzurri fossero così scarsi in estate, perché una squadra con Handanovic, Brozovic, Skriniar, De Vrij (a cui si aggiunto Godin), Peresic, Icardi, Nainngolan ecc. gode senz’altro di un’ottima intelaiatura. Ma non solo, perché da Marotta il mister salentino ha ottenuto carta bianca anche sulle personalità da epurare; perché Conte predilige i soldatini e un gruppo che scatti sull'attenti, i caporali già lo infastidiscono. Ha bisogno che la sua autorità venga riconosciuta come assoluta, soprattutto che nessuno mai si azzardi a metterla in discussione. E che la società non manchi di accarezzare il suo ego, fungendo da parafulmine nei passaggi a vuoto, a cominciare dalla mancata qualificazione in champions con un Barcellona in gita (senza dimenticare lo Slavia Praga). Infine, i 12 milioni di ingaggio certificano che all’Inter la star è senza alcun dubbio lui, più dello stesso Marotta che lo ha portato in neroazzurro. Perché, nel calcio, conti per quanto vieni pagato. Ecco perché al Barcellona comanda Messi, alla Juve CR7, al PSG l’anarchia ecc. Certo, l’ingaggio non è un fattore decisivo ma, in termini di equilibri di una squadra (e di una società), ne determina sicuramente il peso specifico. In fondo, i problemi dell’Inter generalmente partivano proprio dallo spogliatoio, dove spesso i giocatori “pesavano” più degli stessi allenatori. Poi, non a caso, arrivò Mourinho e si ritornò a vincere. Dieci anni dopo, Conte ristabilisce le gerarchie e risultati sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, il triplete con il tecnico neroazzurro non lo vedremo mai, magari giusto un trofeo. Alla Juve invece non comanda né l’allenatore né tantomeno i giocatori (ad eccezione di CR7), conta solo la società.

Per quanto precede, reputo il lavoro di Sarri molto più delicato di quello di Conte. La Juve non solo deve vincere, ma da quest’anno dovrebbe anche provare a convincere con una parvenza di gioco.
Al contrario, il tecnico nerazzurro dovrà solo fare meglio di Spalletti a condizioni nettamente migliori del suo predecessore.
Tutto questo mentre il Napoli si tira fuori dai giochi prima ancora di mettere fuori l’albero di natale e, con Gattuso, mette fine anche al progetto del bel gioco, unico trofeo virtuale da incensare (oltre quello del fatturato). E questi sono fatti e no chiacchiere. Chi tra Conte e Sarri, alla fine, avrà la meglio si caricherà sulle spalle buona parte delle sorti del calcio nostrano. Perché chi vince ha sempre ragione, e solitamente viene anche emulato.
Personalmente non vorrei celebrare il ritorno al calcio tutto corsa e contropiede, con annesso il rilancio del 532 famelico che dura un tempo e poi inevitabilmente perde di intensità e si affloscia. Il calcio italiano non fa più scuola da tempo e necessita di un profondo maquillage, dovrebbe accettare serenamente di non rappresentare più un modello di riferimento globale. Sembrava fosse pacifico e invece torna lo spettro del calcio di provincia, nonché eurofallito.
Proprio nella stagione in cui finalmente ci si libera di Allegri e del suo calcio diversamente giocato, perfino quando anche la nazionale torna credibile attraverso un gioco propositivo, non vorrei certificare la morte prematura del un progetto di crescita dello sport più bello NEL mondo.

Il calcio di oggi è molto diverso rispetto al passato, e da tempo coniuga con efficacia la bellezza al risultato sportivo. Da noi sembra una missione impossibile. Eppure una volta eravamo maestri. Una volta, gli italiani lo facevano meglio. Ora, non solo non si riesce a creare ma non si è capaci nemmeno di copiare.
Piuttosto preferiamo beatamente sprofondare.