Ciao Carletto, uomo profondo. Uomo di calcio e di mondo, infinita saggezza, esuberante genuinità. “Tutte le forze della natura si concentravano in te”, eri spontaneo, intelligente, sapevi di calcio, conoscevi la gente. 
Un romanaccio d’altri tempi. Giostravi con le parole, condite da un inconfondibile slang, per dispensare verità assiomatiche. Tu ce le avevi, le avevi in tasca, le portavi con te, perché la Verità era il tuo modello comportamentale, il tuo stile di vita, la tua educazione di figlio e padre di famiglia. Famiglia vera, all’italiana, venuta sù col sacrificio reale e quotidiano della gente perbene, delle borgate romane, di un’Italia che a fatica ripartiva. Quella famiglia a cui hai sempre tenuto tanto, a cui hai sempre dato tutto. Sin dai tempi in cui tu, ragazzino di Trastevere, passavi gli attrezzi a tuo padre, salvo poi svignartela, tra un’auto e l’altra da aggiustare, per andare a tirare quattro calci al pallone. La tua famiglia, le tue famiglie. Le tante famiglie che hai allenato, perché quelle non erano squadre, erano famiglie. I tanti figli che hai allenato, perché quelli non erano calciatori, erano figli. Figli a cui hai impartito dettami tattici e lezioni di vita.

Tu, uomo esemplare, eri tu stesso metafora di calcio. Corretto anche quando battagliavi, vincente anche quando non vincevi, rispettoso anche quando t’infuriavi. Severo ma giusto, gioioso ma con maniera. Difendevi i tuoi principi, come un portiere difende la sua porta. Liberavi i tuoi calciatori dal disagio, spazzando via ogni palla avvelenata che nei loro pressi giungeva dai difficili ambiti del professionismo. Eri razionale come un regista, ma scattavi a molla, come un fluidificante, ad ogni cosa storta a cui assistivi. Eri arcigno come un mediano, scaltro come un fantasista. E andavi dritto all’obiettivo, come il più pratico dei goleador. Non sei mai stato un allenatore da scudetto … “Magara!” … ma sol perché l’establishment non te lo ha consentito; o forse sei stato tu a non consentire mai a nessuno d’imbrigliare quel tuo essere meravigliosamente politically incorrect. T’immagini … una società che ti avesse chiesto di smettere la tuta, che ti avesse multato per una parola scomposta, che ti avesse imposto di mettere fuori rosa qualcuno che non prolungava, che ti avesse chiesto un occhio di riguardo pe’ na pippa, che avesse per te stabilito una certa policy nel rapporto con la tifoseria; insomma, che non ti avesse lasciato essere il sor Carletto che tutti abbiamo adorato. E poi, in fondo, quanti “scudetti” hai vinto pure tu! Ci hai donato il regista - Pirlo- più forte della storia del calcio italiano; ci hai restituito il Baggio dei tempi d’oro; hai buttato nella mischia, deliziandoci, er Pupone, quando la sua bocca sapeva ancora di latte; hai formato il più grande - Pep - allenatore dei tempi moderni; e, soprattutto, hai lasciato un’impronta indelebile nella storia del calcio italiano. E poi, ogni salvezza conquistata, ogni punto ottenuto, ogni sberleffo alle metropoli del calcio è stata gioia pura ed incontenibile per migliaia di tifosi; erano “scudetti” pure quelli! 

I tuoi tifosi ti idolatravano, semplicemente perché eri uno di loro, uomo del popolo.  Le tifoserie avverse ti rispettavano, perché non abbozzavi, non imbonivi, non ammiccavi e non abbassavi mai il capo davanti a una curva ostile e questo lo rispettavano. Ma quando succedeva che non lo facessero, e andavano fuori le righe, non te ne stavi lì, rannicchiato sotto la tettoia protettiva della panchina, aspettando magari la comoda rivalsa dei microfoni del post-gara. Li affrontavi a muso duro... vero, amici dell’Atalanta? L’ironia era il tratto tuo migliore. Un po’ Aldo Fabrizi, un po’ Carlo Verdone, irridevi l’eccessiva sacralità del pallone, senza mai beffeggiarlo. Del resto, ne eri follemente innamorato. 

E amavi tutti i tuoi calciatori, tutti. Il più bravo lo trattavi diversamente, ma senza infingimenti; lo facevi alla luce del sole, lo facevi perché per te era giusto fare così e nessuno lo metteva in discussione. Ai meno bravi davi delle “pippe” e da loro pretendevi il 110% dell’impegno. Proprio come fa un padre, il quale non può fare a meno di prendere atto delle maggiori qualità d’un figlio rispetto all’altro, ma li ama entrambi e in egual misura. E ad ogni modo, potevi solo tu, dargli della “pippa”. Se qualcun altro si permetteva di denigrare un tuo calciatore, te lo mangiavi vivo e aggiungevi: “È un bravo ragazzo, è uno dei miei!” Ti volevano bene tutti, ti riverivano tutti, anche i più grandi, i più osannati, i più pagati. Perché eri un gigante, anche al loro cospetto. Giganteggiavi nei campi di calcio, perché il calcio era il tuo pane quotidiano. Giganteggiavi nella vita, perché pane duro ne hai mangiato; e quello tempra, forma, educa, forgia gli uomini migliori.  Guardiola, Baggio, Giannini, Antognoni, Pirlo, Francescoli, Materazzi, Signori, Totti: stavano tutti un passo dietro a te. Eri libero, di quella libertà che non conosce scheletri nell’armadio. Eri sfrontato, di quella sfrontatezza che si nutre di onestà. Eri sicuro di te, di quella sicurezza che discende dal tirarsi sù da solo. E non hai mai guardato in faccia nessuno: godevi di quella “cecità buona” che solo gli uomini liberi e forti (direbbe Sturzo) possono permettersi.

Già, i tuoi calciatori.  Oggi ti piangono tutti, perché eri una guida, una roccia. Proprio per questo entravi nei loro cuori. Anche quando, imbufalito, urlavi a “Cappiole” (Massimiliano Cappioli) di mettersi ‘nmezzo ar campo. Anche quando afferravi per i capelli un euforico Francesco Cozza, dicendogli: “Ahò! Che volemo sveglia’ er can che dorme?”. Anche quando, scorgendo Amedeo Carboni in posizione un po' troppo avanzata per i tuoi gusti, gli dicevi: "Amedeo" “Sì, mister?" “Quante partite hai fatto in serie A?" “350, mister" “E quanti gol?" “4, mister"  "Ecco, allora vorrei proprio sapere 'ndo cazzo è che vai. Torna subito in difesa!". Anche quando Totti passava davanti ai cronisti che provavano ad intervistarlo e, prima che il giovanissimo talento potesse fermarsi a rilasciare dichiarazioni, sei intervenuto così: “A regazzì, vatte a fa la doccia, va". Volevi proteggerlo, dai giornalisti e dai fumi di un successo che rischiava di essere troppo per la sua tenerissima età.

Anche coi giornalisti e col mondo dei media sei sempre  stato te stesso, senza mai arretrare di un solo millimetro dalle tue idee, dalle tue verità, dalle tua visione, del calcio e del mondo. Insomma, non hai mai schiacciato l’occhio a nessuno, men che meno a chi aveva il “potere” di raccontarti, commentarti, elogiarti o massacrarti. Andavi dritto per la tua strada, senza se e senza ma. E senza mai accondiscendere al risultato: mettevi in campo la migliore squadra possibile, sempre, comunque e a prescindere dalla classifica. Si chiama sportività, si chiama onestà, si chiama correttezza. Si chiama Carlo Mazzone! Tu, romanista fino al midollo osseo, hai condotto il Perugia alla ininfluente vittoria contro la Juventus, determinando lo scudetto della Lazio, dopo una settimana in cui tre quarti di tifoseria romanista ti chiedeva il "biscotto" e mezza stampa vi alludeva neppure velatamente. Fu allora che pretendesti dai tuoi una partita esemplare! È così fu! Desti a tutti una straordinaria lezione di trasparenza.

Ecco perché l’hai sempre detta in faccia, diretta come un treno merci, nuda come un verme, cruda come la sarciccia che te magnavi: perché potevi guardare in faccia tutti, nessuno escluso. Perché ogni tua parola, predica, insegnamento, pretesa o rimprovero, portava con sé l’autorevolezza dell’esempio. 

Ci mancherai. E ti porteremo sempre nel cuore. Te e il tuo calcio romantico, da sudore di provincia, lotte infinite e magliette di lana.
E porteremo per sempre nel nostro cuore quella tua folle corsa verso la curva atalantina. In quella corsa, in ogni suo passo, un po’ goffo ma inarrestabile, c’è tutta l’essenza d’un calcio che non c’è più, che sembra tu ti sia portato via per sempre. C’è la rivalità del campanile, c’è la reazione dell’istinto, c’è la priorità dell’orgoglio, c’è la rabbia accumulata e c’è la gioia infinita d’un semplice pareggio.  Perché per te pareggiare non era solo conquistare un punto, non era solo aggiungere un mattoncino al muro di quella classifica sempre da scalare. Per te era soprattutto non perdere, era vedere la tua squadra non mollare, per te un pareggio raggiunto coi denti era la fotografia della tua vita, la tua carriera, le tue gioie, le tue sofferenze. Quel pareggio, poi, insperato e disperato, e contro i rivali di sempre, era la conquista di quel centimetro d’orgoglio in più, che sempre insegnavi di ricercare sul campo.  Ma c’è di più. In quella corsa sotto la curva c’è l’uomo. Che se ne frega delle apparenze, delle sanzioni e delle telecamere, se viene toccato nell’intimo dei suoi affetti più cari, dei suoi principi più saldi, dei suoi legami più forti. Se una curva gli offende la madre, se una curva vilipende la sua città, se una curva punzecchia la sua dignità, lui va lì sotto e …. Mortacci vostra!

Sei stato un gigante, Carletto! Monumentale nelle tue espressioni facciali e verbali. Torreggiante, dall’alto della tua statura morale e della tua fisicità possente. Imperante, con quella tua personalità da leader vero, che si arma e parte prima dei suoi. Con i suoi. Per i suoi. Dovremmo contare da 1 a 792, scandendo, ad uno ad uno, ogni singolo passo della tua serie A, perché in ognuna di quelle partite c’è un pezzo di vita e ci sono tante vite; c’è una mescolanza di esperienze, sport e quotidiano, che rendevano tutto quello che succedeva attorno a te incredibilmente vero.
Vero e reale. Come la morte di Mero, un tuo calciatore vittima di un incidente stradale. Facile piangere, far dediche, indossare segni di lutto, ricordare, commemorare. Tu hai fatto di più, hai fatto quello che deve fare un padre. Hai preso in disparte la tua squadra (il Brescia) e avete deciso di donare l’eventuale premio-salvezza al figlio del povero Vittorio. E così fu, perché salvezza fu. 
Non smetterei mai di raccontare di te, uomo profondo. Di calcio e di vita! 

Ciao sor Carletto … Ci mancherai. Ovunque sei, già ci manchi.