La tragedia di Crotone ci lascia, come sempre, sbigottiti. Non ci si abitua mai a notizie del genere, a tragedie di questa portata; e personalmente non mi abituerò mai alle stucchevoli polemiche che le varie forze politiche puntualmente ne fanno discendere … ma questa è un’altra storia, che nemmeno mi va di raccontare, perché se la racconto - direbbe Vasco - mi viene il vomito. 

Ciò che mi va di raccontare è, invece, la storia di Abubacarr Konta: un gambiano che alcuni anni fa sfidò il mare, arrivò in Sicilia e ce la fece, anche grazie al calcio. Un storia di qualche anno fa, che ebbe una grande eco, suscitando l’interesse di molti campioni, nonché dei vertici europei dello sport. 
Mi va di raccontare questa, di storia, perché al cospetto dell’ennesima strage, che “raccogliamo” dal nostro mare con la triste conta delle vittime, l’unica cosa che davvero conta è la speranza. La speranza che questa povera gente, che scappa da guerre, carestie, pestilenze e dittature, possa farcela, possa realizzare il suo sogno. Che non è quello di diventare un calciatore, no, bensì quello, di gran lunga più semplice, di vivere una vita normale, in un Paese normale.

Abu ce l’ha fatta. 
Ce l’ha fatta nonostante tutto, ce l’ha fatta nonostante le peripezie, nonostante le difficoltà, nonostante l’inferno. Perché il suo viaggio è stato un inferno, non meno terribile di quello da cui scappava. 
Un ragazzino che affronta l’inferno e ce la fa: è questa la storia che mi va di raccontare. 
Perché forse, raccontandola, ci si può rendere effettivamente conto di quanta sofferenza ci sia dietro queste traversate e di quanto utile possa essere accogliere anziché respingere, integrare anziché emarginare. Dietro ogni naufragio non ci sono numeri da aggiornare, ma esseri umani da aiutare. Perché ce la fanno, se li aiutiamo ce la fanno.  

Abu ce l’ha fatta. Ed è stata un’impresa, che definirei epica, se non fosse che si tratta di vita reale. E di morte reale.
Un’impresa! 
Lasciare gli affetti, perdere gli amici in mare, ricostruire una vita dopo aver visto svanire tutto, lungo un viaggio “omerico” dal Gambia alla Sicilia. 
A soli 16 anni Abubacarr Konta vive sulla sua pelle l'esperienza lacerante dell'immigrazione clandestina, ma riesce a mettersi alle spalle il dolore, grazie al pallone. Il giovane, infatti, viene aiutato dal progetto “Rete!” della Figc, un programma di reinserimento dei minori dei centri d'accoglienza grazie allo sport. 
Ma prima c’è l’inferno da affrontare, un inferno lungo, lunghissimo, segnato da infinite strade lastricate di paura, notti insonni, facce estranee di cui diffidare, decisioni da prendere, espedienti da inventarsi, fatica, sporcizia, fame. Lascia il Gambia, Terra di guerre civili, fame e dittature. Lascia l’inferno, destinazione Paradiso. Quel paradiso si chiama Europa, si chiama Italia. Quel paradiso sono le coste della Sicilia. 
Ma è un Paradiso lontano, raggiungerlo è un’impresa. Epica, sì. 

Il viaggio di Abu inizia il 2 febbraio del 2016, insieme a degli amici. Prima tappa, il Senegal, dove trascorre alcune settimane, poi per tre settimane in Mali, quindi passa per il Burkina Faso e il Niger; per poi arrivare in Libia, dove rimane per altri tre mesi. Proprio un’odissea, che lo vede anche affrontare il deserto del Sahara. 
E come in ogni Odissea che si rispetti, c’è il mare da attraversare. Quel Mar Mediterraneo dove le sirene non cantano, sono le sirene della Guardia Costiera e urlano; dove Scilla e Cariddi son mostruose correnti che si dimenano nei loro stessi corpi a forma di onde; dove Circe è la magia suadente d’una speranza che non muore mai (semmai annega); la speranza di giungere alle pendici di "Polifemo" o giù di lì. 
Proprio così. Come per tantissimi altri migranti provenienti dall'Africa, anche per Abu la Libia è il punto di partenza per attraversare il Mar Mediterraneo e giungere in Italia. 
E qui l’inferno diventa d’acqua e paura e disperazione; e ha il volto demoniaco di avidi traghettatori senza scrupoli.
Le sue parole, meglio di qualunque immagine o esercizio lessicale, raccontano l’inferno: “Io e i miei amici eravamo sulla stessa barca, ma c'era una falla sulla barca. Non eravamo seduti tutti vicini. La barca ha iniziato a imbarcare acqua dove c'erano i miei amici. Uno di loro è caduto in acqua con altre persone. Ha gridato il mio nome, ma io non ho potuto fare niente perché dovevo salvare me stesso. Sono annegati".

È così che il giovanissimo Abu arriva in Sicilia, con la morte e il terrore impressi nei suoi occhioni neri. Ma in Sicilia ci arriva, con solo una maglietta e un paio di pantaloncini e senza scarpe, ma ci arriva. Dopodiché, il suo nuovo inizio, prima a Messina e poi al centro di accoglienza di Giammoro. Quel centro ospita ragazzi tra i 15 e i 18 anni, a cui viene insegnato l'italiano, oltre che alcuni lavori manuali. Abu si dà da fare nell'orto e in cucina, ma è il calcio a regalargli la felicità. E su un campo vicino a Milazzo, Abu e i ragazzi di Giammoro tornano ad essere dei normali minorenni. E da normali minorenni, giocano al pallone e nel pallone trovano affinità, condivisione, familiarità, sogni. Ritrovano la vita. 

Abu ama il calcio e sa giocare a calcio
In Gambia era soprannominato Alonso per la sua somiglianza calcistica con Xabi, l'ex playmaker di Real Madrid e Bayern Monaco. E allora, comprende che forse il calcio può segnare non solo la sua normalità, ma anche il suo completo riscatto, se non altro sociale. Lì, tra le coste orientali della splendida terra di Sicilia, Abu comincia a sognare. Sì, perché nel suo Paese neppure i sogni sono permessi, lì sognare vuol dire osare, lì non si può. "Voglio lavorare duramente e occuparmi della mia famiglia", dice al responsabile della struttura, parlandogli, lacrime agli occhi e cuore pieno, dei suoi fratelli e delle sue sorelle, rimaste in Gambia. 

Il futuro: per un ragazzo come Abu, il futuro, suo e dei suoi familiari, è un pensiero fisso, è l’unica cosa che conta. 
Un futuro da costruire con un lavoro onesto e un’integrazione che, proprio grazie alle tante partite giocate assieme agli amici, è diventata realtà. “Devo dire grazie ai siciliani, quando sono arrivato non avevo nemmeno un paio di scarpe. All'inizio non conoscevo nessuno, ma giocare a calcio mi ha aiutato ad entrare in contatto con altre persone".
Parole condivise pubblicamente da Francesco Totti, allora dirigente della Roma.
Parole che diventano il paradigma del calcio come mezzo d’inclusione sociale.

La sua storia ha così fatto il giro del mondo, mettendo in risalto il valore dell'eguaglianza e quanto prezioso sia il calcio come strumento per affermarla. Se l’establishment del pallone oggi parla di Equal game e No to racism, lo si deve anche a quel ragazzo sedicenne, che dal Gambia giunse, scalzo, in Sicilia e si mise a giocare a pallone. 
La sua è una storia simile ad altre: la guerra, la paura, le torture in carcere e la decisione estrema di salire su un barchino e affrontare il mare, per progettare la nuova vita, lontano da bombe e persecuzioni. In tanti arrivano con l’idea di diventare giocatori, l’Italia è vista ancora come la patria del calcio. Appena indossano un maglia e scendono in campo, anche solo per un torneo nei campetti della parrocchia, mandano le foto agli amici rimasti in patria. Alcuni, tra i più ottimisti (mettiamola così), per predire che stanno diventando dei campioni, gli altri semplicemente per dire che sono arrivati, sono al sicuro, sono felici. 

Abu non è diventato un campione pieno di soldi e successo, questo no. Ma il calcio gli ha ridato la vita, una vita fatta di relazioni sociali e prospettive in una Terra lontana chiamata Italia. Ed ha acceso i riflettori sull'avventura di un ragazzo di sedici anni, finita bene.
Il calcio unisce, il calcio integra, il calcio è condivisone, il calcio è gioia, il calcio è una cosa meravigliosa.
Come la vita.
Vero, Abu?