L’economia è una cosa seria. Se non è la prima, è di certo una delle più importanti in Brianza, mia terra natia. Non è infatti un caso che noi brianzoli veniamo molto spesso additati come taccagni, definizione non poi così lontana dal reale. Un difetto che però nasconde dietro di esso una grande forza, quella dell’oculatezza. Non è infatti vero che il brianzolo non spende mai. Più che altro, il brianzolo non ama buttare i soldi. In chiave aziendale infatti, chi butta i soldi rischia il fallimento. E il fallimento è da sempre visto come una catastrofe, una disgrazia, una cosa di cui vergognarsi (il che, all’avviso dello scrivente, è quanto meno esagerato). Motivo per cui, il taccagno brianzolo, prima di aprire il proprio portafoglio deve fugare ogni dubbio, in particolare riguardo al fatto che: 

    • L’investimento sia conveniente e produttivo
    • Le sue tasche siano in grado di sostenerlo

Senza queste due certezze, il suo portafoglio diventa più inespugnabile di Fort Knox. E se da una parte a volte questa situazione è irritante (da brianzolo lo posso dire), dall’altra è forse uno dei motivi fondanti per cui questa terra, che mi ha dato i natali, è da tempo uno dei più importanti poli aziendali italiani ed europei. Questo perché ha sempre trattato l’economia per quello che è: una cosa seria. Ed essendo dunque questa la mia formazione, ogni volta che sento o leggo i nomi di Yonghong Li ed Han Li, il sangue mi si raggela dentro le vene. Sensazione che purtroppo ho dovuto provare per l’ennesima volta proprio ieri, dopo aver disgraziatamente le ultime dichiarazioni rilasciate dall’ex numero 2 del Milan cinese. 

“Abbiamo dovuto mettere in media 10 milioni di euro al mese, ma i capitali di cui aveva bisogno in origine il club erano molti meno. Abbiamo dovuto investire più capitale nella società, nel club. Era molto più di quanto ci aspettassimo” - Han Li, intervista rilasciata a Forbes.

Era molto più di quanto ci aspettassimo. A sentire simili parole, mi ritorna purtroppo alla mente uno breve stralcio del mio periodo di apprendistato. In quel tempo, il mio studio ricevette una richiesta di consulenza, da parte di due giovani ereditieri. Questi avevano preso da poco le redini della ditta di famiglia, a causa della scomparsa del loro padre, il quale aveva pensato bene di lasciare loro anche una cospicua cifra in denaro. Fatto che i due fratelli avevano disgraziatamente pensato di spifferarlo ai quattro venti, con il risultato che si videro recapitare numerose proposte di vendita. Chi gli voleva vendere la propria villa, chi il proprio maneggio, chi il proprio ristorante, chi la propria azienda ecc. ecc. E tra tutte queste proposte, i due imprenditori in erba trovarono quello che definirono l’affare della loro vita. Si trattava di un’azienda del settore calzature, di cui i due baldi giovani avrebbero cercato di rilanciare, dopo un periodo di intensa crisi. Sebbene al tempo fossi un semplice analista, che passava gran parte del suo tempo dietro la scrivania, mi ricordo bene le parole espresse da uno dei due. “È un affare. Il proprietario ce la vende per due lire e noi sappiamo bene come farle spiccare il volo.”. Per quanto l’ambizione e l’energia giovanile siano cose stupende, un po’ di raziocinio non guasta mai. Motivo per cui, insieme al mio titolare, analizzai bene la situazione. Per farla breve, quell’azienda era un vero e proprio buco nero mangia soldi. Fatturati in calo, margini inesistenti, utili azzerati, debiti in crescita. Il vecchio proprietario aveva dovuto svenarsi per tenerla a galla, ricollocando i dipendenti in eccesso in altre realtà, piuttosto che lasciarli senza stipendio. Per tale ragione, il nostro responso fu unanime e glaciale. “È un grande rischio. Se credete veramente in questo progetto, ci sarà da tirare la cinghia per qualche anno. Ricordatevi che, al di là del business, ritirate un grande marchio, nonché la responsabilità di trenta dipendenti.”. Ovviamente, parole gettate al vento. Pagata la nostra consulenza, i due giovani imprenditori conclusero l’affare e sparirono dai nostri radar. Questo fino a un anno fa quando, leggendo il giornale in pausa pranzo, lessi un articolo che descriveva il fallimento del loro progetto. Fallimento che i due, intervistati dal quotidiano, bollarono così: “non credevamo che l’azienda costasse così tanto. Dispiace per i dipendenti, ma alla fine chiuderla era l’unica soluzione”. Data la pura, cruda, abissale idiozia di una simile dichiarazione, ci mancò poco che, dalla furia, mi mangiassi anche il giornale. 

Torno a ripeterlo: l’economia è una cosa seria. Come la Legge, con la elle maiuscola, non ammette ignoranza. Ammette il rischio, questo è ovvio. Ma solo quando questo è calcolato. Sebbene la fortuna possa giocare un ruolo, è pur sempre marginale se alla guida dell’azienda si mettono persone raziocinanti. Perché quella dell’imprenditore è una partita in cui i non sapevo, non credevo, non pensavo non sono ammessi. Parafrasando un personaggio di fantasia del cinema a me caro, il verdognolo Yoda, di Guerre Stellari, “fare o non fare, non c’è provare”. E quando si vuole fare, bisogna avere dalla propria tutti i sacri crismi della situazione. Tutto ciò che, com’è mancato a quei due giovani imprenditori in erba, era pressoché inesistente nella concezione che i due Li, approdati e fuoriusciti dal Milan, hanno dell’economia. Due che al mio paese verrebbero bollati con il termine offensivo di poveri arricchiti. Termine che, dalle mie parti, può tradursi in due modi, entrambi assai pessimi: 

    • Essere estremamente taccagni, perché si è nati in povertà e si ha paura di ritornarci
    • Essere talmente inetti con il denaro, da bruciare miliardi in meno di un secondo

Avere molti soldi a propria disposizione, non significa essere in grado di gestire un impero finanziario. Tutt’altro. Significa avere enormi responsabilità, perché il denaro è come benzina. Più ce n’è, più una semplice scintilla può bruciarne a ettolitri in pochi istanti. E quando si è così, si è pericolosi economicamente e socialmente parlando. Gazidis non mente quando dice che il Milan stava per finire in serie D. Per comprenderlo, basterebbe confrontare i bilanci dell’ultima epoca Berlusconi e i primi (nonché unici) dell’era Li. Sebbene entrambi in rosso, la variazione in negativo portata dalla gestione cinese è tremenda. Gestione che, proprio come dice quello che fu il n° 2 di tutta la faccenda, nacque appunto non sapendo. Non sapendo che il Milan era una barca piena di falle, che andava prima di tutto rappezzata. Non sapendo che nel calcio che conta, il denaro zampilla dalle casse, come sangue vivo da un’arteria aperta. Non sapendo che il Milan è un brand e una realtà sociale di estrema importanza, prima che un business. Non sapendo che l’economia, come il calcio, è una cosa seria, fatta da e per persone serie, o almeno così dovrebbe essere. 

In conclusione, se potessi parlare con i signori Li, mi piacerebbe mandare loro un messaggio. Egregi signori, se svariate due diligence non sono bastate a farvi capire le criticità che andavate a sobbarcarvi acquistando il Milan, forse sarebbe meglio farsi un paio di domande. Forse il mondo del calcio, lato economico, non è stato così semplice da comprendere, per voi. Forse, nonostante i vostri successi in altri ambiti, il settore calcio vi è di fatto avulso. Forse, per una volta, avete fatto il passo più lungo della gamba, senza volere. Ma se così non fosse, se tutto ciò che è accaduto è stato fatto con cognizione di causa, allora si pregano lor signori di evitare simili sparate mediatiche. Perché se da una parte l’ignoranza non sia un reato, dall’altra prendere in giro lo è di certo, almeno dal punto di vista morale. Come si dice dunque dalle mie parti, ciapum minga per ul cu*

Un abbraccio.

 

*non prendiamoci per il deretano