«Patria mia, ti ricostruirò. Anche se con l’argilla della mia anima.
Sì, costruiremo una terra dove tutti sentano libertà e uguaglianza,
con i mattoni della nostra vita».
Masih Alinejad

Si affaccia sul Golfo Persico, è una delle più antiche civiltà del mondo, è l’Iran, terra persiana di despoti “illuminati”, di diritti negati e di eroi del pallone che dicono No.
Come Amir Nasr Azadani e Ali Daei, che hanno scelto da che parte stare, hanno scelto di non voltarsi dall’altra parte, hanno scelto di prendere a calci il regime. E adesso rischiano la vita, mentre a Teheran il presidente Ebrahim Raisi lancia il suo continuo anatema di morte: “Non avremo nessuna pietà”.
Amir Nasr Azadani, Ali Daei, il calcio non vi salverà, non può salvarvi. Ma non può starsene a guardare, l’ha già fatto abbastanza, lo ha fatto tutte le volte in cui si è girato dall’altra parte, purché si giocasse.
Eh no!
Voi non giocate, voi laggiù non vi voltate dall’altra parte. Voi vi battete per quel sentimento che è talmente forte, è talmente viscerale, è "talmente diritto”, da non poter essere barattato con l’indifferenza né con la paura. Vi battete per la libertà.
È cos’è la libertà? Ce lo spiegate proprio voi in questi giorni nefasti, di rabbia e dolore né impartite una lezione a noi che, grazie a Dio, o ad Allah (poco conta), quasi l’abbiamo disimparata, assuefatti ad essa come all’aria che si respira o al mattino dell’indomani.
Dalle nostre parti la libertà non è un lusso, non è un privilegio, non è una conquista. C'è e basta, come se non fosse il bene più prezioso, il più indefettibile, il più grande.  

Ai nostri atleti diciamo che è bello vederli cantare l’inno, ma se non lo fanno amen, o āmīn (poco conta). Dai nostri atleti accettiamo ogni esultanza, che sia strampalata o volgarotta o politicamente scorretta, anche se a volte la cosa ci fa storcere il naso. Ai nostri atleti non chiediamo per chi votano e se a qualcuno scappa di esclamare “Governo ladro”, magari ci facciamo sopra una risata o magari storciamo il naso di prima. I nostri atleti sono liberi di andare e venire come e quando vogliono e magari si beccano una multa dalla società se prendono un aereo in pieno campionato, ma non vengono fermati con moglie e figli e fatti scendere, come è accaduto a te, caro Ali Daei.
E certo, caro Amir Nasr Azadani, se un nostro atleta si macchiasse del reato di odio nei confronti di Dio, o “moharebeh” (poco conta), gli diremmo di andarsi a confessare; se si macchiasse di corruzione in terra, o “efsad-e fel arz” (poco conta), gli faremmo un processo, ahimè interminabile però equo; se si macchiasse di ribellione contro lo Stato, o“baghi” (poco conta) … beh, le nostre piazze sono piene di No vax, No tav e No ad ogni cosa che abbia a che fare col governo ladro di cui sopra.

La libertà!
Voi lottate per un bene supremo, qualcosa di cui ci si accorge solo quando manca. Come il tempo, come l’aria. Un bene universale. Un bene, il cui valore occorre tenere sempre bene a mente, senza mai dare nulla per scontato. Un bene, che noi troppo spesso, invece, diamo per scontato (ecco la lezione!). È nelle istituzioni che troppo spesso dileggiamo, è nelle regole che troppo spesso violiamo, è in quel voto da cui in troppi ci asteniamo.
Eppure, anche noi abbiamo dovuto conquistarcela, pagando un altissimo tributo di sangue e morti, pur di liberarci dal ventennio più nero della nostra storia.
Anche i nostri atleti lo hanno fatto, anch’essi (ecco, ricordiamolo) durante quel periodo dovettero affrontare l’oscurantismo dittatoriale.
Un famoso ciclista trasportò documenti, fotografie e lettere nel telaio della propria bicicletta, utilizzando l’alibi dell’allenamento per le sue scorrerie clandestine tra le colline toscane: si chiamava Gino Bartali.
Arpad Weisz, il giovane e vincente allenatore ungherese dell’Ambrosiana Inter e del Bologna, fu vittima, in quanto ebreo, delle leggi razziali in Italia e dell’eugenetica sportiva. Rifugiatosi nei Paesi Bassi, con l'occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale fu arrestato e deportato, dapprima nel campo di transito di Westerbork, quindi ai campi di lavoro e infine ad Auschwitz, dove trovò la morte per mano nazista. Ma non rinnegò mai, né cerco di nasconderla, la stella di David, anche quando dovette portarla sulla sua giacca, come una lettera scarlatta che significava morte.
Bruno Neri, mediano di Fiorentina e Torino, si rifiutava di “fare il saluto”. Gli stadi durante il fascismo erano diventati veri e propri “teatri di massa”, dove si radunavano folle oceaniche, cui poteva facilmente rivolgersi la propaganda del regime, che si esprimeva anche attraverso gesti simbolici, come, per l’appunto, l’imposizione dell’obbligo del saluto romano prima dell’inizio delle partite. Neri no, e da mediano lottatore si trasformò in combattente partigiano.
Ecco, anche noi, in un tempo lontano (ma non troppo) abbiamo avuto i nostri eroi dello sport.
Proprio come voi, oggi, cari Amir Nasr Azadani e Ali Daei.
Eroi. Ieri come oggi, in Italia come in Iran. Come in tutto il mondo e in ogni tempo, dal brasiliano Socrates e la sua Democrazia corinthiana al siriano Al-Sarout e le sue proteste contro Assad, dall'argenitno Carrascosa e il suo No a Videla al leggendario austriaco Sindelar e il suo antinazismo. Siamo tutti figli di quello stesso seme chiamato fratellanza, allattati con quello stesso latte chiamato uguaglianza, dalle stesse mammelle di mamma libertà.
Eroi, sì! Una parola abusata, declassata, spesso maltrattata nel suo più intrinseco valore semantico. Eppure, non potrebbe essercene una più appropriata a voi due. Perché non c’è nulla di più eroico che sfidare un gigante, che ti schiaccia se solo lo vuole e quando e come lo vuole. Ma non è solo eroismo, no. È il bisogno di libertà, intimo, viscerale, connaturato con la nostra stessa condizione umana, che ci spinge a sfidarlo, quel gigante.
Voi lo fate, cari Amir Nasr Azadani e Ali Daei. Lo fate per la libertà.
La libertà dall’oppressione di un regime che ammazza la povera Mahsa Amini, rea di non aver indossato il velo come Dio, o Allah (poco conta), comanda. La libertà da leggi coraniche diffuse come “assiomi oppiacei di massa”. La libertà dalla pressa prepotente che ancora oggi schiaccia i diritti civili, li accartoccia e li cestina, in nome d’una rivoluzione khomeinista che continua il suo teocratico dispotismo coi discepoli e gli adepti dell’ayatollah.
Libertà!
Libertà di Toomaj Salehi, di reppare ciò che vuole senza dover finire in prigione. Libertà degli studenti iraniani, di scendere in piazza e dire no. Libertà dei blogger, di scrivere, pensare, raccontare senza dover scappare. Libertà della Cultura, d'immaginare, raffigurare, interpretare, sognare. Libertà delle donne, d’indossare o meno uno “stramaledettissimo” velo, di essere donne!
Libertà di una squadra di calcio, di non intonare l’inno perché in quelle note non c’è la loro nazione, bensì l’eco di morte e repressione. Avevano tutto il diritto di rifiutarsi di cantare versi e paradossi come “Il tuo messaggio, oh Imam, d’indipendenza e libertà ...”. Avevano tutto il diritto di esultare simulando il taglio dei capelli. Avevano tutto il diritto di giocare al pallone per sé stessi, per il loro popolo e non per la Repubblica iraniana. Eppure, glielo hanno impedito, con l’arma della paura; e il governo del calcio non ha fatto niente, si è semplicemente voltato dall’altra parte.
No, cari Amir Nasr Azadani, Ali Daei, il calcio non vi salverà.
Ma qui, tra queste righe, gridiamo assieme a voi, lottiamo assieme a voi. Perché “vi sono momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre”. Lo disse Oriana Fallaci, una che intervistò Khomeyni togliendosi platealmente il velo che le era stato “chiesto” d’indossare. Una che non si è mai voltata dall’altra parte. Una che ha fatto la sua parte. E che parte!

Anch’io, modestissimo blogger letto da quattro gatti, voglio fare la mia modestissima parte. Voglio raccontarvi. Come stanno già facendo alcune testate sportive, italiane e internazionali, perché per fortuna c’è un calcio che non si volta dall’altra parte, che racconta, che denuncia, che grida.
Come grida Masih Alinejad, l'esule giornalista, vostra connazionale, che nel raccontare l’insurrezione sfida il potere, mostrando orgogliosa i suoi capelli; come se tra quei ricci vi fosse la ciocca di capelli che la povera Mahsa Amini aveva fatto fuoriuscire dall'hijab, subendo per questo una barbara esecuzione. Quei capelli sono lì, quella ciocca non desiste, è immortale ormai, e insorge, assieme a migliaia di donne che gridano il nome di Mahsa come sinonimo di libertà. Quei cappelli sono lì, sono i capelli di Sara Khadim al-Sharia, la campionessa venticinquenne di scacchi che ha sfidato gli ayatollah giocando ai Mondiali in Kazakhstan senza indossare l'hijab, il velo obbligatorio. Proprio così: un altro ciuffo di capelli come sberleffo ai conservatori iraniani e al presidente Ebrahim Raisi; come un grido di libertà, più fragoroso dell’urlo del Mel Gibson - William Wallace, che muore sul patibolo.

Le stesse grida che echeggiano dalle vostre azioni, cari Amir Nasr Azadani, Ali Daei. Azioni da veri campioni. Ardimentose quanto una disperata scivolata in area di rigore, determinate come uno scatto sulla linea laterale, rabbiose più di un tackle, generose come un assist, gloriose quanto un gol all’ultimo minuto. Sono le vostre azioni e, proprio perché vostre, valgono doppio.
Dicevo, anche io voglio fare la mia parte. Voglio raccontarvi.
Ali Daei.
Oggi allenatore, ha alle spalle una fulgida carriera da attaccante, tutto gol e potenza fisica. Ha giocato in Bundesliga, tra l’Arminia, il Bayern (con cui vinse il campionato tedesco, la Coppa di Germania e la Coppa di Lega tedesca) e l’Hertha Berlino. Eletto calciatore asiatico dell'anno nel 1999, è considerato un simbolo del calcio iraniano, nonché uno dei calciatori asiatici più forti di ogni epoca; ed è il secondo giocatore con più presenze nella nazionale iraniana e il secondo migliore marcatore di una nazionale di calcio di tutti i tempi (il primo è CR7).
Ha partecipato a due fasi finali del Mondiale: a Francia ‘98 e, all'età di 37 anni, a Germania 2006. Della nazionale è stato capitano e numero 10 (e poi anche allenatore). Ha preso parte ai Giochi asiatici 2002, vincendo l'oro e segnando tre reti in tutta la competizione. È stato inoltre il primo asiatico a disputare una partita di Champions League.
Quando ha smesso di giocare si è costruito uno stadio tutto suo e gli ha dato il suo nome: ad Ardabil, la città dove è cresciuto, c’è l’Ali Daei Stadium, ventimila posti, che ha pure ospitato un match della nazionale. Laureato in ingegneria dei materiali, si è da subito schierato contro il potere iraniano di Ebrahim Raisi. All’inizio di dicembre gli erano stati sequestrati un ristorante e una gioielleria, prima ancora era stato arrestato e poi rilasciato su cauzione. Nei giorni scorsi il volo della Mahan Air, il W563 da Teheran a Dubai, a bordo del quale si trovavano i suoi familiari, è stato bloccato e fatto atterrare sull’isola di Kish dalle autorità iraniane, che hanno di fatto impedito alla famiglia del campione di lasciare il paese.

Amir Nasr Azadani
Lui non è un calciatore famoso come Ali Daei. A dire il vero è un calciatore a metà. Nato nel 1996 ad Isfahan, esordisce nella Persian Gulf Pro League iraniana nel 2015 con la maglia del Rah Ahan. La squadra a fine campionato retrocede, ma lui si fa notare (nonostante le sole 3 presenze), tanto da essere ingaggiato dal più quotato Tractor Sazi di Tabriz. È un terzino che ama attaccare, inizia alla grande la sua seconda stagione con 13 presenze e due gol, finché non si rompe un crociato. Messo alla porta dal Tractor, trova un ingaggio al Gol-e Reyhan di Karaj, che milita nella Azadegan league (la serie B). Non fa nemmeno in tempo a tornare, che il suo ginocchio cede di nuovo nel 2021.
Torna sotto i ferri e, di fatto, smette di giocare a calcio a soli 25 anni, con meno di venti presenze in cinque anni nella Persian Gulf Pro league. Dopo il suo addio forzato al calcio, come accade in questi casi, di lui si perdono le tracce.
Nel frattempo, in Iran il contesto cambia, in modo addirittura più veloce di quanto non sia cambiata la sua carriera. Lo scorso 17 novembre l’agenzia di stampa iraniana Tasnim, legata al corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica (Irgc), riportava la notizia dell’uccisione, durante una giornata di proteste ad Isfahan, del Colonnello Esmail Cheraghi e di due volontari basiji Mohsen Hamidi e Mohammad Hossein Karimi. Tre giorni dopo, in un notiziario pomeridiano dell’agenzia statale Irna, viene lanciato un servizio, nel quale compaiono confusamente quattro individui bendati e rivolti contro il muro, come fossero in attesa di un’esecuzione. Tre di loro, dice il servizio, sono i “terroristi” appena arrestati per il triplice omicidio di Isfahan, che “hanno confessato”. Non vengono fatti i loro nomi, ma nelle ore successive sui social iniziano a circolare e tra questi c’è pure Amir Nasr-Azadani, 26 anni. La sua famiglia viene informata che Nasr-Azadani verrà condannato a morte, insieme ad altre 46 persone.
Da quel momento gli appelli alla “clemenza” si sono susseguiti da più parti, da quello ufficiale della FifPro (il sindacato di categoria) alle dichiarazioni di diversi ex giocatori e allenatori, tra cui Toshack, che ha allenato Amir al Tractor. Inoltre, una poderosa levata di scudi è stata portata avanti dal prestigiosissimo quotidiano spagnolo, Marca, il quale ha deciso di dedicare la prima pagina ad Amir, accompagnando la sua foto con la maglia del Tractor Sazi e un perentorio virgolettato: “Amir non è un terrorista e va liberato”.
Ma intanto, come ripotato dalla CNN, un testimone oculare ha detto che sulla piazza Shahid Alikhani di Isfahan (città natale del calciatore) è stata allestita una pedana per le impiccagioni. Preghiamo per te, Amir. Preghiamo il nostro e pure il tuo Dio, se serve. E per te, Ali.
E per tutti gli altri iraniani, che in questi giorni di buio pesto accendono, col dissidio, una luce di speranza. Di libertà.
Come un altro futbolista, Ali Karimi, ex fantasista,125 partite in nazionale, anche lui un passato nel Bayern tra il 2005 e il 2007, il “Maradona d’Asia. Lui ha già alle spalle una lunga storia di irrequietezze contro il regime, a partire da quando, durante un match contro la Corea del Sud, indossò insieme ad altri calciatori il bracciale verde, simbolo di protesta contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad nel 2009; o come quando ingaggiò un accesissimo scontro verbale con un comandante dei Pasdaran. Secondo il Times, ha confessato ad alcuni amici di sentirsi in pericolo per la sua vita, pare sia stato raggiunto da un mandato di cattura a Dubai, dove vive con la famiglia. Il tutto per essersi schierato a favore dei manifestanti: “I nostri figli stanno morendo. Chi resta rischia la morte”.
Già! E lui il carcere.
E ancora, per non dimenticare:
Hossein Mahini: ex capitano del Persepolis;
Kaveh Rezaei, attaccante titolare del Tractor Sazi;
Hamidreza Aliasgari, 32enne centrocampista, ex capitano del Persepolis; Voria Ghafouri, fermato dagli agenti mentre si trovava al campo d’allenamento del Foolad;
Parviz Broumand, ex capitano dell’Esteghlal ed ex secondo portiere del Team Melli;
Mohammad Ghaemifar, promettente portiere delle giovanili del Dezful (si stava preparando a trasferirsi in un club di massima divisione, il Zob Ahan, quando è stato raggiunto alla schiena dai proiettili delle forze di sicurezza);
Soroush Rafiei, capitano del Persepolis, pestato dagli agenti di sicurezza;
Aref Gholami, difensore dell’Esteghlal di Teheran, tra i primi a criticare la repressione delle proteste, messo fuori rosa, senza nemmeno la possibilità di allenarsi.

Ormai neanche il pallone può salvarvi. Le nostre preghiere chissà, le nostre grida chissà. Ma almeno saprete che non siete soli.
Noi preghiamo e gridiamo assieme a voi, perché siamo quella parte sana del calcio che non si volta dall’altra parte.