Giunti ormai al via del mondiale di calcio, purtroppo non si parla solo di campo. Quello che sarà un mondiale unico, il primo ad essere disputato in inverno e il primo in un Paese del Medio Oriente, è finito nell’occhio del ciclone ancora prima di cominciare.

A scatenare una pioggia di critiche da tutto il mondo è stata un’intervista di Khalid Salman, ex calciatore e ambasciatore della manifestazione, che ha toccato temi delicati, come quello dell’omosessualità, definendola, senza tanti giri di parole, un disturbo mentale, assolutamente proibito in Qatar, dicendosi preoccupato soprattutto per i bambini, che devono restare lontani dagli omosessuali quasi fossero casi contagiosi. Queste parole hanno fatto immediatamente il giro del web, scatenando l’indignazione generale e una decisa critica alla manifestazione, in quanto il Paese ospitante violerebbe i diritti umani di queste minoranze, a cui vanno aggiunti anche quelli di donne e lavoratori.

Se la condanna di questa linea è sicuramente condivisibile, bisogna però chiedersi perché si sia arrivati ad un mondiale che pone queste condizioni. Perché su una cosa Salman ha ragione: “chi viene nel nostro Paese deve rispettare le nostre regole”. Questo vale per il Qatar come per ogni Stato al mondo, a prescindere dal fatto che le sue norme siano da considerare buone o cattive, giuste o sbagliate. Nessuno ha imposto di organizzare un mondiale in Qatar e farlo vuol dire accettare le sue regole. E qui si arriva al punto, perché lascia interdetti il fatto che alla Fifa vada bene tutto questo e abbia deciso di assegnare il mondiale a questo Paese. Che la massima organizzazione calcistica, che predica valori di uguaglianza, rispetto, inclusione sia dentro che fuori dal campo, abbia scelto un Paese in cui accenni di democrazia sono ancora sporadici per ospitare il suo evento più importante è decisamente contraddittorio. Dove sono quei valori, se poi per costruire i grandi stadi per il mondiale vengono lasciati morire più di 6000 lavoratori, mentre innumerevoli altri sono stati costretti a chissà quali condizioni di lavoro?
Per non parlare delle donne: dopo anni di sviluppo del calcio femminile e di lotta per la parità con gli uomini ecco che la Fifa manda tutti a giocare in un Paese in cui, fino a non molto tempo fa, le donne negli stadi non potevano mettere piede. Se sul campo il mondiale deve ancora iniziare, la partita per difendere questi valori è già stata giocata e persa, con la Fifa che non solo non è scesa in campo, ma si è schierata con gli avversari sacrificando la battaglia per i diritti umani sull’altare del denaro.

Sì, come capita sempre, sotto queste decisioni c’è sempre un interesse più grande, di natura economica. Non è una supposizione infondata, ma una conferma dello stesso Sepp Blatter, ex presidente Fifa che nel 2010 assegnò al Qatar il mondiale, che in un’intervista di questi giorni si è detto pentito della scelta, rivelandone in parte i retroscena. Non un’assunzione personale di responsabilità, attenzione, piuttosto una mossa di scarica barile nei confronti di Michel Platini, allora ex presidente e a detta di Blatter principale sponsor del mondiale qatariota. Dietro questa volontà di Le Roi ci sarebbe stata una forte spinta del governo francese, che aveva grossi interessi economici col governo qatariota. Così il voto di Platini e dei francesi del comitato Fifa portò nel 2010 all’assegnazione dell’edizione del 2022 al Qatar e, in cambio, sei mesi dopo, il governo qatariota acquistò aerei da combattimento dalla Francia per oltre 14 miliardi di euro.

Morale della favola, per quanto questa testimonianza di Blatter possa essere solo parziale, i sacri principi sbandierati dalla Fifa sono semplici ideali destinati a rimanere tali ed essere calpestati a piacimento da chiunque assecondi l’unico vero principio che purtroppo governa il calcio: il denaro.