'Sono gay, non voglio più nascondermi', Jakub Jankto

Caro Jakub, ti scrivo…
Ti scrivo perché il tuo coming out è la più bella testimonianza di civiltà che il mondo macho del calcio potesse ricevere. Di civiltà, di libertà, di onestà. Perché ci vuole essere onesti, con se stessi e con gli altri, per essere liberi. La tua libertà ha acceso una luce nel buio, ancora troppo fitto, di quel mondo. Un mondo permeato di pregiudizi da medioevo, frasi infelici e atteggiamenti omofobi. Nequizie e retro pensieri che resistono al tempo, talmente sono radicati fra i giocatori stessi, fra gli allenatori, fra i tifosi e anche fra le istituzioni. Siamo (almeno così pare) nell’era della società evoluta. Siamo (almeno così pare) il bagliore più luminescente che all’oscurantismo dell’umanità si sia mai potuto opporre. Sono tempi, i nostri, in cui i diritti civili e umani, dopo secoli di calpestii, hanno conquistato il cuore del dibattito planetario, generando financo il coraggio di combattere e morire, negli angoli più totalitari e gretti del globo. O almeno così pare, caro Jakub, perché, bagliore o meno, siamo ancora lontani della luce e il calcio è il riflesso di tale lontananza.  

Nello sport più amato e praticato al mondo, chi vince mostra ancora gli attributi e si lascia andare a gestacci sessisti, chi perde è una femminuccia. Capisci, caro Jakub, quanto pesa perciò il tuo gesto? Possiamo, e dobbiamo, illuderci che in ciò non vi sia nulla di straordinario, che sia tutto assolutamente normale e invece è innegabile che tu abbia inferto un fragoroso squarcio a quel velo, infidamente traslucido, che ancora ammanta di ipocrisia e perbenismo il mondo del pallone; e il mondo tutto.  Fragoroso, si, perché le tue parole han fatto un gran rumore, per questo voglio riportarle: «Ciao, sono Jakub Jankto. Sono gay e non voglio più nascondermi. Come tutti gli altri, ho i miei punti di forza, i miei punti deboli, una famiglia, i miei amici, un lavoro che svolgo al meglio da anni, con serietà, professionalità e passione. Come tutti gli altri, voglio anche vivere la mia vita in libertà. Senza paure. Senza pregiudizio. Senza violenza. Ma con amore».

Il cliché “borgataro” del calciatore cacciatore di veline, dell’iper tatuato sciupa-femmine, del collezionista di avventure oggi, grazie a queste tue parole, subisce un duro colpo, perché se è vero, come è vero, che l’omosessualità nel calcio, e non solo, rappresenta ancora un tabù, è pur vero che i tabù sono fatti per essere sfatati. E tu hai fatto la tua parte, regalando una speranza a te stesso, a chi ti sta vicino e all’ecosistema imperfetto del pallone, che oggi si riscopre un po’ più normale, un po’ meno troglodita. E sì che ti è costato e sì che ti costerà, perché troglodita quel mondo lo è sempre e rivelare il proprio orientamento sessuale, dichiarare di essere omosessuale, vuol dire esporsi. Alle prese in giro dei compagni. Ai cori dei tifosi. Ai rifiuti degli sponsor. Ci vuole coraggio, ci vuole onestà, ci vogliono gli attributi! Quelli che trascendono la dimensione sessuale dell’organo genitale strictu sensu e assurgono a simbolo di spessore umano. Quelli che tu hai mostrato di avere, belli grossi e quadrati (e scusa la volgarità). Quelli che non mancano a una donna, se questa esplora lo spazio o arbitra una partita del mondiale o governa una banca continentale o scrive come una dea o porta avanti una famiglia con la fatica del quotidiano o cura le persone o difende i deboli o persegue i delinquenti o dirige un’azienda o denuncia una violenza o insegna in una classe dello Zen…

Non sai cos’è lo Zen, caro Jakub? È un quartiere popolare di Palermo, il più problematico, dal punto di vista sociale e culturale, della nostra città. Perché te ne parlo? Perché lì quelli del tuo stesso orientamento sessuale non hanno cittadinanza, non hanno domicilio, non hanno speranza. Non hanno luce, ne sono lontanissimi. E tacciono, vivendo, come tristi Pierrot, una sessualità complicatissima, dentro una vita che non è la loro.  Ogni tanto qualcuno proprio non ce la fa e si ribella. Si ribella al ghetto, si ribella al buio, si ribella alla violenza, quella fisica, quella verbale, quella morale. Quella che uccide.  È successo, sì! Quella violenza ha ucciso. Ed è successo proprio in quell’enorme “campo di concentramento” dove è rock la delinquenza, dove un “cornuto e sbirro” vale quanto un “frocio”, non vale niente. È successo allo Zen. Ed è successo a un ragazzino che giocava al pallone. Proprio come te.  Inutile raccontarti la vicenda nei minimi dettagli, non voglio trasformare una tragedia in un romanzo. Inutile raccontarti quello che Mattia ha passato dal momento in cui ha deciso di manifestare la propria omosessualità. Inutile dirti che è stato costretto a lasciare la squadra del rione e il rione stesso. Inutile raccontarti della emarginazione che ha subito, dagli amici, dalla gente e da casa, da dove un padre, troppo bestiale per essere vero, lo ha cacciato dopo avergliele date di santa ragione.

Ti racconto però della sua mamma, che si è suicidata, non ha retto. Lei sapeva, lo aveva sempre saputo, e non l’era mai importato nulla. S’era limitata (si fa per dire) ad essere complice di un segreto a cui lei stessa induceva il figlio: una madre fa questo, protegge. Ma alla fine Mattia, quel silenzio, lo ha infranto, distruggendo l’ “onore” del padre-bestia e però anche il cuore di una mamma. No, che dico? Il cuore di madre non lo ha distrutto Mattia, lo ha distrutto l’ignoranza, il buio, la bestialità. Vedere suo figlio massacrato di botte e massacrato nell’anima l’aveva uccisa dentro, catapultandola nel mondo oscuro della depressione. Poi, quando il figlio è scomparso dalla circolazione senza dire nulla, s’è ammazzata. E la bestia è rimasto solo, con l’altro figlio (quello “sano”) in galera per rapina. 

Nessuno sa dove sia, adesso, Mattia. Forse ha cambiato città, di sicuro lì, allo Zen, non si è più visto. Quando ho appreso del tuo coming out, ho ripensato a questa brutta storia di qualche anno fa; ed ecco che il tuo gesto acquisisce, se possibile, maggior valore, è uno schiaffo in faccia a quella bestia di padre, che di schiaffi lo ha riempito, a quelle bestie di compagni di squadra, che sotto la doccia lo hanno riempito di scemenze, e a quella bestia di allenatore che, dopo la doccia, dietro un’espressione fintamente corrucciata, gli ha chiesto di andare via dalla squadra, facendo spallucce e riempiendolo di idiozie biascicate. 

E dire che è passato quasi un secolo dalla vergogna di Carcano, una vicenda che la nostra memoria ha colpevolmente rimosso. Siamo nel 1934. L’allenatore Carlo Carcano, fautore assieme a Vittorio Pozzo dello schema tattico del Metodo, è anche uno dei principali teorici della cosiddetta scuola alessandrina. Ha guidato la Juventus alla vittoria di quattro scudetti consecutivi e, da allenatore in seconda, ha accompagnato la Nazionale alla vittoria del Mondiale del ‘34. La sua buona stella si eclissa il 10 dicembre dello stesso anno, quando Edoardo Agnelli lo convoca e gli comunica l’esonero con effetto immediato. La sua relazione con un giovane calciatore sudamericano era stata scoperta e l’Italia fascista detestava gli omosessuali. Con una battuta infelice, potrei dirti che qui non è proprio cambiato nulla, in ogni senso,  ma lasciamo stare la politica.

Che, tuttavia, si respiri ancora quell’atmosfera d’ostracismo verso i gay è purtroppo innegabile, altrimenti, ragionando a contrario, non ci sarebbe stata nessuna mia lettera e il tuo non sarebbe stato un gesto da sottolineare. E invece siamo qui a sottolinearlo e a considerare che sia giusto farlo. È proprio così, caro Jakub, il giorno in cui non dovremo più stare qui a sottolineare un bel niente, anzi, il giorno in cui non ci sarà più nessun cavolo di coming out da fare, quello sarà il giorno in cui il mondo del calcio sarà migliore, sarà normale. Il mondo, tutto, quel giorno sarà un mondo normale, perché il calcio non è migliore o peggiore della società reale, è il suo specchio. Ma siamo lontani. 

Dopo il fattaccio di Carcano, abbiamo purtroppo assistito, nei decenni, e fino ai giorni nostri, a innumerevoli scivoloni, frasi infelici, outing tardivi, cori idioti, esaltazione degli stereotipi maschilisti e storie finite male, come quella di Justin Fashanu. Attaccante inglese di origini nigeriane che ha girato quasi tutta la Gran Bretagna, fu il primo a fare outing. Suo fratello John, l’idolo di Teo Teocoli strombazzato con voce stridula a Mai Dire Gol, decise di tagliare i ponti con lui. E anche la comunità nera gli si schierò contro. Justin visse da solo per qualche anno, in balia della disperazione, poi si suicidò nel 1998, impiccandosi con un cavo elettrico dopo essere stato indagato per abusi su un ragazzo. Eh sì, siamo ancora lontani dalla luce, caro Jakub. Siamo talmente lontani da avere appena celebrato i mondiali, disputati in un Paese dove l'omosessualità è ancora un reato. Siamo lontani anni luce! L’unica cosa che ci abbaglia è una ipocrisia strisciante, è l’altare del mainstream su cui spesso e volentieri sacrifichiamo verità e coraggio, è il politicamente corretto che tiriamo fuori solo a convenienza. 

Perciò, oggi ti scrivo e ti dico grazie. Da queste parti ti avevamo apprezzato nell’Udinese e in blucerchiato, oggi ti apprezziamo tutti un po’ di più, molto di più. Apprezziamo il tuo gesto, la tua onestà, il tuo desiderio di normalità. La normalità. È questa la sfida! Una sfida che dobbiamo vincere tutti insieme, etero, trans, omosessuali e “ognunofacciaciochevuole”, senza però cedere alla tentazione delle estremizzazioni, magari per rabbia o anche solo per una voglia matta, e legittima, di affermare la propria sessualità. Ma non è questa la strada. La strada non è l’ostentazione e nemmeno quella sorta di omofobia alla rovescio, che genera comportamenti quasi settari.  Non sono i carnevaleschi Gay pride e nemmeno i baci voluttuosi dal palco di Sanremo. E non sono le prese di posizione oltranziste da “cerchia ristretta”. No. a mio modesto parere, la via maestra deve essere la normalità ed essa non abbisogna di ostentazioni, vieppiù se volgari, e non abbisogna di reazioni spropositate. La normalità ha solo bisogno di compostezza, altrimenti ogni azione, gesto o parola sopra le righe diventano eccesso soverchiante, se non grettezza esasperata, se non imposizione ad ogni costo.  La normalità non va imposta e non va neppure pretesa ad ogni costo. Va vissuta, punto e basta. 

Concludo queste mie righe con le parole di Saffo, un’antichissima poetessa, anche lei ostracizzata nei secoli per la sua presunta omosessualità: «C'è chi dice sia un esercito di cavalieri, c'è chi dice sia un esercito di fanti, c'è chi dice sia una flotta di navi sulla nera terra la cosa più bella, io invece dico che è ciò che si ama».
In fondo, caro Jakub, è di questo che stiamo parlano, no?
Buona vita...