"Ho dovuto chiudere la mia scuola calcio.
Eravamo arrivati a 600 bambini. Ma ormai è cambiato tutto: non ci sono più ragazzi con la fame di calcio, c'è troppo benessere, sono viziati e coccolati dai genitori, sono sempre attaccati al telefonini, non riesci nemmeno a parlargli a volte".

Totò Schillaci

Eh no, Totó. Troppo facile prendersela coi giovani. Del resto, sono da sempre la categoria più adatta al ruolo di capro espiatorio, di colpe che invece sono sempre e soprattutto di altri.
I giovani sono viziati quando ci fa comodo stigmatizzarne atteggiamenti d’indolenza; non sarà, la loro, privazione di stimoli?
I giovani sono troppo coccolati quando dobbiamo sottolinearne il distacco dalle cose della fatica; non sarà che al concetto di fatica li abbiamo disabituati, costruendoci noi stessi un mondo di bambagia, in cui è bandito anche il solo concetto di fatica? 
I giovani sono affetti da egophonia quando non capiamo perché non dialogano più; non sarà che siamo noi a non avere più argomenti? Noi che per primi campiamo con sto cavolo di cellulare in mano? 
E non hanno fame di calcio? Ma che dici, Totò? Il pallone è, e continua ad essere, grazie al cielo, la passione di milioni di bambini e ragazzini. 
Non sarà che queste scuole calcio, questi opifici a pagamento di sogni che mai s’avvereranno, queste aggregazioni patinate di figlioli fenomeni da postare su Facebook, questo reclutamento di rette da pagare a fine mese e nomi da far entrare anche 5 minuti (chè chi paga deve giocare) … non sarà che la tua scuola calcio, come tantissime altre, la spenga, la passione, anziché alimentarla? 
Io me la ricordo la "scuola calcio" dei nostri tempi, ed era tutta un’altra cosa. S’imparava a giocare a pallone quasi maieuticamente, anche perché ci dicevano che: "divertirsi è possibile a tutti, ma diventare calciatori è un fatto di DNA, anzitutto, e di sacrifici, poi". Si giocava a tutte le ore, ovunque e gratis. Poi, per coloro con i quali quel DNA era stato più o meno benevolo, c’erano le società locali, che ti reclutavano agli ordini di un calciatore della prima squadra che si prestava, felice di farlo, a fare l'allenatore; e così, entravi a far parte di quella società. Senza che i tuoi dovessero svenarsi, senza che tu dovessi andarci anche se non ti andava più (della serie, “ormai ho pagato, ci devi andare per forza!”). Se ti scocciava, amen.
Ma non ci scocciava mai, perché era tutto genuino, tutto vero, anche le porte dalle reti bucate e i campi in terra color marrone, segnati dal gesso in polvere, chirurgicamente cosparso con le mani giunte lungo uno spago tracciante. 
E non avevamo bisogno del nome altisonante su un’insegna che qualificasse il luogo dove imparavamo (e sì che imparavamo!) a giocare a pallone; per noi contava solo il pallone. E giocare. Era un gioco, sì. Ci divertivamo, perché nessuno ci riempiva la testa di “situazioni di gioco”, “partenza da dietro”, “ampiezza”,  “due tocchi” e simili. Al limite, ci dicevano di passare la palla al compagno vicino, di alzare la testa e di tirare col collo del piede. E non c’erano kit che ti mascherano da calciatore professionista; al massimo, una tuta e un borsone quando lo sponsor era di quelli che “ci mettono i piccioli”. E una maglia ovviamente, buona per tutto, allenamenti e partite (chè tanto poi ci pensava la mamma: lavaggio rapido, a mano, alla buona). Una maglia su cui non sentivamo alcun bisogno di scrivere il nostro cognome, la sentivamo nostra e la sudavamo, d’un sudore che non ci costava nulla, aveva il profumo della passione pura.
Ah, e non c’era nessuna “democrazia pecuniaria”: i più bravi giocavano titolari, i meno bravi in panchina. Anche questo imparavamo: che non siamo per forza tutti uguali, che al mondo, in ogni contesto e in ogni disciplina, ci sono quelli che meritano di più e quelli che meritano di meno. E che se vuoi primeggiare sugli altri devi allenarti ... o studiare o lavorare o faticare. 
Altro che fame! Quel pallone ce lo divoravamo. 
E stanne certo, Totó: i ragazzini sono ancora famelici. Siete voi che li avete messi a dieta, sti benedetti ragazzini! Fare calcio due/tre volte a settimana, fare sempre le stesse cose da protocollo, la partitella alla fine delle due ore canoniche e gl’immancabili calci di rigore; e poi, di tanto in tanto, il mini torneo o il memorial di turno con squadre di 20 elementi e con gli spalti pieni zeppi di avidi parenti ululanti … 
Non è vero che non hanno fame, semplicemente non si divertono più. Siete voi a non farli divertire più. E siamo noi, noi genitori. 
Sì perché, guai a mettersi su un marciapiede o su una piazzola e organizzare in quattro e quattr’otto una partite di 3 ore, con gli zaini per porte e le linee immaginarie. Non sia mai!  “Ti sporchi” … “ è pericoloso”… "sono tempi brutti” … Questo per dire, caro Totò delle notti magiche, che noi genitori d’ultima generazione più di una colpa ce l’abbiamo.
Vogliamo figli telecomandati a distanza, sempre sotto controllo, nemici della fantasia, dell’improvvisazione, del vivere alla giornata. Volgiamo figli che non vivano delusioni, ma solo illusioni, che non debbano essere da meno del compagno, di classe o di squadra (fa lo stesso), che non debbano piangere mai, non debbano patire mai; e che non debbano faticare mai eventualmente per raggiungerlo, quel compagno. E paghiamo. Paghiamo mensili per averceli così come ci piace. Il mensile alla babysitter, il mensile alla mensa (allitterazione casuale, giuro), il mensile al dopo scuola, il mensile alla scuola calcio. 
Anche il calcio risente di tutto questo. Perciò, hai ragione quando poni l’accento sull’aspetto generazionale della questione, ma le scuole calcio ne sono un elemento. Sono il prodotto di questa “involuzione generazionale” (cito Crepet) della nostra società. 
E sono - questa volta parafraso Roberto Mancini - una della principali concause dell’involuzione del calcio Italiano. 
Per strada o negli oratori è cresciuta la “meglio gioventù” calcistica del nostro Paese e sai perché? Perché lì i ragazzini erano spiriti liberi e davano libero sfogo all’amore per questo sport, che cresceva.
Un po’ come i cavalli allo stato brado, che galoppano su immense praterie: sono quelli i veri purosangue. 
Liberi. Liberi di giocare, di rivaleggiare, di provare la delusione di un avversario più forte, di esultare, di perdere e poi ricominciare, di litigare per un fallo che ci si chiama, di sbagliare, di essere presi in giro, di sfottere. Insomma, di crescere. 
Liberi dai recinti, dai laccioli dei dettami, dagl’incitamenti di papà, dall’orologio che decide quand’è ora di smettere, dalle convenzioni manierate, dal trasversalismo del merito (terribile ossimoro!), dall’egualitarismo a tutti i costi, da quell’asettico sintetico verde che non profuma di nulla. 

Questa è la scuola calcio, caro Totó. 
E quando un ragazzino molla, non c’è in voi il dispiacere di un talento sprecato, piuttosto che di un nuovo adepto alla PlayStation (diciamocela tutta, dai!); c’è il dispiacere di una retta in meno. Perché, per forza di cose (non è una colpa), la vostra è un’impresa commerciale, né più né meno. E i ragazzi questo lo avvertono, consciamente o inconsciamente, lo sentono. E si stancano. 
Avete trasformato il pallone, lo sport più bello e libero del mondo, in un negozio di passatempo, sogni, illusioni genitoriali, attività fisica, pseudo lezioni di vita, inutili lezioni di tecnica ed esasperate lezioni di tattica e di ore all’aria aperta. Un emporio di motivazioni, tutte “impiattate” (diciamo a Palermo), cioè servite su di un piatto che d’argento lo è per voi, ma su cui i ragazzini - la maggior parte di loro - finiscono per sputarci. 
No, non è, questo, un manifesto contro le scuole calcio, Totó. È semplicemente la mia risposta al tuo sfogo di qualche giorno fa. 
Chi sono io per rispondere ad un tuo sfogo? 
Sono uno dei tanti genitori che hanno avuto a che fare col mondo delle scuole calcio, padre di un ragazzino che non era certo un futuro Messi  e nemmeno un futuro Messias, ma che si sarebbe potuto divertire, facendo del sano sport, fino a quando non avrebbe deciso di fare altro, semmai lo avesse deciso. 
Adesso lui fa altro e questo altro non è uno sport, è molto cellulare, un po’ di tv e qualche svago in compagnia dei suoi coetanei. Ma non è sport.
E non lo ha deciso lui, no. Lo ha “deciso” il sistema delle scuole calcio, l’ambiente quasi asettico, l’aria rarefatta che si respira lì, dove tutto sa di buonismo e preordinato. E dove il mensile, vuoi o non vuoi, la fa da padrone. 

Ti racconto una storia.
È la storia di Allen e Lorenzo.
Allen è un bambino filippino, vicino di casa di Lorenzo. Stessa età (o quasi), stesso pianerottolo, stessa infanzia, entrambi figli unici. Ma condizioni economiche completamente diverse. La mamma del filippino è senza marito e fa la badante h24. Vive in sullo stabile d’una via prestigiosa di Palermo, ospite dell’anziana signora che ha accettato di mettersi dentro madre e figlio pur di avere qualcuno che vi provvedesse.
Allen è grassottello, non parla molto, ma capisce benissimo tutto quello che gli altri gli dicono; vive nel suo mondo e di quel mondo fa parte soprattutto Lorenzo, l’amico di sempre. Lui lo chiama "Lollo", chiama "Mamy" la madre e poi non chiama più nessuno. 
Lollo è di un anno più grande e ama giocare a pallone, ma con Allen la cosa non funziona. I due passano molto tempo insieme, ma a Lorenzo giocare a pallone con l’amico silenzioso proprio non lo diverte, non sa calciare, è impacciato, assente.  Tuttavia, quando va a giocare a scuola calcio, se lo porta dietro, perché i due sono inseparabili.
Qualcuno, tra i compagni di squadra, gli chiede come mai sia sempre in compagnia di quel ragazzino strano, ma è una domanda che riceve una sola risposta, secca e perentoria, che non ammette repliche: “È il mio amico del cuore”. 
Quando arrivano al campetto, Lollo fa sedere Allen su una panchina e gli dice di non muoversi; e Allen così fa, tutte le volte. E rimane a guardare, in silenzio, forse perso in se stesso, forse estasiato. Forse anche a lui piace il calcio.
Un giorno, l’allenatore della squadra dice a Lorenzo che deve allenarsi bene a tirare il pallone, anche fuori dai giorni e dagli orari della scuola calcio. Lorenzo vuol diventare un campione e sa che deve lavorare sodo e ascoltare il mister; solo che non sa proprio con chi allenarsi. Chiede a qualcuno dei suoi compagni di squadra, casomai volessero incontrarsi alla vicina villa e fare assieme un supplemento di allenamenti, ma niente. 
Quel giorno torna a casa sconsolato. Allen è con lui, ma il loro cammino di rientro è silenzioso più del solito.
Giunti al pianerottolo, prima di salutarsi, Allen gli dice: “Domani ti aiuto io, Lollo” e si dilegua dietro la porta di casa sua, facendo un gesto con le mani chiaramente allusivo alle parate del portiere. 
Lorenzo è stupefatto: non ricorda quand'é stata l’ultima volta che il suo amico dagli occhi sottili e dolci come le mandorle abbia pronunciato tutte quelle parole di fila. E comunque, non capisce cosa voglia dire, perciò liquida la cosa stringendosi sulle spalle. L’indomani, all’uscita di scuola, Allen fa all’amico lo stesso gesto con le mani e gli fa capire di seguirlo alla villa, a due passi da casa loro. Giunti lì, tra le inutili proteste di Lorenzo, che proprio non capisce cosa abbia in mente Allen, questi tira fuori dallo zaino un pallone di gomma e si piazza tra due alberi, invitando Lollo a calciare. 
Lorenzo lo fa, in fondo pensa che sia giusto farlo divertire un po’. Ma con grande sorpresa scopre che ogni suo tiro viene parato. 
“Dove hai imparato?”, gli chiede, senza però ottenere altra risposta che una bocca a casseruola e gli occhi all’insù. 
Da quel giorno, tutti i giorni i due si recano alla villa e Lorenzo può allenarsi e migliorare la sua capacità di calciare in porta. E migliora pure Allen, anzi diventa proprio formidabile tra quei due alberi. Allen continua ad accompagnare Lorenzo a scuola calcio, tutti i martedì, i giovedì e i sabato mattina e, come sempre, si siede al solito posto e guarda gli altri.
Lorenzo vorrebbe condividere con gli altri il fatto che il suo amico silenzioso sia un bravissimo portiere, ma ogni volta qualcosa lo fa recedere, forse la paura degli sfottò o forse l’incertezza della reazione di Allen al possibile invito a mettersi in porta, magari in quei minuti che precedono l’inizio dell’allenamento, durante i quali ci si scalmana in campo appresso al pallone. Meglio non dire niente. Anche se la tentazione di vederlo alzarsi da quella maledetta panchina e giocare con gli altri rimane forte. 
Qualche tempo dopo la squadra di Lorenzo si  trova ad affrontare una squadra molto forte, in uno di quei tornei che di tanto in tanto si organizzano tra le scuole calcio della città. Anche la squadra di Lorenzo è molto forte. Ma accade qualcosa di enormemente invalidante: stanno vincendo 2 a 1 quando il portiere si fa male a una mano; ed è un guaio, perché il secondo portiere non c’è, è rimasto a casa per via di un’influenza. Così, come da prassi, si mette in porta uno dei giocatori, ma in breve subiscono tre gol e il risultato si ribalta. È a quel punto che, tra il primo e il secondo tempo, tra gli incitamenti dei genitori che gremiscono gli spalti e la rabbia, anche un po’ scomposta, del mister, Lorenzo si decide. Lancia uno sguardo all’amico, che è seduto al solito posto, come al solito concentrato e impassibile, e fa una proposta: “Facciamo parare Allen”.
Tutti ridono, mister compreso. Tutti tranne Lorenzo, il quale mi guarda in cerca di un’approvazione, che io non gli faccio mancare (io che ero al corrente di tutto). 
Allora capisco che quello è uno dei rarissimi momenti in cui un genitore debba intromettersi: mi appresso ad Allen, lo prendo per un braccio e lo accompagno fin dentro il campo, stoppando sul nascere un accenno di protesta da parte di quello scemo del mister. Di fronte alla risolutezza di Lorenzo e alla mia perentorietà, la squadra accetta che l’amico silenzioso di mio figlio si metta in porta. Per fortuna è vestito con una tuta e delle scarpe da ginnastica ed è visibilmente meno grssotello di qualche tempo prima. Quanto ai guanti, Luigi, il portiere infortunato, corre verso di lui, già piazzato tra i pali, ancora impassibile e concentrato, e glieli mette alle mani: primo vero segno di approvazione della squadra. 
L’arbitro autorizza, la squadra avversaria, per fortuna, pure. 
La partita riprende e finisce comunque con una sconfitta per noi. Ma tutti restano ammutoliti per le parate di Allen, che non può nulla solo su un tiro ravvicinato, che sigla il 5 a 4 per loro. 
Lorenzo è felice, nonostante la sconfitta, perché il vero vincitore quel giorno è il suo amico del cuore. Mentre tutti vanno ad abbracciare il loro portiere silenzioso e a dargli il 5, Lollo vede gli occhi di Allen accendersi d’una luce di contentezza, talmente flebile che solo lui, che lo conosce bene, riesce a scorgere. E piange. Lorenzo piange, non per la sconfitta, ma di felicità.
Purtroppo, però, la felicità dura poco. È sempre così, specie quando ci si mettono gli adulti e un gioco finisce per rientrare nelle cose dei grandi.
Il martedì successivo c’è l’allenamento. Come sempre, Allen accompagna Lorenzo, ma questa volta si porta dietro un completino da portiere e scarpini da calcio (regalo nostro). E non siede al solito posto, entra in campo assieme a Lorenzo, perché Lollo così gli dice di fare. 
Allen non ha un genitore che lo accompagni in queste cose, il padre non c’è, la madre è sempre al lavoro. Perciò, avevo promesso di andare io, quel giorno, all’allenamento e di parlare col “presidente”. Solo che non faccio in tempo. Pazienza, penso, andrò a parlargli Giovedì. 
Quella sera, tornato a casa, trovo Lorenzo nella sua cameretta, immusonito. Penso che ce l’abbia con me, perché gli ho dato buca, perciò mi scuso, gli spiego che gl’imprevisti capitano, che prima viene il lavoro, eccetera. Ma lui non ce l’ha con me, ce l’ha con tutto il mondo. A fatica, mi faccio raccontare cos’è successo. 
È successo che ad Allen viene impedito di entrare in campo assieme agli altri, perché in segreteria non risulta tra gli iscritti, il “presidente” non c’è e quel cretino di mister non si prende la responsabilità di aggregarlo alla squadra. “Non ne ho l’autorità”, dice … proprio uno scemo patentato! Ma c’è di più: nessuno dei genitori, lì presenti (e presenti quella domenica mattina in cui pure loro hanno applaudito il portiere silenzioso), nessuno di loro prende l’iniziativa, dice qualcosa, impedisce che quel ragazzino, dagli occhi acquosi e l’aria spersa, lasci mestamente il campo; anzi, Lorenzo giura che uno di loro, una mamma stronza, desse ragione al mister e sottolineasse la giustezza della cosa.
Il racconto di mio figlio genera in me un senso di fortissima delusione, mitigata però dal resto del racconto.
Chiedo a Lorenzo: “E tu, che hai fatto?”.
“Sono uscito dal campo assieme ad Allen e ho detto a tutti di andare a fare in culo”.
Chi poteva immaginare che un'espressione volgare potesse rendermi così orgoglioso di mio figlio? No, Totó, non me la sono sentita di redarguirlo per quell’espressione. Ha fatto bene. 
Mi dispiace solo che, da quel giorno, Lorenzo non ha più frequentato una scuola calcio. Anzi no, non mi dispiace affatto. Mi dispiace che il mio Lorenzo non faccia più sport. Per un po’ di tempo, in realtà, dopo quell’accadimento, lui e Allen avevano preso l’abitudine di recarsi, quasi tutti i giorni, a quella villa comunale, dove c’è uno spiazzo in terra battuta su cui si organizzano estemporanee partite tra ragazzini d’ogni età, senza un mister scemo che debba dirti se giochi o no e senza una mamma stronza che dia ragione allo scemo di cui sopra, che (letteralmente) caccia dal campo un ragazzino filippino, sol perché non ha pagato una retta, che, per inciso, avrei provveduto io stesso a pagare. 
No, Totó. Questo non è successo nella tua scuola e magari da te non accadrebbe mai. Tu hai il cuore magico di un campione che si è costruito da solo e che con umiltà è arrivato sul tetto del mondo. Ma è successo. È successo in una scuola calcio della nostra città, è successo perché il sistema delle scuole calcio è questo. Quindi, non stupirti se molti mollano, lo fanno perché intimamente ne avvertono l’ipocrisia delle dinamiche. 
Lorenzo ha mollato, Lorenzo oggi non fa più sport.
Col passar del tempo, infatti, i pomeriggi alla villa sono diventati sempre più rari, fino a ridursi a sporadiche occasioni di svago. Ma nulla più. Non so, è come se si sia spenta in lui quella fiamma d’entusiasmo che ti brucia dentro generando una sanissima combustione d’adrenalina ed euforia. Per lui giocare a pallone è, piano piano, diventata una pratica quasi meccanicamente indotta dall’abitudine. 
E alla fine ha mollato.
Io non posso non pensare che sia tutta colpa di quella scuola calcio. Forse esagero, ma la penso così. 
E poi, Totó, non chiamatele scuole calcio. Il calcio non si insegna, lo si ha dentro. Semmai si affina, si migliora, si allena. Ma non s’insegna.
Chiamatele scuole di sport e insegnatene i valori, perché l’obiettivo primario è che da lì escano fuori campioni di vita.

Ps: Allen è entrato a far parte di una squadra di pallamano composta da ragazzini autistici; ed è una Pasqua, dentro quel campo. Anche perché tra gli spalti, a guardarlo giocare, c’è sempre Lorenzo, il suo amico chiassoso, che fa un tifo assordante per lui.