Oggi è il giorno di Natale 2021 e l’articolo che volevo scrivere il 4 novembre 2021, circa cent’anni dopo la fine della Grande Guerra, non vorrei tralasciarlo. Anzi è bene ricordare indipendentemente dalle ricorrenze.
I miei nonni sono stati due reduci della Prima Guerra Mondiale e sono mancati da tempo. Questo lo so da sempre, ma recentemente, nel corso di un trasloco, ho trovato una scatoletta piatta e larga che conteneva delle medaglie del Primo Conflitto Mondiale. Ricordo che da giovanotto entrambe le nonne le avevano affidate a me, il più giovane erede, forse perché sognavo di intraprendere la carriera militare. Così non è stato, se non per un anno di leva.
Ma ora, osservando attentamente le medaglie, appese ai loro nastrini, ho cercato di comprendere un poco, se non la loro storia, almeno il loro significato.
Una serie di onorificenze, quella del Nonno che svolse servizio come meccanico e che non fu coinvolto direttamente dai combattimenti, era molto ben curata, quasi come fosse nuova, compresa la medaglia d’oro da Cavaliere di Vittorio Veneto.
L’altra serie, del nonno combattente, era composta da due sole medaglie che avevano entrambe, attaccato all’anellino, un piccolo nastro multicolore sbiadito e liso.
In entrambe le serie è presente la medaglia commemorativa della Vittoria con l’effige di Re Vittorio Emanuele III con l’elmetto con la scritta “Guerra per l’Unità Nazionale 1915-1918” e sul rovescio della medaglia l'immagine della Vittoria stilizzata e alata e la scritta “Coniata nel bronzo nemico”. Queste due medaglie, identiche, consegnate alla fine della guerra ad ogni reduce, mi hanno ispirato l’idea di svolgere delle ricerche per capire il ruolo avuto dai miei due nonni nella Grande Guerra.
Attività che inizierò prossimamente.
Uno dei due nonni non l’ho conosciuto, ma mi raccontarono che non parlava mai della guerra, se non per un episodio di quando era stato ferito. Dove? Non lo so ancora. Le scritte su una delle due medaglie mi dissero quanto fosse stata dura la guerra per questo nonno: le incisioni sulla decorazione, narrano di Gorizia,  Divisione Pavia, la prima Divisione ad entrare nella città, a riconoscimento della conquista di Gorizia, durante la Sesta Battaglia dell’ Isonzo il 9 Agosto 1916, battaglia che costò tantissime vite umane, sul Monte Sabotino e sul Podgora. E’ possibile che mio nonno fosse stato ferito in uno di questi combattimenti. Qualcuno ricorderà la canzone “O Gorizia tu sei maledetta……”. La cantavano i fanti che con il loro sangue tentavano di conquistare Gorizia.
La strofa che parla di quella città è: “…O Gorizia tu sei maledetta Per ogni cuore che sente coscienza Dolorosa ci fu la partenza E il ritorno per molti non fu…”.
La maledizione non era rivolta alla città né ai cittadini, ma all'obiettivo militare...
Povero Nonno, quando fu ferito, dovette trovarsi in circostanze molto gravi. La nonna mi raccontò che, dopo uno scontro cruento, il nonno ferito ad una gamba, stava attendendo i barellieri, quando, poco distante da lui, sentì un suo commilitone lamentarsi e chiamare mamma, con il suo stesso accento dialettale... Strisciando sul fango, sui gomiti, si avvicinò al commilitone ferito lo guardò in faccia: una maschera di sangue e fango. Cercò di parlargli per rincuorarlo. Scaturì questo dialogo:
“Chi t’es?" (chi sei?) chiese mio nonno in Piemontese, nel dialetto del suo paese vicino a Bra.
“Son Giacu” (Sono Giacomo) rispose l’altro irriconoscibile.
“Si, ma Giacu d’an dova” (si, ma Giacomo di dove?) chiese il nonno
“Son Giacu d’ la Pranda!”
“E Mi son Giuvan ed la Pranda.”
Si riconobbero fratelli, si abbracciarono in qualche modo versando calde lacrime in un lungo pianto liberatorio quasi fossero arrivati a casa.
La Pranda era una borgata dove viveva la famiglia di mio nonno e Giacu era suo fratello. Su 11 figli maschi, 9 erano stati arruolati. Povera bisnonna!
I due fratelli feriti attesero assieme i barellieri, mio nonno riuscì in qualche modo a pulirgli il viso e a pulirsi a sua volta, così riuscirono a sorridersi. Avevano praticamente combattuto, fianco a fianco, ignari, per ritrovarsi in un cumulo di corpi di fanti morti e feriti. Si aiutarono l’un con l’altro e riuscirono ad attendere i barellieri i quali finalmente arrivarono e li trasportarono prima all’ospedale da campo e dopo all’ospedale delle retrovie dove rimasero circa un mese quando, in conclusione, furono mandati a casa in licenza di convalescenza. Immaginarsi la felicità della bisnonna che vide tornare a casa vivi due dei suoi figlioli.
Li curò con amore e così bene che guarirono perfettamente, purtroppo troppo presto così tanto da dover nuovamente partire per il fronte.
Mi raccontarono che qualche mese dopo la povera bisnonna, quando le lessero il telegramma che le annunciava il terzo figlio “Caduto sul campo dell’onore”, fosse svenuta per non riprendersi più.
Anche l’altro nonno mi raccontò un fatto importante. Dalla sua postazione alla linea di Caporetto c’erano pochi chilometri. Lui fu sfiorato dall’attacco Tedesco e Austriaco, ma non fu coinvolto né dai gas né dalla cruenta battaglia, anche se vide molte cose di cui non volle parlarmi.

Mi sono documentato con dei filmati su Caporetto. Probabilmente mio nonno non mi riferì degli innumerevoli cadaveri che trovarono sul campo uccisi dai gas e dei superstiti finiti con un colpo di mazza ferrata sulla testa.
Ho letto che da quel giorno gli Italiani non fecero prigionieri Tedeschi se non eccezionalmente per gruppi particolari.

Anche l’altro mio nonno non fu coinvolto se non marginalmente, poiché la Divisione Pavia apparteneva alla III Armata comandata dal Generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta che la porto invitta sul Piave.
Non visitai mai quei luoghi di dolore, ma un giorno, passando per la Lorena, disseminata di cimiteri militari, volli visitare Verdun.
Ero desideroso di capire e ricordare.
Per arrivare al cimitero dei caduti, la strada si inoltrava per la foresta, segregata al pubblico da una rete su cui erano affissi cartelli che avvertivano della presenza nel bosco di ordigni esplosivi. Era un bosco cupo e buio in cui si intuiva la presenza di un ambiente mefitico. In un avvallamento un cartello avvertiva che in quel punto sorgeva Fleury, un paese disintegrato dalle bombe di cui rimaneva solo una pietra appartenente alla fontana nella piazza del paese. Colpito da questa visione da incubo, mi avvicinai al cimitero di Verdun per scoprire che è enorme, una distesa di croci a perdita d’occhio, di cui quasi non se ne vede la fine, seppur disposta su un anfiteatro naturale costituito da una collina dalle pendici convesse. Quel cimitero, quei boschi attorno a quel paese polverizzato che un tempo si chiamava Fleury erano il risultato della battaglia fra Francesi e Tedeschi iniziata il 2 Febbraio 1916 per proseguire con un lunghissimo parossismo durato troppo tempo, ben 10 mesi, senza che risultasse nessun vincitore. Mi fece riflettere, mi fece comprendere come quando vidi i Campi di Sterminio e i cimiteri delle spiagge della Normandia avendo sempre la stessa emozione dolorosa per tutte le vittime. La mia riflessione mi portò a pensare a che cosa può portare la brutalità di pochi uomini, il loro orgoglio, la loro ambizione. Si dice comunemente che serve comprendere perché fatti come  questi non debbano a  ripetersi mai più.
Così avrebbe dovuto essere, invece e purtoppo il genocidio perpetuato in Cambogia con Pol Pot, il Vietnam, l’Algeria, i vari genocidi in Africa, la pulizia etnica nella ex Jugoslavia con relativi campi di concentramento dove la gente moriva per fame, i Desaparecidos in Argentina ai tempi della dittatura di Videla e i crimini in Cile di Pinochet!!
E adesso?
Se si mettessero sul Mar Mediterraneo tutte le steli dei morti annegati rivolte verso La Mecca, che dimensione avrebbe quel cimitero sulle acque del Mare Nostrum? E le steli verso la mecca in Afganistan che aumentano giorno per giorno da quando i Talebani sono stati abbandonati a se stessi, di nuovo liberi di agire, di stuprare, di infibulare, di imporre il burka e l’ignoranza alle donne nel migliore dei casi sottomesse all’uomo fin da bambine?
Queste sciagure umane, temo inarrestabili, causeranno profonde cicatrici nelle nostre civiltà come già si é verificato in molti Paesi e città. Quindi mentre visitiamo quei posti e formuliamo dei buoni propositi “non accadrà più” nello stesso momento in qualche parte del mondo sta accadendo di nuovo, con le stesse modalità, se non con maggiore brutalità, in un mare di indifferenza.

Fermiamoci qui. Continuiamo a sperare in giorni di festa quando qualche successo di pace si  verificherà, grazie allo spirito di conservazione dell’uomo.
Per concludere riporto il paradosso di Prezzolini che ci insegna come imparare dalla storia.
Egli sostiene:
"Se volessi esprimermi paradossalmente, direi che Caporetto è stata una vittoria, e Vittorio Veneto una sconfitta per l'Italia. Senza paradossi si può dire che Caporetto ci ha fatto bene e Vittorio Veneto del male; che Caporetto ci ha innalzati e Vittorio Veneto ci ha abbassati, perché ci si fa grandi resistendo ad una sventura ed espiando le proprie colpe, e si diventa invece piccoli gonfiandosi con le menzogne e facendo risorgere i cattivi istinti per il fatto di vincere".
Buon Anno a Tutti, che sia di tanta operosità e salute.
“Maroso.”