Dopo la partita contro i modesti, ma onesti, irlandesi settentrionali, l'Italia scoprì di dover passare dai play-off per giocare i mondiali. Mancini tuonò che intendeva andare a vincere la manifestazione mondiale in Qatar. Lo stato di alterazione del ct azzurro era evidente e preoccupante.

Sì, era preoccupante, perché, se non riesci a fare meglio della Svizzera in un girone di qualificazione, forse devi prima porti il problema degli avversari che incontrerai negli spareggi cui sei stato costretto. In un secondo momento, a qualificazione raggiunta, potrai ricordare a tutti di essere Campione d'Europa. Arrivato secondo dopo la Svizzera pareggiando a Belfast, forse è meglio che chiudi la sala dei trofei di caccia, per poi riaprirla in un momento più propizio. In certe situazioni è inopportuno fare il Rodomonte, il Capitan Matamoros, il Miles Gloriosus, così tanto per citare qualche figura di proverbiale smargiasso nella letteratura e nell'arte.
Per giustizia, Mancini non è l'unico tecnico nella storia della Nazionale che, dopo aver vinto, si convince di essere invincibile e non accetta l'idea di essere un semplice mortale.

C'erano dei signori che la sapevano lunga su come vanno le cose del mondo ovvero gli antichi Romani. Avevano studiato un interessante modello di festeggiamento in pompa magna per i generali reduci da imprese memorabili: il trionfo. Il generale sfilava per le vie dell'Urbe su un cocchio, seguito dalle proprie truppe. D'altro canto, alla pompa magna, faceva da contraltare uno schiavo che, per tutto il tempo, stava accanto all'uomo del giorno e gli ripeteva "ricorda che sei solo un uomo". I soldati, a loro volta, potevano sbeffeggiare a piacimento i loro leader, come fecero i legionari di Cesare quando ironizzarono in maniera pesante sulla vita, diciamo così, intima del loro capo.
Il problema è che l'Urbe è cosa passata e noi siamo Italici contemporanei che ricaschiamo sempre nell'errore di prendere lucciole per lanterne.
Lasciamo da parte Vittorio Pozzo, vincitore di 2 mondiali consecutivi, ma nel ventennio, in un'epoca in cui la Nazionale contava molto più dei club. E lasciamo da parte Ferruccio Valcareggi, finalista in Messico contro il Brasile dopo la vittoria nei Campionati Europei del 1968, un tecnico che ha saputo dare continuità al successo prima di cadere a sua volta. Arrigo Sacchi, dal canto suo, non ebbe tempo di prendere lucciole per lanterne, visto che, nonostante la finale persa ai rigori contro il Brasile (mica contro la Macedonia), fu snobbato subito come un miracolato dalla presenza di Baggio. A parte questi, ci sono, tuttavia, diversi e illustri esempi dell'incapacità italica di gestire il successo e inquadrarlo nella giusta ottica.

Dopo il Mundial del 1982, l'Italia campione inanellò 4 anni di figure penose, finendo esclusa dai successivi europei e uscendo contro la Francia ai mondiali del 1986 (fra l'altro, soffrì più del dovuto contro la Corea del Sud nel girone a 4). Bearzot le aveva azzeccate tutte in Spagna con una squadra che aveva dato il 200%. Era stato bravo e lo ricordiamo ancora tutti con stima e affetto. Enzo Bearzot, tuttavia, non era invincibile e non fu in grado di dare un'identità a chi doveva subentrare agli eroi di Madrid. Si convinse, invece, di essere entrambe le cose, per colpa di una clacque che per 4 anni chiuse gli occhi intonando il Te Bearzutum.
Dopo i mondiali del 2006, Lippi ebbe un'idea geniale: andarsene al massimo della gloria. Fece l'errore di pentirsene, vedendo che Donadoni portava la sua squadra agli Europei e ne usciva con onore ai rigori, battuta da una Spagna che stava iniziando il suo ciclo d'oro.
Si sopravvalutò convinto che, se l'ex-tecnico del Livorno era riuscito a fare tanto, con quel gruppo lui avrebbe rivinto il Mondiale. Tutti lo pensarono e Donadoni fu spedito a casa come se avesse perso contro... la Macedonia. Il tecnico bergamasco, però, probabilmente si accomodò sulla sponda del fiume per veder passare un bel po' di cadaveri durante la rassegna mondiale in Sudafrica. Fra quei cadaveri ci fu anche Lippi.

Mancini non ha saputo ascoltare il campanello d'allarme del match casalingo contro la Bulgaria in agosto, un 1-1 pesantissimo, che ha tolto agli azzurri i punti decisivi per vincere il girone. E che non voglia tuttora fronteggiare la realtà, è dimostrato dal fatto che, ancora ieri sera, si chiedeva come avesse fatto l'Italia ad arrivare dietro la Svizzera. Semplice, caro c.t., hai pareggiato in casa contro la Bulgaria. Ad alti livelli, sono i particolari che fanno la differenza.
Come Bearzot e Lippi, Mancini è un tecnico di valore, perché non si vincono a caso i Mondiali o gli Europei. Ma come i suoi colleghi, non ha saputo dare il giusto peso alla vittoria.

Non siamo Romani di 2000 anni fa bensì, come ho scritto su, Italici contemporanei, cui nessuno ricorda mai che siamo solo uomini e non entità divine. Ecco perché ieri, all'Italia è toccato cenare con un menù a base di frittata e Mecedonia. Un pasto che, in sé sarebbe gustoso ed energetico, ma che si è rivelato indigesto come una peperonata ingurgitata senza freni e masticando poco.

La Macedonia era squadra modesta, ma onesta, come l'Ulster (anzi l'Irlanda del Nord, ma nei Tg degli anni '70 si parlava sempre Ulster e io sono un nostalgico). Era così modesta da tirare una sola volta a rete in 90', ma così onesta da avere l'umiltà di difendersi nella speranza che accadesse qualcosa a suo favore. E quel qualcosa è  accaduto, in quanto gli dei, come Erodoto sapeva, puniscono la hybris dei mortali quando credono di essere diventati dei. Li fanno cadere rovinosamente ricordando loro che sono solo uomini, visto che non c'è sempre lo schiavo a farlo.
Del resto, per non fare della ridicola laudatio temporis acti, non è che i generali romani vittoriosi facessero sempre tesoro delle parole dello schiavo. Cesare dimenticò presto di essere uomo e si fece tanti di quei nemici che trovò la sua Macedonia il giorno delle Idi di Marzo del 44 a.C. sotto la statua di Pompeo Magno in Senato. Gli somministrarono 33 colpi di pugio, laddove ai Macedoni dei nostri giorni, contro l'Italia, ne è bastato uno.

In un certo senso, l'Italia del primo (e ormai ultimo) play-off è riuscita ad assommare due fattori negativi, teoricamente incompatibili, in un'accoppiata paradossale e letale. Innanzitutto, c'era l'idea che lo scontro con la Macedonia fosse una formalità, perché se... punti a vincere il Mondiale, è scontato che tu batta un avversario come la formazione balcanica, magari ridendo e scherzando. Dall'altro lato, c'era l'ancestrale spettro della Corea de Nord che aleggiava nell'inconscio collettivo degli azzurri. Se sai che hai già vinto, ma ricordi di aver perso in passato partite già vinte, sei sulla strada giusta per andare in confusione. E' stata una miscela paradossale, ripeto, e assolutamente letale.

Capello una volta ha detto che l'allenatore conta al massimo per il 20%. E' tantissimo
, se si pensa che è un uomo solo e, quando un uomo solo conta per il 20%, magari anche solo per il 10%, può essere decisivo in un contesto con più di 20 giocatori, dirigenze varie e personale dello staff tecnico, medico e atletico.
Il tecnico è come un generale, che può vincere anche in condizioni di inferiorità, come Annibale, o andare incontro a disfatte quando le sue forze sono superiori, come Crasso a Carre contro i Parti.
Si potrebbe pensare che sia un segno di ingratitudine criticare Mancini un solo anno dopo la vittoria, ma non lo è. La Nazionale Azzurra non può perdersi nella gratitudine
, perché ha pur sempre vinto 4 Campionati del Mondo e 2 Campionati Europei, più svariate finali e semifinali in entrambe le competizioni. Se ci si siede su quella panchina, bisogna essere pronti al trionfo come alle critiche.

La Nazionale Azzurra non è una comitiva.
E poi, devo ribadire ciò che ho scritto una volta parlando di Pioli: i veri nemici di un tecnico non sono coloro che lo criticano, che lo facciano a torto o a ragione. Quelli sono gli amici, perché l'amico è colui che ti tira per la giacca quando crede che tu stia sbagliando. I veri nemici sono quelli che ti esaltano sempre, qualunque cosa tu faccia, o che ti fanno da clacque.
Parlando di clacque, uno dei danneggiati dai propri ammiratori è stato Gianluigi Donnarumma, detto Gigio. Spettacolare ed efficace nella parata d'istinto, è da sempre vulnerabile quando deve seguire l'azione.
Il tito macedone di ieri era forte, teso e angolato, ma è stato scoccato da quasi 30 metri e la visibilità del portiere era perfetta. Se parti in ritardo, come è capitato tante volte a Gigio anche quando era in rossonero, fai la figura del pollo. Ma quando per anni sei il migliore del mondo, il più forte d'Europa e il titolare in nazionale dei prossimi 20 anni, forse il senso della realtà va a farsi benedire.
Lo affermavo prima che Donnarumma lasciasse il Milan e continuo a dirlo oggi.