Una bomba, un’autostrada, la deflagrazione come il triplice fischio…
Ci sono giorni che rimangono scolpiti nella pietra del tempo, ci sono uomini che trascendono la morte e diventano un’idea, ci sono nomi che si mescolano al destino e rimangano per sempre patrimonio di tutti. 

Ci sono gesta che Dio o il Fato regala ai narratori, per farne storie per sempre. Le gesta di campioni assoluti, osannati, acclamati, tifati più di mille fuoriclasse. Giovanni Falcone è il nostro fuoriclasse, le sue gesta sono il racconto più bello che il destino potesse donare ai pupari di oggi e ai rapsodi di domani. 
Ci sono eventi, eppur funesti, che da tragedie si convertono in ricordo ostinatamente rinnovato, da lutti in manifestazioni di cuori e di colori, da stragi in iconico simbolo di resilienza. 
Così è la sua morte: ci sconvolse, ci stordì, ci annichilì, ma ci riunì tutti lá, fuori dalla cattedrale, a gridare il suo nome; ed è diventata la catarsi di una Terra e delle sue generazioni. 

Oggi commemoriamo la strage di Capaci. In Sicilia, a Palermo, nel mondo. 
Una bomba, un’autostrada, la deflagrazione come il triplice fischio di una partita persa, la partita della vita e di vite spezzate come fuscelli innocenti da un tornado senza pietà.
Sembrava finita, qualcuno stappava bottiglie di champagne, festeggiando la vittoria letteralmente schiacciante. Ma un intero popolo scoprì che la partita non era ancora persa, che quello era solo il principio, che (come cantava il catanese Battiato) c’è sempre un’alba dentro l’imbrunire. Solo che è difficile trovarla. 

Una bomba, un’autostrada, la deflagrazione come il triplice fischio di una partita senza regole e senza arbitri, dove un gol segnava il confine tra la libertà e le catene, dove le divise eran solo di chi moriva, dove gli spalti eran gremiti di tifosi ammucciati, chi per convenienza chi per sopravvivenza. 
Da una parte un magistrato, la sua scorta, i suoi sogni d’una Sicilia libera.
Nell’altra metà campo, maglia nera e calzoncini neri e calzettoni neri e facce nere, la mafia e il suo pazzo sogno di prevaricazione, potere e ricchezza sporca.
Sporca come la pioggia di detriti e brandelli caduti giù come rane da un cielo di Magnolia. Sporca come le coscienze di chi ha premuto quel pulsante. Sporca come una partita truccata, dal funesto risultato ormai segnato. Sporca come i meandri silenziosi di uno Stato che non grida, Lui no; al massimo bisbiglia e son bisbìgli che fanno male. Sporca come l’asfalto deflorato in una voragine senza senso ed umana ragionevolezza.

Sporca, di sangue. Sangue sulle maglie di campioni mai abbastanza pianti. Sangue sulle mani arbitrarie di chi aveva già deciso. Sangue sulla strada. Come un campo che non dà grano ma vermi e morte. Come un macabro campo di calcio dalle righe sghimbesce, l’erbaccia ingiallita e le porte arrugginite.
Pioggia e ruggine: era il cielo di Palermo, quel pomeriggio di trentun anni fa. E fuliggine, che ancora aleggia nelle nostre memorie. 
Memorie che si fanno gambe che marciano, mani che si levano al cielo, petti che si gonfiano all’unisono, occhi che brillano della stessa luce, lo stesso bagliore, lo stesso sole. 

Il sole di Sicilia, che alla fine ha prevalso sulle nubi e i nebulosi piani di prepotenza; alla fine i suoi raggi puliti hanno oltrepassato il muro gommoso dell’omertà e dell’infamia, scaldandoci il viso di democrazia ristabilita, di civiltà conquistata, di giustizia ottenuta. 
Perché quell’esplosione, che oggi noi ricordiamo, ha prodotto un boato talmente forte da farci dire basta. Ci siamo alzati, ci siamo destati, siamo saltati in aria tutti quanti e tutti quanti siamo morti e poi rinati, al grido NO Mafia. Un grido scritto a caratteri cubitali proprio lì, dove un pulsante arrogante pensava di aver la meglio sulle pulsazioni d’infiniti cuori ribelli. 
Come una tifoseria per troppo tempo rassegnata a una città da serie C, abbiamo pianto il nostro fuoriclasse e abbiamo contrattaccato, senza bombe, senza pistole, senza violenza, ma con la sola forza dirompente delle nostre stesse coscienze. 
Quelle stese sui lenzuoli bianchi, penzolanti da balconi sfrontati; quelle urlate al cospetto dell’ennesimo feretro, bardato di mesto tricolore; quelle che sfilano in cortei che urtavano l’ultima primula prima d’esser catturata (ed è per per questo che ne organizzeremo uno e uno di più). 

Ricordiamo Giovanni Falcone, ricordiamo il nostro fuoriclasse, che amava il calcio e prese a calci i mafiosi.
Un fuoriclasse siciliano, a cui intitolare stadi, strade, aeroporti, luoghi e laghi. 
Come il numero uno dei portieri, è saltato in aria, sì, ma è rimasto lì per sempre: aquilone color arcobaleno, legato al filo sottilissimo dell’immortalità. Come il migliore dei difensori, ci ha difeso arcignamente contro chi voleva schiacciarci in un’area di rigore sempre più angusta e schiacciar le nostre teste. Come il più audace dei fluidificanti, ha investigato spingendosi oltre oceano, correndo più veloce del vento e dei suoi infidi mulini. Come un regista dai piedi buoni, ha giostrato tra serpi e veleni, è rimasto a testa alta tra mandati e mandanti, ha smistato con maestria fascicoli farlocchi e specchi per le allodole
Come un estroso fantasista, ha acceso la luce nelle stanze buie di Palazzi incancreniti di paura e connivenza. 
Come la più potente delle punte, ha siglato centinaia di reti, mentre uomini incappucciati per sicurezza esultavano rabbiosi ed altri, incappucciati per latitanza, gemevano rabbiosi. 
Come il più speciale degli allenatori, ha diretto un squadra di magistrati che ha scritto una delle pagine migliori della storia giudiziaria del nostro Paese: il maxi processo. 

Sì, è proprio un fuoriclasse il nostro Giovanni. E come tutti i fuoriclasse a lui è riservata l’immortalità. Perciò oggi non commemoriamo la morte di un magistrato, bensì ricordiamo la vita eterna di Giovanni Falcone. Le sue idee camminano e cammineranno per sempre sulle nostre gambe. 
Gambe non certo da fuoriclasse, ma che, grazie a lui, hanno imparato a correre (in questura a denunciare un illecito), a dribblare (la prepotenza di chi ci chiede il pizzo), a tirare (fuori gli attributi e dire No), a smarcarci (dalle zone grigie del perbenismo di facciata), a entrare in tackle (nelle teste dei nostri figli e insegnar loro legalità), a sollevarci (e sollevar le teste), a saltare (più in alto che si può, sempre più in alto). 
Gambe e piedi che calcano una Terra finalmente da serie A, perché è lì che lui ci ha portato. 
Oggi ricordiamo, oggi commemoriamo, oggi rinasciamo. Siciliani!