Riposi in pace, maestro Sconcerti. 
No, non mi sono svegliato stamane dopo una lunga ibernazione e mi sono accorto solo adesso che Lei non c’è più.
Ho soltanto la sensazione che siamo stati tutti un po’ distratti dagli eventi di questi ultimi giorni; giorni di lacrime, versate da chi ha pianto una vittoria o da chi ancora piange una morte troppo prematura.
Lacrime certamente versate anche per Lei, maestro, a cui forse, tuttavia, non abbiamo tributato il fiume di parole che la sua firma avrebbe meritato. 
Adesso che il frullatore degli eventi ha smesso di girare all’impazzata e di distrarci un po’, vergognato, mi prendo queste righe per ricordarLa.
Vergognato, sì. Perché abbiamo decantato Messi, abbiamo rimpianto Sinisa e quasi abbiamo accantonato il peso della Sua perdita. 
Probabilmente senza volerlo, senza neanche accorgercene, abbiamo lasciato che il calcio giocato e i suoi accadimenti monopolizzassero la nostra attenzione. 
Ma cosa sarebbe il calcio senza i suoi rapsodi? Le gesta sportive, se non narrate, rischierebbero di essere inghiottite dall’oblio o dall’indifferenza, sarebbero come un film senza colonna sonora. Immaginate la saga di Rocky Balboa senza le musiche di Bill Conti. Immaginate Momenti di gloria senza le note di Vangelis. 
Ecco, forse sbaglio, forse è solo una sensazione d’inadeguatezza, in effetti attestati, commiati e omaggi ne ha ricevuti! Ma noi non l’abbiamo “abbastanza pianto”, perché la Sua è stata una colonna sonora da premio Oscar. 
Se è così, maestro, non ce ne voglia male, siamo solo dei nani in cerca di continue acrobazie che ci emozionino; però, se ci fermiamo a pensare, sappiamo riconoscere l’altezza in ogni sua forma ed espressione.

La sua morte ci ha colpiti nel profondo, perché con Lei se ne ne va un pezzo di autentico giornalismo sportivo, la completezza di un mestiere, fatto da sempre più urlatori e da sempre meno cultori. 
Lei ha saputo piegare le logiche cementizie d’un calcio a compatimenti stagno alla salubrità di concetti mai scontati, ha saputo dare univocità alla competenza, ha chiesto la parola quando c’era da dire cose scomode, ha scritto senza accondiscendere mai allo stucchevole politically correct del mondo del pallone.
Il tutto in uno stile che scorreva veloce, opportunamente sintetico, sempre ricco di immagini originali, coraggiose, personali; una prosa limpida, colta, fatta di periodi brevi, di figure retoriche rimbalzanti da un campo di calcio al campo della filosofia. Non barattava mai un Suo legittimo pensiero con la compiacenza. È sempre stato, così La definirebbe Marco Risi, un "giornalista giornalista".
E ha tifato.
Ha gridato al mondo intero l’amore per la sua Fiorentina, senza che nessuno osasse anche solo pensare a una qualche concessione alla parzialità (al contrario, talvolta l’ottusità del tifo stigmatizzava la Sua equidistanza). Perché “Non fare il furbo, racconta” era prima che uno dei Suoi insegnamenti, il Suo stile, il fondamento deontologico su cui dissertava di calcio, sulla carta come in televisione. 
Il suo faccione da buon padre di famiglia, la sua voce flebile ma stentorea e la sua mimica facciale, tutta contenuta in quel caratteristico accigliarsi, ci hanno accompagnati nell’ultimo abbondante decennio della Sua carriera. 
Personalmente, nella veste di commentatore televisivo, L’ho apprezzata tantissimo nei pomeriggi domenicali di Sky, un po’ perché, da romantico calciofilo quale sono, la domenica pomeriggio per me è come il Bim Bum Bam per i bambini dei miei tempi; un po’ perché al fianco di Ilaria D’Amico Lei era la raffigurazione di un vate garbato, competente e mai soverchiante (lo stesso direi per Novantesimo minuto, ma lo scivolone della Ferrari… lasciamo stare). Anche quando arrivava il momento della Sua Fiorentina. Anche in quel momento, commentava gol e falli, sconfitte e vittorie, fuorigioco e giocate da fuoriclasse con assoluta sobrietà; a volerla dire tutta, un occhio clinico riusciva a cogliere, tra le increspature del Suo viso, una fulminea e pressoché invisibile espressione di disappunto, se la Viola quel pomeriggio avesse perso. Vabbè, nessuno è perfetto.

Già Firenze, la Sua Firenze, la Sua Fiorentina. Tra le carte ammassate su una scrivania mai abbastanza capiente e il fumo di sigarette che annebbiava la redazione fiorentina del Corriere dello sport, Lei cominciava a ticchettare sulla macchina da scrivere, raccontando il calcio a modo suo. E così continuò a fare quando passò alla sede di Milano. Era il 1972, l’anno in cui tra le fila della Sua Fiorentina debuttava Giancarlo Antognoni. 
Proprio lui, quel totem gigliato maglia numero 10, con cui Lei, da dirigente della Fiorentina, ha poi crudamente litigato in diretta tv e a cui anni dopo tenderà la mano, dicendo: “Credo sia tempo di fare pace”. 
L’umiltà, maestro Sconcerti. L’umiltà è la dote che detengono solo i grandi, perché non hanno bisogno di alcun artifizio comportamentale, grandi lo sono comunque. 
E la grandezza si acquisisce passo dopo passo, parola su parola, pezzo per pezzo.
E non si finisce mai d’imparare: ce lo ha detto Lei stesso non molto tempo fa: “Anche quando hai tanti anni di parole alle spalle, non si finisce mai di trovare quelle giuste per dire quello che davvero si vuole” …
a proposito di insegnamenti e di umiltà.
Era così felice di essere arrivato al Corriere della sera, che la sera in cui uscì il Suo primo articolo non riuscì a resistere: dopo la mezzanotte, prese il motorino per andare in edicola a vedere il giornale con la sua firma. Che pure era già una firma autorevole, prestigiosa... appunto, l’umiltà. 
E chissà quanti editoriali avran partorito quelle “generose” Sue notti insonni!

Gianni Brera, che incontrò quando Lei fu ingaggiato da Eugenio Scalfari per fondare la redazione sportiva di Repubblica, aveva compreso subito il Suo talento; «Navarro» La chiamava, per il Suo aspetto un po’ mediterraneo. E del grande giornalista pavese, Lei ha in qualche modo tramandato due tratti: il racconto del calcio mediato attraverso ampie e profonde letture, che apparentemente non c’entravano nulla (storia e filosofia, prima di tutto); e la convinzione che il calcio italiano non potesse essere diverso da quello che è sempre stato (cioè di difesa e contropiede), per ragioni storiche, sociali e culturali profonde. 
Non solo Brera, ma anche Giorgio Tosatti. 
Ecco, Lei, maestro Sconcerti, è stato una sorta d’armoniosa, miscellanea, compendiando nel suo Giornalismo (il maiuscolo non è un refuso) la lezione di Brera con quella di Giorgio Tosatti. Per quest’ultimo, molto del calcio si poteva spiegare e capire con i numeri; e così, anche in epoca di big data, raccontano che girasse con un quadernone a quadretti in cui, ogni lunedì, impiegava diverse ore ad aggiornare le statistiche di ogni giocatore d’ogni squadra di serie A: presenze (da titolare o da subentrato), gol, assist e quant’altro. Ché poi magari ci veniva fuori un pezzo perfetto.
Il fatto è che amava il calcio e lo raccontava in profondità, perché più di ogni altro ne aveva colto l’essenza.
'Il divertimento del calcio è che c'è sempre un margine di miglioramento imprevisto da aggiungere. Di solito è la parte migliore': è una delle ultime riflessioni che ci ha lasciato. 

Tommaso Pellizzari, giornalista del Corriere della sera, di Lei ha raccontato: “Dopo la mezzanotte ci si trovava a cena nei pochi posti di Milano in cui si può tirare tardi davvero. E si chiacchierava di qualsiasi cosa. Sempre con la stessa modalità dei timidi: partenza lenta e formale, e poi via con i ricordi sempre più personali e i consigli sempre più importanti, da perdonargli la blasfema mania di mettere il ghiaccio nel vino bianco”.

Vabbè, nessuno è perfetto. Neanche Lei, maestro Sconcerti, che pure la perfezione l’avrà contemplata, ogniqualvolta leggeva e rileggeva un Suo articolo, prima di pubblicarlo. E pure noi, una volta pubblicato.
Per questo Le diciamo, tutti, un enorme, eterno grazie. E la salutiamo, laicamente, con le parole della sua figliola: “Certo che potevi restare un altro po'… “.

Ps: c’è un dilemma che è rimasto a me insoluto. Per capire il calcio bisogna partire dalle idee chiare e distinte di Cartesio? O puntare sul talento istintivo di Baggio? 
Mi mandi un segno da lassù, maestro, un indizio, una risposta.
Ma Lei ce l’ha una risposta?