Sole sul tetto dei palazzi in costruzione,
sole che batte sul campo di pallone
e terra e polvere che tira vento
e poi magari piove...

E’ il 1980 quando Francesco De Gregori scrive questi versi.
Pamela non è ancora nata, eppure sembrano scritti a posta per lei. Il sole è quello caldo delle estati palermitane, quando i ragazzini cominciano a giocare fin dalle prime luci del mattino e smettono solo quand’è sera. E lo fanno per strada, tra botteghe, palazzine e marciapiedi trasformati in spalti gremiti di spettatori non paganti; lo fanno sul manto pecioso di un pezzo di strada da dividere con l’invasore “marmittato” di passaggio; lo fanno perché non possono farne a meno, perché quel pallone, a volte sgummato e certe altre spunnato, è la loro droga. Una droga che tuttavia non deforma nessuna vita, non buca nessun avambraccio… e da quelle parti ce ne sono vite sgummate e avambracci spunnati!
Ma non loro, no. A loro basta poco per sentirsi due ali sulle spalle, un propulsore al posto del cuore e tanta gioia in corpo. Due bottiglie di birra vuote per pali, una lunghissima linea immaginaria per traversa, la tocca dei compagni (il più scarso lasciato all’ultimo, p’insalata) e la partita ha inizio.
E finisce quando finisce, sempre che l’arnese dalle fattezze sferiche non s’arrocchi irrimediabilmente prima del tempo o non finisca nelle grinfie dell’immancabile, temutissimo tagliatore di palloni di zona. Partite infinite, infinite discussioni arbitrali e punteggi arbitrariamente tenuti ora dagli uni ora dagli altri.
Sempre così, mattina e sera, terra e polvere, asfalto e sudore, vento o pioggia.
Sì, perché a volte piove. Le stagioni passano, i giorni s’inseguono come in un girotondo senza fine, le ore scorrono lente e lì, nell’insostenibile pesantezza di un’inedia borgatara senza tempo, non succede mai niente.
Sempre le stesse cose, sempre lo stesso mondo che gira sempre allo stesso modo. Il fumo delle stigghiola annebbia case e tetti, il neomelodico sparato a palla rimbomba di angolo in angolo e a tutte le ore, i panni stesi sui balconi fanno a pugni con le antenne paraboliche d’ultima generazione e strizzano l’occhio ai compressori dell’aria condizionata, il rosanero del Palermo è più che un abbellimento cromatico, è più che un’identità letteralmente sbandierata ai quattro venti, è più che la testimonianza di un tifo. E’ appartenenza, orgoglio, fede. Quel rosanero per certuni è l’ultimo baluardo d’una vita colorata, l’ultimo grido di una felicità che può ancora essere incontenibile, l’ultima speranza di una domenica che può ancora trasformarsi in giorno perfetto.
Per il resto, poca vita, poche pretese, poca fortuna.
Facce spente di una quotidianità da condurre in porto quando si fa sera; vite spese tra la fatica di un lavoro accomegghè, che per quanto precario e improvvisato è pur sempre un lavoro, e la conquista di una dignità a tutti i costi; futuri affogati in un bicchiere di vino scarso, giocati a carte sui tavoli scorticati di taverna, buttati al cesso di una qualche sala giochi.
Futuri senza un futuro, di gente alla buona e per lo più buona. Donne dalle mani screpolate, mariti dalle panze prospicienti e figli di un mai ancora tutto da scoprire, eppure facilmente presagibile.
Questa è Ballarò. E i figli buoni di Ballarò sono sempre là, su quel fantasioso campo di calcio, con ai piedi le scarpe di gomma consumata (altro che gomma dura, caro De Gregori!), tante pietre nelle tasche e un mare di passione che fluisce nelle loro vene.
Niente motorini da cavalcare come pistoleri dai visi duri e le mani callose, niente sigarette tra labbra che sanno ancora di latte e già sputano protervia ed irruenza, niente grandi da imitare, seguire o dai quali farsi inseguire.
Gli unici grandi da imitare per loro sono quelli della televisione, gli eroi tatuati in maglietta e pantaloncini che fanno innamorare milioni d’italiani e sognare milioni di bambini, buoni come loro.
E loro sempre là, ad inseguire un pallone di gomma arancione, ad imitare ognuno il proprio beniamino, a calciare e scalciare con quella spensieratezza che sa anche di rassegnazione, di assuefazione, accettazione di quel niente, di quel mai. Sempre quello, sempre lo stesso niente infarcito d’indefinitezza, sempre lo stesso mai vissuto tra ignoranza, rifiuti e povertà.

Ma poi qualcosa succede.
Perché tra quei figli di Ballarò, tra quei ragazzini in calzoncini e scarpe lerce, moccio al naso e capelli arruffati, calcia e scalcia un visino sapurito, il visino di una ragazzina che, a guardarla come tratta quel pallone, viene proprio di definirla na fimmina sbagliata. Altro che ragazzina! Quella lì, palla al piede, cammina che sembra un uomo, direbbe De Gregori.
Sì, quei versi il cantautore romano sembra proprio averli scritti per lei e forse non è un caso che La leva calcistica del ’68 viene pubblicato due anni dopo la sua composizione, forse il destino ha voluto scherzare col calendario facendo coincidere l’anno d’uscita dell’album Titanic con l’anno di nascita di Pamela Conti. Anche se, a dire il vero, più che di leva, qui bisogna parlare di dinastia calcistica. Una nobile schiatta dai piedi buoni, quella dei Conti, che ha fatto di quella borgata il suo amato regno. Una vera dinastia del pallone, un nome che si tramanda, DNA che si trasmette di padre in figlio, di zio in nipote, di fratello in fratello: fenomeni mancati, che hanno speso vite e sperperato talenti ridendo dentro a un bar. 

E’ il 4 Aprile del 1982 e Ballarò ancora non lo sa, ma la dinastia calcistica dei Conti ha dato alla luce un altro rampollo dai piedi dorati. Come i suoi capelli, che incorniciano quel visino grazioso e cadono, lunghi ed intrecciati, su spallucce che presto si faranno larghe. Le spalle di una bambina che presto incanterà tutti, anche la maggioranza rumorosa che aborrisce il calcio in gonnellina, da quelle un concetto che il pensiero non considera (questa non è di De Gregori, ma va bene lo stesso).
Ma lei tira dritto (in tutti i sensi) e continua a trattare quel pallone come i maschi. Anzi, come na fimmina sbagliata.
La femmina sbagliata che si porterà la sua Ballarò in giro per il mondo e che a Ballarò farà mille volte ritorno, perché quello è il suo regno, quella è la sua gente, quella è casa sua. Ma non il suo mondo, il suo mondo è ovunque ci sia un  pallone da calciare, una squadra da allenare, un ragazzino a cui insegnare. 
Il suo mondo è stato Sassari, Valenzia, Buffalo, Barcellona, poi la Russia, la Svezia, fino ad arrivare in Venezuela dove, appese le scarpe al chiodo, è diventata ct della nazionale.
Sempre con Ballarò nel cuore, nella mente, in ogni cellula, in ogni suo ricordo, nella consapevilezza di essere un simbolo per quella chiassosa borgata palermitana.

Una storia, un esempio: lei ce l'ha fatta, possono farcela anche gli altri. 
Una storia di calci dati ad un pallone e di un destino preso a calci. Una storia di sofferenze e di rivincite, di passione e patimenti, di vittorie sul campo e sconfitte fuori. La storia di una palermitana che non ha mai smesso di esserlo, anche quando esserlo le è costato derisione, umiliazione, discriminazione.
Ma mai il rimpianto, quello mai. Perché quello, detta alla Ojetti, è il passatempo degli incapaci, è il vizio dei perdenti. Invece questa è la storia di una vincente, la storia della fimmina sbagliata di Ballaró che col pallone faceva quello che voleva.
Ecco. Prima che il calcio femminile conquistasse media e credibilità, c’erano ragazze straordinarie che incantavano e che nel silenzio dell’indifferenza scrivevano storie incredibili, di vita e di sport.