Nel calcio, anzi, nello sport in generale, stiamo vivendo anni in cui l'avanzare dell'età sembra non avere più un peso specifico importante. Atleti che sfruttando i passi in avanti della medicina sportiva, intesa come metodologia di lavoro, stile di vita, programmi personalizzati, mental coach, e una dose massiccia di costanza e professionalità, riescono ad andare oltre i limiti che erano stati un punto di arrivo per tutti in passato.
Nel calcio, fino a qualche anno fa, i 32 o 35 anni erano una sorta di traguardo che una volta raggiunto, i calciatori appendevano le cosiddette "scarpe al chiodo", una sorta di immagine astratta che rappresenta l'immagine di un calciatore che aveva chiuso col calcio. Così più o meno capitava in molti altri sport.
Oggi ci troviamo di fronte a scenari completamente diversi, con atleti che a 35 anni ancora si sentono all'altezza di essere protagonisti e che sono pronti ad arrivare tranquillamente a 40 anni ancora da protagonisti.
Giocatori pronti a dare battaglia alle giovani leve e a lottare per un posto in squadra in barba alla carta d'identità.
E così in altri sport, vecchietti terribili sempre pronti a battagliare su ogni aspetto.

Ma è veramente un bene? È veramente una cosa positiva?
Partendo dal presupposto che ogni persona, ogni atleta è libero di gestire e fare le scelte che più ritiene opportune per sé stesso e per la propria vita o professione, mi chiedo, a parte a loro e al loro conto corrente a chi fa bene assistere a questi "Highlander" dello sport? È una cosa positiva vedere gente come Totti o Del Piero, scaricati dalle proprie società a 40 anni, perché loro si sentivano ancora competitivi, ma evidentemente hanno costretto le rispettive società a prendere la decisione per loro?
È positivo vedere un Buffon terminare la sua incredibile carriera stando seduto in panchina a fare il dodicesimo? Era necessario? A chi giova un Valentino Rossi che bazzica tristemente a metà classifica e a centro gruppo ad ogni gran premio, con giovani piloti costantemente che terminano davanti a lui?
Un Roger Federer, immenso campione di tennis, inimitabile, che arrivato ad un passo dalla leggenda con quei due match point nella finale di Wimbledon quest'anno, avrebbe sancito il suo inarrivabile talento, che però un certo Djokovic ha annullato e poi portato a casa lui il trofeo, ha accusato il colpo, ma continua a girare per i campi da tennis di tutto il mondo collezionando eliminazioni, anche da tennisti di secondo livello?
In Formula 1, il ritorno alle gare dopo l'addio del mito Schumacher che in Mercedes con mediocri risultati che nulla hanno aggiunto alla sua incredibile carriera, ora assistiamo all'agonia di Kimi Raikonen.

Mi chiedo, perché una volta i campioni sapevano quando era il momento giusto per dire basta e lasciavano da campioni, lasciando ai tifosi un ricordo indelebile, vincente e senza macchie?
Oggi tutti si sentono eroi immortali, credono che ciò che hanno fatto di buono nella carriera sia una sorta di reddito vitalizio che gli possa consentire di andare oltre tutto.

Personalmente preferirei che gli atleti tornassero coi piedi per terra e si sentissero più umani e normali, e che sapessero trovare il momento giusto per dire basta, senza allungare troppo un inevitabile declino che possa offuscare ciò che di buono hanno lasciato nei nostri cuori.



Massimo Perin