Era nata così, tra due birre, sei taralli e decine di chiacchiere. “Allora siamo d’accordo per domani mattina. Facciamo filone a scuola e andiamo. Fatevi trovare alle otto sul Triangolo”. Il Triangolo era un giardinetto – di forma triangolare, da cui il nome – posto all’altezza di un bivio. La metropolitana distava un centinaio di metri da lì, non di più. 

La mattina alle otto in punto c’eravamo tutti: ‘O Prete, Attiliuccio, Mezarecchia e ‘O Sciampagne, il sottoscritto. Gli zaini della scuola strategicamente alleggeriti. Tra sbadigli e occhi carichi di sonno, ci avviammo alla stazione. Il treno partì quando avevamo appena poggiato i glutei sui seggiolini. Attiliuccio, il più grande di noi, ci spiegò il tragitto: “Scendiamo a Montesanto, prendiamo la circumflegrea e arriviamo a Soccavo”. Annuimmo tutti, fidandoci dell’unico di noi che già era stato al Centro Paradiso, il luogo dove il Napoli si allenava fin dai primi anni Settanta. Il centro sportivo reso famoso da Maradona, che era solito palleggiare e fare rovesciate nel fango quando la pioggia faceva capolino a Napoli. In quel centro era nato il Napoli degli scudetti, El Pibe aveva fatto magie che ormai oscillano tra storia e leggenda, senza capire dove finisca la prima e cominci la seconda.

Attiliuccio era stato fortunato: lui, Maradona al Paradiso, lo aveva visto davvero. Per noi, invece, quella mattina ci sarebbe stato l’esordio in quel luogo magico. Arrivammo a Montesanto che il sonno se n’era andato a dormire, lasciando posto all’eccitazione. Salimmo sulla circumflegrea e ci piazzammo vicino alle uscite. Attiliuccio era stato chiaro: non sediamoci e buttiamo un occhio a destra e sinistra, se vediamo il controllore scendiamo a Piave, la fermata prima di Soccavo. Non avevamo fatto il biglietto: spendere duemila lire a cranio per fare due sole fermate, dopo aver già pagato altre duemila lire per arrivare da Pozzuoli a Montesanto, sembrava assolutamente eccessivo a quattro adolescenti che avevano i primi peli di barba in faccia.

Come se fosse scritto nelle stelle, il controllore comparve nella carrozza prima della nostra. “Guagliù, eccolo là!”, sibilò Mezarecchia. “Tranquilli, siamo quasi a Piave, scendiamo!”, ci rassicurò Attiliuccio. Così facemmo: saltammo giù dal treno e l’aria fresca di quel principio di Ottobre del ’93 ci parve purissima. Facemmo ripartire il treno e raggiungemmo la stazione di Soccavo a piedi, camminando sui binari. Una strada dritta, ma in salita: sento ancora le proteste del Prete, “Meno male che era vicino, Attilio...”.

Con le lingue di fuori arrivammo a Soccavo. Dalla stazione dovevamo raggiungere il Centro Paradiso. Seguivamo il nostro Cicerone, che però non sembrava ricordare bene la strada. Spuntammo di fronte a un bar. “Guagliù, prendiamoci un caffè. E chiediamo al barista dove sta il campo”. Così facemmo, il caffè bollente ci diede conforto e il barista ci spiegò per bene il tragitto per il centro sportivo. Pagammo, ringraziammo e salutammo. Io ero davanti a tutti, uscii dal bar con la mente concentrata sul tragitto e non mi resi conto dello scooter che stava arrivando alla mia destra. Sentii la sgommata, il pneumatico che graffiava l’asfalto, mi voltai di scatto e vidi che lo scooter aveva inchiodato a pochi centimetri da me. “Tutto a posto?”, mi chiese il tizio alla guida, un biondino poco più che ventenne. “Tutto a posto”, confermai a fatica, visto che il cuore pulsava a pochi centimetri dalla mia gola. “Eh, stai più attento quando esci dal bar… ti stavo buttando sotto”. Girò la manopola dell’acceleratore e se ne andò via, senza aspettare che io gli dessi ragione o protestassi. Lo vidi piegare a sinistra e imboccare la curva che ci aveva indicato il barista, da lì si arrivava al centro Paradiso.

Mi voltai verso i miei compagni di viaggio. Mi guardavano con gli occhi sgranati e i sorrisi scemi dipinti sul volto. “Beh? Che tenete da guardare?”. Attiliuccio mi si fece vicino. “Sciampà, ma tu hai capito chi era chillo?”. No, non avevo capito. “Era Luca Altomare!”. “Chi? Altomare? Overament?”.

Era vero. Me ne resi conto quando arrivammo al Centro Paradiso. Il cancello era chiuso, Lippi non voleva che le persone potessero accedere al campo e vedere l’allenamento. Non era un problema, per noi: Attiliuccio conosceva una strada in mezzo ai campi che girava intorno al centro e ci consentiva di vedere l’allenamento salendo sugli alberi dietro alla porta difesa da Taglialatela. Camminammo su quel terreno umido e la terra si infilò nelle nostre scarpe, bagnandoci i calzini di spugna. Arrivammo dietro la porta e salimmo sugli alberi. Facemmo un po’ di rumore, visto che Taglialatela si girò verso di noi. “Pino! Grande Pino!”, urlò Mezarecchia. Taglialatela avvicinò l’indice alla sua bocca e poi ci fece l’occhiolino. Traduzione: statevi zitti sennò vi sgamano e vi fanno andare via. Così facemmo: in un silenzio tombale vedemmo l’allenamento fin dalle prime battute. E io vidi quel biondino che mi stava buttando sotto col suo scooter muoversi a centrocampo, farsi dare la palla e dettare i ritmi, spesso allargando il gioco a destra dove imperversava un imprendibile Paolo Di Canio.

Quello era un Napoli già disastrato. A fine anno ci saremmo qualificati per la Coppa Uefa nonostante i calciatori avessero messo in mora la società. Ferlaino aveva parecchi stipendi arretrati da pagare e debiti fino al collo. Quei calciatori, molti dei quali in prestito o comunque destinati a lasciare presto Napoli, erano però degli uomini e dei professionisti esemplari. Non tirarono mai indietro la gamba, lottarono in ogni partita e alla fine ci portarono in Coppa Uefa.

E quel centrocampista biondino poco più che ventenne tre giorni dopo scese in campo da titolare contro l’Udinese al San Paolo. Dopo dodici minuti di partita tirò una cagliosa sotto al sette e realizzò il suo primo goal in serie A. La palla si insaccò all’incrocio dei pali sotto la Curva A. In quella curva c’erano Attiliuccio, Mezarecchia, ‘O Prete. 

E c’era ‘O Sciampagne, il sottoscritto.