E lasciatelo campare, sto benedetto Lukaku! Neanche fosse il demonio in persona. 
Tutti lì a puntare il dito contro di lui, come se avesse perpetrato il tradimento del secolo. Come se fosse il primo o l’ultimo a far prevalere le ragioni dei soldi a quelle di un cuore che non ha i nostri battiti, non può averceli.  Come se il calcio, oggi, non fosse altro che un immenso show planetario, messo in piedi da professionisti, che vanno  dove li pagano di più. Come se la musica non fosse completamente cambiata, rispetto a un passato sempre più remoto. Come se il legame a una squadra non fosse oramai un “concetto che il pensiero non considera”, come se “sul ponte non sventolasse la bandiera bianca” della resa. La resa incondizionata del sentimento, del romanticismo, dell’idea. Io direi: la resa dell’edonismo sportivo; come se il piacere ricercato da questi atleti non fosse solo tendenza alla soddisfazione economica. 

Ma quale legame! Macché bandiere! 
Non esiste più neppure il concetto di legame, non esiste più nemmeno l’idea del calciatore-bandiera. 
Lukaku ha detto "No" all’inter. Embè? Quanti altri "No" vengono di continuo schiaffati in faccia a tifosi, città e società? Eppure, non ricordo una simile levata di scudi. 

Basta, lasciatelo in pace. Chè Romelu non è il primo e non sarà l’ultimo, non è il peggiore e non è neppure il migliore. È un professionista di questi tempi, né più né meno; interprete freddo di questo mainstream, ministro austero d’una liturgia che non ha più nulla di sacro. È la religione del Dio denaro… diciamola così, nuda e cruda e senza fronzoli. E mettiamoci tutti il cuore in pace, perché il calcio è diventato questo.

Una dinastia di calciatori cacciatori di contratti. Una schiera nutritissima di campioni ancora in auge ch’emigrano verso i lidi dorati della Saudi pro League, preferendo il prepensionamento opulento alla carriera. Procuratori che procurano mal di testa, agenti che agiscono a percentuali monstre, papà o mammà le cui colpe ricadono sui figlioli speciali. Maglie baciate e poi cambiate con la stessa facilità di un’acquazzone in pieno agosto. Parole in libertà, rimangiate e ingoiate come fissero noccioline. Sciarpe e striscioni che passano di moda con la stessa rapidità d’una felpa tech.

Siamo il calcio dei Tonali che, da milanista per diritto naturale, vola in Inghilterra e saluta tutti.
E torturiamo Lukaku… 
Siamo il calcio dei Samardžić, stellina che sputa sul firmamento, “per qualche dollaro in più” o per qualche clausola in meno.
E massacriamo Lukaku …  Siamo il calcio dei Bernardeschi, che a 27 anni lascia il calcio che conta per il gusto di contare i soldi del suo conto in banca. E crocifiggiamo Lukaku …
Siamo il calcio delle buonuscite, dei bonus, dei diritti d’immagine, delle tv, il merchandising, gli sponsor, le commissioni.
E certo, pure dei Lukaku che fa dietrofront e chiude la porta alla sua inter.

No, non è sua! Questo è il tema. Non è sua! Non c’è nessuna “sua squadra”, per nessun giocare. E non illudiamoci: quando lo dicono sono solo dei ragazzi che la sparano così, sul momento, o che si fanno prendere da un estemporaneo entusiasmo (perché, grazie a Dio, non sono comunque dei robot fabbricatori di soldi), oppure perché qualcuno suggerisce loro di dirlo. Ma non dovete crederci. Ormai non c’è nessuna squadra che “appartenga” a nessuno, se non alla proprietà e al cuore, puro e ingenuo, dei tifosi.

Di Riva era il Cagliari, era suo.  Di Totti era la Roma, era sua. Di Maldini era il Milan, era suo. Di Del Piero era la Juve, era sua. Di Mazzola era l’Inter, era sua. Ma era un altro mondo, altri tempi, altre vite. Un altro calcio. 

Trovatemi oggi una simile aderenza, organicità, connessione, univocità tra un calciatore e una squadra. Trovatemi un bandiera e io la sventolerò qua, tra le pagine di VXL. Trovatemi un simbolo che trascenda il tempo e le stagioni. Trovatemi un’idea che sopraffaccia ogni  materiale conteggio. Trovatemi una stella che oltrepassi la cosmogonia pallonara e brilli sempre della stessa luce. E io cancellerò ogni singola parola di questo mio umile articolo. 
Non c’è. E non è colpa di nessuno. È il calcio di oggi, bellezza!

Perciò, lasciamolo campare, sto povero Lukaku, che povero non è affatto. È ricco, d’una ricchezza che sempre più egli inseguirà, perché è normale che sia così, è umano. Una ricchezza che non è diversa da quella degli altri. È fredda, è calcolata, è insensibile. È la stessa ricchezza anaffettiva dei Tonali, dei Samardžić, dei Bernardeschi. E non è giusto o sbagliato, è così. Fa tristezza, ma è così. 
Del resto, anche le società si sono adeguate. Voglio dire: se i Lukaku fan pingere, non è che l’Inter o il Real o il Chelsea fanno ridere.

Il punto è che non c’è più niente da ridere e non c’è più niente per cui piangere. Perché non ci sono più sentimenti, non c’è altro che una professione. Una profesisone da esercitare al soldo di chi paga di più. Vista dall’altra parte, una professione i cui servigi assicurarsi fintantoché conviene; altrimenti, giù con i prestiti, le rescissioni, i fuorirosa e le cessioni.  Sono tutti parti e fa tutto parte di un ingranaggio ben oleato, in ogni senso.
La cifra ormai sembra qualificare un campione quasi più delle sue stesse azioni in campo. La cifra, nero su bianco, vale più d’ogni cifra tecnica. E nel cifrario dell’almanacco il messaggio è sempre lo stesso: un nome sulla maglia, un numero (sempre lo stesso) e tanti solisti d’un gioco di squadra.

Insomma, lasciamolo in pace, sto benedetto ragazzone nero. In fondo, quando ha indossato la maglia del’Inter ha sempre dato il massimo, non s’è mai risparmiato e, non a caso, i tifosi lo hanno sempre adorato. Ebbene, che l’amore si trasformi in rabbia, quando ci si accorge che non è corrisposto, è comprensibile; che la rabbia si trasformi in una specie di santa inquisizione, no, non lo è. 
E non lo è neppure l’odio giurato degli juventini.
Cari tifosi bianconeri, io capisco che il vostro abbecedario del tifoso perfetto all’espressione “ex inter” indichi “atleta non perfettamente in linea coi desideri bianconeri”; tuttavia, capisco molto meno tutto questo astio, il vostro rifiuto. Del resto, anche da questo punto di vista, se lui vestisse i vostri colori, non sarebbe né il primo né l’ultimo a farlo provenendo da Milano. Lukaku ha solo difeso la sua maglia e lo ha fatto contro la vostra squadra alla stessa stregua e con lo stesso ardore che ci ha messo quando è sceso in campo contro tutte le altre. Che non lo vogliate perché evoca in voi spiacevoli accadimenti di campo è comprensibile; che lo vilipendiate e gli chiudiate la porta in faccia senza volerne sapere assolutamente niente, no, non lo è. 
Perciò, lasciamolo campare, lasciamolo giocare, lasciamo stare, va.
Il calcio va così. 
La vita va così. Perché c’è un altro aspetto, di tutta questa storia, che va analizzato e riguarda il vissuto del bambinone belga d’origine africana. È un vissuto fatto di fame e povertà, di disperazione assoluta e poi di rinascita. 
Gente come Lukaku, ragazzini come lui, quando giocano al pallone e cominciano ad avere consapevolezza di quale strumento di riscatto possa essere il loro talento, non giocano e basta e non sognano di vincere la coppa del mondo e basta. Giocano con la rabbia in corpo, mangiano polvere e palloni come pasti che non possono permettersi, consumano scarpe usate e giorni duri all’inseguimento d’una via d’uscita. 
Giocano per uscire. Anzi no, non giocano. Combattono! 
E piaccia o no, la verità è che il denaro per loro ha un altro valore, che va al di là dell’avidità o del bisogno; è esso stesso un valore! Sì, molto più importante di una maglia o di una tifoseria o di una città. Con tutto il rispetto, molto di più.

Ricordo il momento esatto in cui ho capito che eravamo al verde. Avevo sei anni e tornavo a casa per pranzo durante la nostra pausa a scuola. Mia mamma aveva sempre la stessa cosa sul menu: pane e latte. Quando sei un bambino neanche ci pensi, ma immagino che fosse quello che potevamo permetterci. Poi un giorno sono tornato a casa, sono entrato in cucina e ho visto mia mamma al frigorifero con la scatola del latte come al solito. Ma questa volta stava mescolando qualcosa, lo stava agitando. Poi mi ha portato il pranzo e sorrideva come se fosse tutto a posto. Ma io ho capito subito cosa stava succedendo. Stava mescolando l'acqua con il latte. Non avevamo abbastanza soldi per farcelo durare tutta la settimana. Non eravamo poveri, peggio. 
Quando volevo fare il bagno non c'era l'acqua calda. Mia mamma scaldava un bollitore sul fornello ed io mi mettevo nella doccia gettandomi acqua calda sulla testa con una tazza. Un giorno tornai a casa da scuola e trovai mia mamma in lacrime. Così alla fine le dissi: 'Mamma, vedrai che cambierà. Giocherò a calcio nell'Anderlecht e succederà presto. Staremo bene. Non dovrai più preoccuparti'. Avevo sei anni
". Romelu Lukaku

Si fa presto a demonizzare, a puntare il dito, a lapidare (gli hanno pure dato della “prostituta”, sì): chi vuol continuare a peccare di superficialità, scagli altre pietre.
Io faccio e farò sempre il tifo per lui. Io, sto benedetto Lukaku, lo lascio in pace.