Un anno di transizione ci può stare, è fisiologico. Dopo quasi un decennio di successi in campionato non si può pretendere di vincere ancora a mani basse, specie se decidi di affidarti alla sperimentazione di un nuovo progetto tattico nell’anno in cui l’avversario, potenzialmente più accreditato, acquisisce solide certezze. Questo non significa che bisognava continuare con l’usato sicuro, perché i segnali di cedimento c’erano anche col vecchio motore, ormai logoro dopo aver macinato quasi mille punti in 8 stagioni. L’ennesima revisione di un sistema a fine corsa non avrebbe avuto senso. Sarebbe costata perfino troppo a fronte di un’autonomia comunque limitata.  Soprattutto si rischiava di rimanere in panne ancora una volta nelle gite fuori porta.

Non esiste un sostanziale cambio di strategia che non comporti il naturale assestamento. Per evitare scossoni si poteva pianificare un processo graduale, perché la transizione è un progetto, un passaggio obbligato che va messo in preventivo se si vuole rimanere competitivi e al passo con i tempi. Ma la Juve di quest’anno rischia di registrare più che altro un passaggio a vuoto, che è ben diverso. Insolitamente si denota la mancanza di “idee chiare”. Al di là delle chiacchiere di Paratici.

Pesa più del dovuto l’allontanamento di Marotta: un dirigente di altissimo profilo, un manager capace di mettere a sistema le esigenze di bilancio con le quelle sportive, di parlare con la stessa franchezza in società, alla squadra e alla piazza. Una figura che probabilmente cozzava per saggezza e lungimiranza con l’ego dei poco più che quarantenni Agnelli, Paratici e Nedved. Tuttavia, il vuoto lasciato da Marotta non è stato colmato, ma assorbito dallo stesso presidente. Chi pensa che sia finito sulle spalle del duo Paratici-Nedved si sbaglia. Probabilmente hanno contribuito nel fare le scarpe al buon Beppe, sicuramente agiscono da exclusive advisors, ma non hanno potere di veto. Figuriamoci se sono in grado di prendere decisioni in autonomia.

Da considerare che un ruolo importante nelle Juve è da sempre riservato ai “senatori”, talvolta pagati più per le eventuali consulenze e per la tenuta dello spogliatoio che per le prestazioni sportive. Non a caso si sceglie di prolungare a pensionandi che difficilmente vedono il campo. È una chiara politica societaria, che se mantenuta entro certi limiti può risultare finanche efficace. Lo scorso anno c’era Barzagli e quest’anno tocca a Buffon. Poi ci sono i lungodegenti Chiellini e Khedira che dovrebbero ancora tornare utili alla causa. Andato via Allegri, esce Mandzukic ed entra Bonucci. Ronaldo più che senatore agisce da ministro e parla direttamente con il presidente.

Il cambio di guida tecnica è stata una scelta sicuramente condivisa fra le varie componenti, ma non è stata messa ai voti. Quella di Sarri è stata una scelta dettata dalla mancanza di alternative. 10 anni fa la Juve si rilanciava con il “motivatore” Conte, poi è cresciuta stagione dopo stagione (a due centimetri dalla consacrazione) grazie al “gestore” Allegri e oggi punta sulle idee di gioco di un “allenatore” classico, da tuta. Se avesse voluto davvero fare un passo in avanti avrebbe dovuto puntare con decisione sulla figura di manager moderno (sul modello inglese), ovvero di un professionista in grado al tempo stesso di motivare, gestire e allenare la squadra. Uno alla Guardiola o alla Klopp per intenderci. Che poi basta sentire lo stesso Mourinho come parlava di Eriksen per capire quanto pesi all’interno del quadro decisionale degli Spurs. Invece per Sarri il mercato non conta, piuttosto lo annoia. Proprio lui che dovrebbe agevolare la ricerca di giocatori funzionali da inserire in una rosa che, ancorché costosissima, presenta falle clamorose e un centrocampo da metà classifica. Mentre Conte all’Inter rivendica e ottiene quello di cui necessità (cosa che non poteva fare alla Juve), il tecnico bianconero sembra quasi in difetto di gratitudine verso una società che ha deciso di affidargli la panchina.

Eppure Sarri ha un compito per nulla semplice, molto più delicato di chi è chiamato a migliorare un quarto posto con 200 milioni sul mercato. Perché non dovrà solo vincere, per quello bastava anche Allegri, ma dovrà imporsi attraverso un gioco offensivo, più idoneo per misurarsi oltre confine. In linea con le ambizioni da top club. Il tecnico bianconero ci prova con un progetto tanto interessante quanto complesso, ma non riesce a scrollarsi di dosso chi se la gioca semplice col 532. Gli sarebbe servito un mercato su misura e la squadra fatica a stargli dietro. Qualcuno addirittura comincia a dare segni di insofferenza. Non esattamente un leader, appare perlopiù un consulente esterno per questa Juve. Ieri, col Verona, c’era un allenatore che dava indicazioni dal campo (CR7), un altro che dettava i cambi dalla panchina (Buffon) e Sarri che faceva quasi tenerezza.

Il pericolo di fallire su tutta la linea incombe sulla Juve, Sarri rischia ma non sarebbe ritenuto il maggiore responsabile di una eventuale disfatta. Gli vanno comunque riconosciute alcune attenuanti. Chiaro che i limiti più evidenti sono nell’incapacità di riuscire ad adattare il modulo alla rosa e no viceversa. Non sarebbe considerato un passo indietro ma un segno di maturità e di intelligenza. Se poi vuol sprofondare nella ricerca del fraseggio veloce fra piedi ruvidi, predicando l’intensità con giocatori più forti che rapidi, insistendo sul regista dai mille tocchi inutili a pochi metri che non conosce la parola “lancio” o “verticalizzazione”, e che spesso risulta decisivo per gli assist che sforna agli avversari, allora ci saranno poche speranze di successo. Anche se spiace che uno dei pochi giocatori funzionali gli garantisca al massimo una manciata di partite l’anno, e nemmeno per 90 minuti. Se pensava di farne un punto di forza evidentemente si sbagliava, perché i suoi limiti fisici erano noti da tempo.

Rimpiangere la vecchia gestione non ha più senso ormai. La Juve di Allegri andava come una grossa berlina tedesca. Protetta da numerosi sistemi elettronici, l’auto garantiva una velocità da crociera in assoluta sicurezza. Robusta e affidabile, nonostante un chilometraggio importante, difficilmente dava noie meccaniche. Al volante, probabilmente, un conducente più timoroso che prudente. Mai una sgommata, né una derapata. Ti trasportava, ma raramente emozionava.
Sarri invece si presenta con un’utilitaria taroccata, più rozza che efficace. Che smacco per una proprietà che gestisce il brand più famoso al mondo con la Scuderia Ferrari. Una volta si fallisce col pilota e l’altra si sbaglia con la messa a punto della vettura. Ma questo deve essere un vizio di famiglia...